Sei passeggiate nei romanzi di Umberto Eco

Il nome della rosa, Il pendolo di Foucault, L’isola del giorno prima, Baudolino, Il cimitero di Praga. Viaggio labirintico attraverso i romanzi di Umberto Eco, eccetto La misteriosa fiamma della Regina Luana e Numero zero che non mi hanno ispirato particolari riflessioni. Il silenzio, il complotto, il falso, l’inganno, il mistero. Tutte i grimaldelli per schiudere gli universi narrativi di Eco, con un’intervista finale sul romanzo storico.

 

1) IL NOME DELLA ROSA

da Silenzio della fede e silenzio della conoscenza: “Il nome della rosa” e “Il pendolo di Foucault” «Philosophema», n. 11-12, 1991.

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Il nome della rosaIl silenzio, dunque, come più alta forma di conoscenza e come ultimo riscatto. Ma il silenzio anche come inevitabile alternativa all’inesistenza di un sapere sensato.
Non sappiamo quanto Eco abbia voluto dare senso al “suo” silenzio, di quanta importanza abbia voluto investirlo; possiamo solo immaginare una molteplicità di sensi che il silenzio, con la sua eloquenza, esprime: tanto più se si tratta del silenzio della conoscenza, del sapere umano, della possibilità stessa di capire e di spiegare l’ordine del mondo.
Un silenzio quindi potente, più potente dello stesso commento il quale definendosi si limita, un silenzio immenso che sottintende tutto e non dichiara nulla.
Per Eco, tuttavia, il vero silenzio che tace per non dire è quello della Fede, il silenzio che nasconde la realtà per alimentare la paura è quello del timor di Dio: si deve distruggere tutto ciò che crea distacco come il riso, poiché esso uccide la paura e senza la paura non c’è Fede.
Questo è ciò che aveva capito Jorge da Burgos, il vegliardo cieco de Il nome della rosa, che attraverso il suo eccessivo amor di Dio aveva incarnato l’Anticristo e nel difendere la sua verità contro l’altrui menzogna aveva fatto morire tutti i suoi fratelli e lui stesso insieme ad essi.
Anche qui, come ne Il pendolo di Foucault, esiste un sapere profondo e misterioso che si cela nella labirintica biblioteca di una sperduta abbazia dell’alta Italia, un sapere non da scoprire ma da nascondere, per il cui possesso muoiono sette uomini in sette giorni secondo una catena di delitti scandita dal suono delle sette trombe dell’Apocalisse.
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Abbazia dell'Alta ItaliaÈ dunque nel secondo libro della Poetica di Aristotele che si annida l’eresia paventata ed esorcizzata da Jorge; è proprio nel punto in cui si elogia il riso come forma d’arte e di sapienza che si autorizza a deridere la paura della morte e a dissacrare ogni valore della Fede.
Il riso capovolge l’alto con il basso, esalta lo stolto e dileggia il saggio, trova la sua massima espressione nella Festa dei Folli in cui viene rappresentato un mondo alla rovescia, scardinato nei suoi valori cristiani e ricostruito su valori profani, sacrileghi e demistificanti.
Se poi è la massima autorità filosofica che nobilita questa forma oscena e insana di espressione e la innalza a valore di purificazione, allora deve essere distrutta ogni traccia che possa documentare tale eresia legittimando il distacco di Dio, l’infedeltà e la miscredenza.
Per questo Jorge, nel suo misticismo esaltato e perverso decide di sottrarre il prezioso manoscritto a tutte le possibili traduzioni e interpretazioni che i monaci dell’abbazia attraverso la loro ponderata sapienza potevano operare e tramandare; per questo egli avvelena le pagine del libro in modo che chiunque cerchi di sapere la verità racchiusa nel testo trovi la sua morte secondo il disegno della volontà di Dio.
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E paradossalmente ridendo Jorge muore. Ma non gli basta fare di se stesso la tomba del sapere di Aristotele ma fa anche della biblioteca la tomba di tutta la scienza ivi racchiusa, scatenando un incendio a catena che devasta tutte le sale e gli scaffali dell’immenso edificio, trasformandolo in un inferno apocalittico in cui tutta la preziosa cultura, conservata e tramandata per secoli dai monaci dotti, si estingue definitivamente senza lasciare più traccia.
A causa dell’eccessivo timor di Dio e dell’insana fede nella Verità, l’inestimabile patrimonio bibliografico viene quindi ridotto in cenere e tutta l’abazia, compresi la chiesa, il chiostro, l’ospedale e i dormitori, vengono distrutti e convertiti in un cumulo di salme e di rovine.
Così finisce il mistero dei molteplici delitti consumatisi all’interno della cinta abaziale, sullo sfondo della disputa ideologico-religiosa tra domenicani e francescani; così si conclude la storia di una verità sempre bramata e mai posseduta, per il rispetto della quale sono state distrutte centinaia di opere somme e ridotti per sempre al silenzio i loro autori.
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2) IL PENDOLO DI FOUCAULT

da Silenzio della fede e silenzio della conoscenza: “Il nome della rosa” e “Il pendolo di Foucault” «Philosophema», n. 11-12, 1991.

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Il pendolo di FoucaultSullo sfondo di un intersecarsi di scienze occulte, società segrete e complotti cosmici, tre redattori editoriali di Milano, attraverso la frequentazione di autori piuttosto sospetti e la pubblicazione di opere alquanto insolite, si imbattono involontariamente in un testo che sembra indicare una Mappa da seguire per la rivelazione di un mistero profondo, di un segreto nascosto, che racchiude la verità ultima del mondo.
La ricostruzione del Piano da attuare per il raggiungimento di tale conoscenza avviene attraverso l’interpretazione stessa della Storia, scandita da appuntamenti presso alcuni luoghi deputati in diversi paesi europei, che i vari ordini religioso-militari di natura mistica ed esoterica hanno rispettato nei secoli per scambiarsi i loro frammenti di testimonianze, finalizzati a un disegno universale di riforma del mondo.
Si cerca dunque una verità, la Verità, il senso ultimo dell’esistenza. Si vuole rincorrere un mistero che per secoli ha ammantato il sapere umano. Si tenta di violare un segreto che nasconde in sé l’essenza stessa della conoscenza. Si aspira insomma con tutte le forze diaboliche, sotterranee, magiche e occulte ad appropriarsi di una scienza che significa potere, elargisce dominio e investe di controllo tutti coloro che, possedendola, la esercitano.
È un Piano immenso, potente e fascinoso di appropriazione e dominazione che impaurisce e seduce allo stesso tempo, dal quale non è facile fuggire o salvarsi, soprattutto quando per curiosità indiscreta o per ingenua sprovvedutezza ci si è precipitati dentro, dando forse troppa fede alla sua veridicità.
Ed è ciò che succede ai tre protagonisti, tutti sedotti dal fascino del mistero e dalla passione per l’enigma, e tutti destinati a trovare in diversi modi la loro fine per aver inventato un Piano che non esisteva e per aver fatto credere ad altri che ci fosse una Mappa da conoscere per possedere il mondo. E invece era tutto un non senso. Un’invenzione ridicola. Una follia che portava alla morte. Una verità inesistente. Il non-essere totale.
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Il pendolo nel PantheonL’unica cosa da capire in tutta la Storia è che non c’era nulla da capire. L’unica certezza da raggiungere era che il Piano era inventato e la Mappa non esisteva. L’unico modo di salvarsi dalla morte era quello di stare al gioco dei diabolici e far finta di sapere quello che Essi volevano sapere. La Verità. Ma non c’era nessuna verità. Se non quella che essa non era mai esistita.
Ormai è troppo tardi però. Nessuno può credere che il messaggio di Provins, contenente il senso di tutto il Piano, abbia lo stesso valore di una lista della lavandaia. Nessuno può convincersi che non esista un sapere da possedere, una scienza da trasmettere e un mistero da perpetuare. La Storia deve pure avere un senso e la conoscenza una sua finalità.
Eppure sembra che tutto ciò non si realizzi in nessuna formula del sapere umano e in nessun ordine della realtà esistente, ma finisca invece nel vuoto, nel nulla, nel non senso, dove il commento non ha più ragion d’essere e lascia spazio al silenzio. E nel silenzio finisce la vera conoscenza. Quando ormai si sa già tutto e non ha più senso spiegare, confessare, trasmettere.
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Ed è questo l’unico modo per essere davvero potenti, quello di non esprimersi per far credere che esista sempre qualcosa da cercare di incognito e di arcano, che tenga impegnati ancora per altri secoli frotte di diabolici attorno a messaggi indecifrabili, a segreti insondabili, a misteri impenetrabili.
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3) L’ISOLA DEL GIORNO PRIMA

da “L’isola del giorno prima”: la ricerca dell’impossibile Lettera aperta a Umberto Eco, «Philosophema», n. 15-16, 1994.

Caro Professore,

L'isola del giorno primase è vero che nel Seicento si scriveva in modo aggraziato ma senza rilevanti contenuti, poiché si trattava di gente senz’anima – con tutto quello che si dava da fare per comprendere l’incognito significato dell’intero Universo – è pur vero che in questo secolo si trova chi scrive con grande ingegno, giocando con tanti registri narrativi, per arrivare infine a decretare l’impossibilità stessa della “fine” di un romanzo, o per essere più precisi di un metaromanzo.
È indubbio che ogni Suo romanzo si sviluppi essenzialmente seguendo un raffinato processo di interpretazione. Alla base di ogni testo, per quanto narrativo, esiste sempre un’attenta ricerca di decodificazione attraverso la quale prende forma la storia romanzata.
Ma se ne Il nome della rosa era Baskerville a interpretare i simboli dell’Apocalisse, se ne Il pendolo di Foucault era Casaubon a interpretare i messaggi di Abulafia, ne L’isola del giorno prima è l’Autore stesso che interpreta le lettere d’amore prima e i capitoli del romanzo poi, del suo protagonista.
L’Autore dunque si fa artefice della storia che narra e allo stesso tempo diventa il Lettore di quelle stesse carte da cui attinge la materia del suo romanzo. É una sorta di Io epico che “interviene” nella storia come autore, come spettatore e spesso anche come critico.
Ma ciò che risulta particolarmente ingegnoso e allo stesso tempo ingannevole in tale processo è il fatto che questo itinerario esegetico non porta mai, come ci si potrebbe aspettare, a una scoperta risolutiva – dell’enigma, del sapere, della natura – ma al contrario conduce sempre verso l’impossibilità di conoscere o più sottilmente verso quella di essere.
Per questo ritengo che il tratto più fascinoso e – mi permetta – anche il più perverso di ogni Suo romanzo è quello di condurre abilmente il lettore lungo le trame di una storia la cui fine riposa sempre su un Inganno.
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Le isole Fiji sull'AntimeridianoQuesta volta, però, l’inganno contenuto nell’assenza di una fine del romanzo (o meglio del romanzo che narra di un uomo che scrive un romanzo) credo si spieghi nel fatto che si sia voluto infrangere una convenzione.
Come giustamente Lei osserva, nel romanzo “si fa finta di raccontar cose vere, ma non si deve dire sul serio che si fa finta”. Roberto (o Eco per lui?), decidendo di dare senso alla sua vita entrando nel suo romanzo, vìola la convenzione narrativa dell’affabulazione. Con l’innestare la realtà nella fantasia egli scardina il processo di finzione e appropriandosene l’annulla. Sfuma dunque ogni forma di metanarrazione – il protagonista del romanzo dell’Autore sparisce nelle pieghe del suo stesso romanzo – e, come è prevedibile, non resta alcuna traccia della sua fine.
Così il romanzo finisce col non dire, o meglio col dichiarare che non è possibile concludere laddove non c’è altro da commentare, e questo – mi perdoni ma ognuno ha i suoi pallini – non è altro che l’espressione estrema del Silenzio.
Dopo il silenzio di Jorge che tace per non tradire la Parola di Dio, dopo il silenzio di Casaubon che tace per non avvilire la Dignità dell’Uomo, dopo ancora il silenzio di Roberto che tace (suo malgrado) perché non riesce ad assegnare nomi appropriati alle cose che vede, ecco infine il silenzio dell’Autore che tace perché ha concluso la sua riflessione esegetica intorno alle carte del naufrago e, dal momento in cui Roberto svanisce inghiottito dalla sua stessa fantasia, ritiene che non ci sia più altro da aggiungere.
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E così come lettrice mi compiaccio (paradossalmente!) proprio di questo finale. Anche a me, come all’Autore, piace salutare Roberto per l’ultima volta pensandolo affidato al destino delle acque, che nuota coraggioso contro un’infausta corrente – lui che non tollerava nemmeno di bagnarsi – che osserva la Colomba Color Arancio involarsi verso il Sole – lui che non sopportava le più pallide luci del giorno – conservando nel cuore la passione per la donna amata e nella mente il pensiero del Punto Fisso, con l’ostinato intento di conquistarli entrambi.
Anche se – ma questo lo sappiamo solo io e Lei che viviamo in questo secolo – egli non riuscirà mai a raggiungere, per quanto si inganni, né l’una, né l’altro.

 

4) BAUDOLINO

da L’immaginario di “Baudolino” , «La Scrittura», n. 14-15, 2002.

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BaudolinoTutta la narrativa di Eco riposa – e non poteva essere altrimenti – sul meccanismo dell’interpretazione. Interpreta Baskerville i segni delle sette trombe dell’Apocalisse per comprendere la sequenza degli omicidi; interpreta Casaubon i file del computer Abulafia per individuare i disegni del Piano; interpreta persino l’Autore gli scritti del naufrago per ricostruire la mentalità (e la visionarietà) del Seicento; interpreta, quindi, lo stesso Niceta Coniate i racconti (presunti falsi) di Baudolino, arrivando a svelarne, paradossalmente, l’intrinseca verità. É lo storico Niceta infatti, con l’aiuto del veggente Pafnuzio, che mostra a Baudolino come realmente è morto il padre Federico, a dispetto di tutte le congetture fatte intorno alle mirabolanti invenzioni del castello di Ardzrouni. Ed è proprio quello storico, che per mestiere deve dire la verità, a illuminare un bugiardo che, pur cosciente delle proprie menzogne, non si era mai accorto di vivere nell’inganno.
D’altra parte è intorno al contrappunto tra la narrazione fantastica di Baudolino e le integrazioni storiche di Niceta che si snoda tutto il romanzo, laddove le imprese favolose del protagonista si intersecano con le vicende dell’impero di Federico II, e l’incredibile missione in Oriente dei Re Magi si conclude con il colossale incendio di Costantinopoli. Ma al di là del continuo rimando tra cronaca e leggenda, in cui spesso si stenta a credere alla realtà e ci si lascia persuadere dalla fantasia, il tratto che più contraddistingue questo romanzo dai precedenti consiste nell’ingegnosa alternanza tra un registro popolare-farsesco che caratterizza le grottesche vicende della città di Alessandria (la fondazione, l’assedio, la liberazione, il cambio del nome), la “ruspante” famiglia d’origine del protagonista (mirabilmente divisa tra miseria e saggezza), lo sfortunato matrimonio di Baudolino e Colandrina (con lo struggente episodio del figlio nato morto: «bugia della natura») e, di contro, un registro filosofico-sapienziale che modula le intricate dispute dei compagni di Baudolino (prima fra tutte l’irresistibile disquisizione sull’esistenza o meno del vuoto tra il Boidi e Borone), le spiegazioni dei prodigiosi marchingegni nel castello di Ardzrouni (dove si compie il misterioso delitto di Federico), ma soprattutto il confronto tra le innumerevoli eresie delle diverse “razze” di Pndapetzim (compresa, naturalmente, l’affascinante digressione sulla natura di Dio e sul ruolo delle ipazie).
Scena medievaleUn perfetto intreccio tra stile alto e stile basso, tra sottile ironia intellettuale ed esilarante paradosso popolare, in cui si verifica quello che lo stesso Eco ha spiegato di recente (Sulla letteratura, Bompiani, 2002), laddove afferma che una delle eccezioni di Baudolino consiste nel contraddire il principio – costantemente osservato negli altri romanzi – che è la costruzione del mondo a determinare il linguaggio, dal momento che in questo caso è invece lo stile a generare personaggi, ambienti e situazioni. L’altra importante eccezione, di cui parla Eco nello stesso testo, è la sostanziale mancanza di un’idea seminale, a fronte di un insieme di idee che hanno dato vita ai momenti più salienti del romanzo. Vero, il delitto nella camera chiusa, la resa dei conti tra i cadaveri mummificati, la sapiente costruzione dei falsi sono tutti motivi legati a scene ben precise che non danno ragione della struttura complessiva dell’opera. Tuttavia, se Baudolino costituisce un’eccezione (stilistica e strutturale) rispetto ai romanzi che lo hanno preceduto, ne rappresenta al contempo la sintesi dei principali motivi, riproponendo ogni tema essenziale di quei romanzi all’interno di un contesto diverso.
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Vi è, infine, un altro motivo che, per la verità, è sempre presente nei romanzi di Eco, ma solo in quest’ultimo lo si percepisce con una forza così intensa e distinta: quello dell’Eros. Tutti i protagonisti di Eco sono attraversati da brividi di grande passione, che sia quella peccaminosa della carne, quella vulnerabile del legame amoroso o quella edulcorata per una donna ideale. (…) Baudolino, dal canto suo, non vive solo un paradigma dell’amore, ma ne vive tre: quello puramente “lirico” e platonico per l’imperatrice, moglie di Federico II e donna irraggiungibile; quello assai più umile e caduco per Colandrina, che muore di parto dando alla luce un «mostriciattolo»; quello infine quasi surreale, ma al contempo stupefacente e drammatico, per quella creatura incredibile che è Ipazia.
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5) IL CIMITERO DI PRAGA

da “Il cimitero di Praga” o del complotto perfetto, «Le reti di Dedalus», marzo 2011.

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Il cimitero di PragaGrande interprete della cospirazione, oserei dire complottologo, Umberto Eco aveva già affrontato il tema della paranoia cospiratoria ne Il pendolo di Foucault, quando aveva raccontato la storia di tre redattori editoriali di Milano che, imbattendosi in un testo relativo a una Mappa indicante un percorso da seguire per la rivelazione di una verità ultima, quasi per gioco inventano un Piano che possa condurre a tale conoscenza attraverso l’interpretazione stessa dei movimenti compiuti dai Templari e dai Rosa-Croce nel corso dei secoli per conquistare il mondo. La costruzione immaginifica di un sapere ermetico, scandito dalle dieci Sefirot della Cabala ebraica, porta tuttavia i tre protagonisti a diventare vittime delle loro stesse trame, svelando la fatale infondatezza dl loro Piano e al contempo la sua irresistibile credibilità.
Ma i complotti cosmici attribuiti agli ordini religioso-militari che prendono forma nel Medioevo per propagarsi nell’arco di centenni appartengono, per così dire, all’archeologia della cospirazione. Gli intrecci sempre più avvincenti tra ordini mistici, società occulte e servizi segreti si sviluppano soprattutto nel corso del XIX secolo quando si immagina un fiorire di complotti ovunque: di ebrei contro gesuiti, di gesuiti contro massoni, di massoni contro monarchici, di monarchici contro mazziniani, in una spirale di rimandi religiosi e politici in cui la realtà storica finisce con lo sfumare sempre più per lasciar spazio a ingegnosi interventi di falsificazione e manipolazione.
Così il prodotto finale dei vari innesti di un complotto in un altro, con insospettabili contaminazioni letterarie, in cui la stessa sostanza del complotto cambia matrice ad ogni intervento e da ebraica si fa gesuitica, per poi diventare monarchica e trasformarsi di nuovo in giudaica, diventa per così dire il complotto dei complotti, se non addirittura il complotto perfetto, sintesi di invenzioni, riletture, spostamenti, attribuzioni, con una precisa destinazione finale.
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Lapidi del cimitero ebraicoNon meno dei precedenti romanzi anche quest’ultimo è un saggio di virtuosismo stilistico e sapienza affabulatoria. Per esigenze di continuità narrativa Eco crea un protagonista che assume su di sé l’azione di tanti personaggi, una sorta di falsario modello, unica mente, seppur influenzata dai diversi poteri con cui si confronta, che altera, manipola, traspone i vari testi per giungere alla redazione definitiva del complotto esemplare, tanto più potente quanto più falso. Ma per rendere più articolata la sua personalità l’Autore la sdoppia, attraverso l’ingegnosa trovata di un trauma da messa nera, di modo che un falsario e un abate si trovino sotto lo stesso tetto a condividere le pagine delle stesso diario e a ricostruire oscure vicende nello spiarsi e interrogarsi a vicenda. Ma il doppio piano di narrazione tra due voci (o meglio scritture) che cercano di “interpretarsi” reciprocamente diventa triplo quando a commento e integrazione dei molteplici eventi interviene la voce del Narratore che porta avanti le fila della storia con la visione onnisciente della terza persona.
A dispetto di quanto possa sembrare, il romanzo, pur mettendo in gioco una miriade di personaggi, complessi rimandi narrativi e mutevoli visioni prospettiche, è chiarissimo. Sia perché la triplice narrazione è resa graficamente attraverso tre diversi caratteri tipografici che ne evidenziano le molteplici “mani”, sia perché secondo la migliore tradizione del feuilleton il testo è arricchito da immagini che ne illustrano alcuni passi salienti, sia perché in appendice al libro figura uno schema dei capitoli che distingue il piano dell’intreccio da quello della storia, in modo da orientare anche quei lettori che magari non si erano intrattenuti lungo le “passeggiate nei boschi narrativi” oppure all’interno delle invenzioni esemplari della “forza del falso”.
Ma questa linearità del corso degli eventi, evocati nelle pagine di un diario scritto nell’arco di poco meno di un mese (a parte gli ultimi due interventi sfalsati di un anno) e sviluppatisi lungo circa settant’anni (dal 1830 al 1898), fa senz’altro di quest’opera un suggestivo romanzo storico, scandito dall’intersecarsi delle vicende umane con gli avvenimenti salienti del XIX secolo, senza tuttavia mostrare ulteriori dimensioni narrative, con cui l’Autore aveva arricchito altri suoi romanzi.
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6) IL ROMANZO TRA POSTMODERNO E VERITÀ STORICA

da Intervista a Umberto Eco, «Lettera Internazionale», n. 75, 2003

La differenza strutturale tra saggistica e narrativa, l’interazione tra politica e religione nel romanzo storico, le costanti tematiche dell’inganno, del falso e del complotto nella poetica di Eco, le caratteristiche della letteratura postmoderna tra stile metanarrativo e ironia intertestuale, la legittimità del doppio piano di interpretazione, l’importanza delle fonti storiche nell’invenzione narrativa.

      La torre di BabeleIn diverse occasioni Lei ha avuto modo di sostenere che la differenza tra la saggistica e la narrativa consiste nel fatto che la prima intende dimostrare una “tesi” cercando di risolvere certi problemi, mentre la seconda evidenzia le contraddizioni della vita mantenendo una forte carica di ambiguità. In rapporto alla dimensione dell’interpretazione, che svolge una funzione preponderante sia nei suoi romanzi che nei suoi saggi, come si può conciliare la dimensione della dimostrazione scientifica con quella dell’invenzione letteraria?   

In realtà, non si tratta di conciliarle. Di fatto non è un caso che alcuni filosofi facciano oggetto di indagine le opere letterarie. Possono scrivere su Proust e la memoria, ad esempio, perché si trovano semplicemente di fronte a qualcuno – il narratore, oppure il poeta – che può dire qualcosa di interessante anche per loro, secondo le modalità espresse dal testo. Se un filosofo legge Cartesio è per cercare di capire nel modo più chiaro possibile che cosa pensasse sul meccanicismo. Invece quando, per esempio, Enzo Paci leggeva filosoficamente un poeta come Eliot, lo interpretava da filosofo e vi cercava un pensiero che non appariva immediatamente in superficie e più che delle soluzioni o delle teorie vi cercava delle contraddizioni, dei problemi. Potrei dire, in termini autobiografici, che ci sono certe cose che non mi sento di sostenere o di trattare in modo chiaro e definitivo in un saggio, mentre preferisco mettere in scena narrativamente il problema. Per semplificare ancora, se la saggistica lavora verso la risposta, la narrativa lavora in direzione della domanda e dunque si possono rivelare complementari. 

    In merito ai suoi romanzi Lei si è sempre ispirato a una specifica epoca storica: il Medioevo dei Padri della Chiesa, i percorsi “mistici” dei Templari e dei Rosacroce, il Seicento delle grandi esplorazioni, ancora il Medioevo di Federico II e dei viaggi in Oriente. Centrale è sempre stata la dimensione religiosa (le dispute, le eresie, le reliquie), non meno di quella politica (la bramosia di potere, la conquista di nuovi regni). Non ha mai pensato che si potessero fare alcuni paralleli con la realtà sociale, politica e civile dei nostri giorni? 

Innanzi tutto quello che mi affascina nello scrivere un romanzo è passare, come mi è capitato sinora, minimo sei anni e massimo otto a cercare fonti e a scoprire aspetti di un mondo lontano. Se dovessi scrivere una storia d’amore che ha luogo nel presente, non avrei bisogno di fare alcuna ricerca e troverei la cosa estremamente deludente, per cui in sostanza scrivo romanzi storici perché mi diverte di più. A parte il fatto che Il pendolo di Foucault, anche se ha delle ampie panoramiche di carattere storico, si svolge nel presente, dove a mio parere vengono toccati alcuni problemi importanti del mondo politico attuale, come la sindrome del complotto e così via. 

Fatta questa precisazione, il primo fine che mi pongo quando scrivo un romanzo storico, come è stato nel caso de Il nome della rosa, de L’isola del giorno prima e di Baudolino, è di ignorare completamente il presente per cercare di capire quel mondo. Tuttavia ogni lettura storica, anche quella fatta dallo storico più rigoroso, è sempre una lettura in prospettiva. Come diceva Croce, la storia, nel senso della storiografia, è sempre contemporanea. Comunque noi guardiamo a un tempo lontano non possiamo evitare di vederlo con i nostri occhi di contemporanei. Vale a dire che ci sono certe cose che istintivamente mettiamo a fuoco, mentre ne lasciamo cadere delle altre. In questo senso, mettendomi a raccontare di un mondo lontano, magari senza accorgermene, talora invece accorgendomene persino con una certa malizia, posso mettere a fuoco delle cose che parlano direttamente ai contemporanei. Certe volte mi è accaduto di trovare il lettore che vedeva dei riferimenti al presente che io non avevo in mente, ma proprio attraverso una lettura più sensibile si poteva riscontrare un’analogia con i tempi nostri. (…)

Bestiario secentescoProprio nel suo ultimo saggio Sulla Letteratura Lei argomenta le caratteristiche della narrativa postmoderna che sono state attribuite da alcuni critici ai suoi romanzi, e che Lei stesso teorizza nelle Postille al Nome della rosa. Queste caratteristiche, come la metanarratività, il dialogismo, il double coding e l’ironia intertestuale, hanno costituito per Lei una precisa scelta di poetica, oppure sono maturate nel corso della sua esperienza narrativa?
 

Innanzi tutto vorrei dire che il termine postmoderno me lo hanno buttato addosso gli altri, benché io non abbia potuto protestare in quanto alcuni aspetti della poetica postmoderna sono realmente presenti nel mio lavoro. Tuttavia bisognerebbe fare chiarezza, per quanto possibile, sul concetto di postmoderno, se non altro per dire che c’è un postmoderno in architettura inventato da Charles Jenks, un postmoderno in letteratura teorizzato da John Barth e un postmoderno in filosofia proposto da Jean-Francois Lyotard e da altri che non ha nulla a che fare con i primi due, per una sorta di strano equivoco terminologico che non si può sciogliere in questa sede. Personalmente ho trovato nella tematica del postmoderno un modo interessante per rivisitare la letteratura precedente attraverso procedimenti citazionistico-ironici. Ma se ci pensiamo bene questo lo avevamo teorizzato nella seconda riunione del Gruppo ’63, quando due anni dopo nel ’65, si diceva che ormai il romanzo sperimentale era arrivato a un punto zero. Come in pittura si era arrivati alla tela bianca, in poesia alla pagina vuota, in musica al silenzio, così anche nella narrativa si era raggiunto un point of no return. Mi ricordo che Renato Barilli diceva di recuperare un’avventura “altra”, che non fosse quella tradizionale, ma al contrario fosse densa di nuove sperimentazioni. 

Quindi quando ho iniziato a scrivere romanzi mi sono ispirato piuttosto a quei discorsi che si facevano allora in merito a un recupero della narratività attraverso l’ironia oppure, come si suol dire, la “decostruzione” narrativa, termine che però non amo usare. Da qui il mio gusto per gli incassamenti dei punti di vista, i flashback o le strutture temporali molto complesse e soprattutto per la metanarrativita’, dove il romanzo riflette su se stesso e sulla propria forma. Se tutto questo è tipico del postmoderno allora mi ci ritrovo, come nel caso del doppio codice, secondo cui se in architettura postmoderna si possono fare citazioni del frontone del Partenone o di una cupola di Borromini e poi ci può essere l’utente che coglie questa citazione basata sul gioco e sull’ironia, e quello che non la coglie ma gode ugualmente di una struttura architettonica bizzarra, altrettanto nei miei romanzi, che sono così densi di allusioni intertestuali, ci può essere questo doppio codice. (…)




Prefazione alle memorie di Ivano Cipriani

Prefazione al libro di memorie di Ivano Cipriani, intitolato La gabbietta di Kafka. Memorie di un balilla rispettoso. 1926 – 1943, che attraverso il proprio vissuto affronta il fascismo, la guerra mondiale, fino all’armistizio e alla liberazione di Roma.

MEMORIALE DI UNA FORMAZIONE

Ivano CiprianiCi sono tanti modi di affrontare un’autobiografia. In genere si procede dalle origini per poi soffermarsi sui passaggi più salienti di una vita e giungere infine a un presente in cui si tende a tirare un po’ le somme di un’intera esistenza. Assai più inconsueto è invece concentrare le proprie memorie in un periodo circoscritto e per così dire “originario” del proprio vissuto, ovvero quello che dalla nascita procede, lungo un percorso di formazione, fino alla soglia della giovinezza, per concludersi proprio quando comunemente si inizia ad avere qualcosa da dire. Insomma quell’infanzia e quell’adolescenza che spesso sono consegnate all’oblio, quando non piuttosto mitizzate o viceversa condannate, a seconda delle “sensazioni” spesso controverse che di queste si conservano. Ivano Cipriani elegge invece i suoi primi diciassette anni di vita a paradigma di una storia degna di essere narrata nei suoi più infinitesimi particolari, iscritta a sua volta nella Storia più grande che si dipana in un arco temporale tra il 1926 e il 1943, attraversando il regime fascista, la guerra mondiale, fino ad arrivare all’Armistizio e da lì a poco alla liberazione di Roma.
Ma forse la dimensione più interessante di questo affondo in un passato remoto che intreccia sapientemente il piano privato dei ricordi personali con quello politico degli avvenimenti storici, lo scenario intimo delle proprie emozioni con quello sociale del destino di un popolo, è proprio la prospettiva attraverso cui viene narrata la storia di un bambino, e poi di un ragazzo, che cresce protetto da una gabbia di affetto e attenzioni familiari, che lo tutela a sua volta da una gabbia assai più efferata, quella costruita dal ventennio fascista, periodo che il protagonista attraversa quasi “ammantato” da un’insperata incolumità, un po’ come quel bimbo de La vita è bella di Benigni che riesce a superare quasi indenne la tragedia del lager grazie alla costruzione ludica e amorosa che il padre gli costruisce intorno.
In questa particolare atmosfera vengono richiamati alla memoria i protagonisti di quella generosa e amorevole famiglia in cui cresce il protagonista, le loro indoli e personalità, i loro aneliti e destini, così come vengono ricordati gli insegnanti e i compagni di scuola, i luoghi d’infanzia nelle colline toscane, gli spostamenti e le peregrinazioni, sempre sulla falsariga di una crescita all’insegna del rispetto di un regime fatto proprio attraverso una latente inconsapevolezza, che verrà violata quasi di colpo proprio dal crollo di quella gabbia storica, grazie a eventi cruciali come la liberazione e la fine della guerra, che spingeranno il ragazzo ormai cresciuto ad appropriarsi di una coscienza critica, assai più profonda e radicata di quanto non sarebbe avvenuto attraverso un processo più graduale.
Uno dei maggiori pregi di questa narrazione riposa inoltre nella lucidità e nell’esattezza con cui è costruita. Proprietà, come si sa, molto care a Italo Calvino, che qui vengono messe a punto non solo attraverso la capacità quasi chirurgica di andare a cogliere tanti particolari personali facendoli rivivere in pagine quanto mai intense, ma soprattutto attraverso l’abilità squisitamente dialettica di argomentare avvenimenti cruciali grazie a un approccio non tanto storiografico, quanto interpretativo, alla luce di una maturità sedimentata nel tempo, che stimola quanto mai alla riflessione e alla consapevolezza. Senza escludere di contro affondi prospettici, anticipazioni del futuro, in rigoroso corsivo, che aprono scorci fulminei su quello che verrà, lasciando intendere evoluzioni possibili in epoche posteriori, quasi un contrappunto sinfonico a una partitura squisitamente memoriale. Il tutto con un tocco puntuale, preciso, si direbbe cartesianamente chiaro e distinto, con una penna che come un bisturi seziona dettagli e particolari senza sbavature, attraverso uno stile adamantino, che non concede zone d’ombra né risvolti sospesi, piuttosto si mette a servizio di una lettura immediata, che va dritta al cuore delle cose, con la stessa urgenza di quel ragazzo che intuisce dentro di sé tutto il peso di una Storia, di cui riuscirà pienamente ad appropriarsi solo nel momento in cui romperà il suo guscio.
E proprio quel ragazzo che iniziò il suo processo di maturazione sullo sfondo delle rovine della guerra e nello slancio della liberazione dalla dittatura, ora è diventato un acutissimo (quasi) novantenne della cui saggezza, maturità e intelligenza ho la fortuna di beneficiare in qualità non solo di nipote (figlia del fratello della moglie), ma soprattutto di interlocutore privilegiato di tanti carteggi appassionati su quelli che ora costituiscono gli snodi cruciali della Storia; altre dittature, altre guerre, altri estremismi forse anche più efferati di quelli del periodo nazi-fascista, che dilacerano in particolare il mondo islamico, e che sono diventati fulcro di tanti nostri confronti, e nondimeno fonte di nutrimento e ispirazione per le mie stesse scritture. A questo anziano signore va dunque tutta la mia gratitudine, la cui matrice di uomo acuto e sensibile, colto e analitico si avverte appieno nella sapienza di queste sue memorie e si intuisce già in nuce in quel ragazzetto timorato e ossequioso, diligente e curioso che attendeva di spiccare il gran volo dalla sua gabbietta.




In ricordo di Mario Colafranceschi

Ricordo personale di Mario Colafranceschi, caro amico e collega di Università, in occasione della pubblicazione di una raccolta di alcuni suoi scritti di filosofia, intitolata Caos, complessità, collaborazione. Centralità della politica, necessità della filosofia.

QUEL CHE ERA MARIO

Mario ColafranceschiMario era un uomo vorace. Artigliava la vita con voluttà, mirando al cuore delle cose, puntando dritto all’essenza. Era quasi infastidito dagli aspetti superflui, dai vani dettagli, gli erano solo d’impaccio e se ne liberava subito, senza pensarci. Era affilato, tagliente, non si preoccupava di poterti ferire, gli interessava solo di centrare il problema, buttartelo addosso, costringerti a una soluzione, qualsiasi prezzo avesse avuto. Non conoscevo nessuno tanto sfacciato da rimproverarti che le tue disgrazie pesassero ancora come macigni, che stentavi a risollevarti e che era ormai tempo di guardare altrove. All’inizio non lo capivo, o meglio facevo fatica ad accettare che qualcuno mi trattasse così, lo trovavo arrogante, presuntuoso, nessuno glielo chiedeva; poi però col tempo cominciai a intuire che dietro quell’apparente ruvidezza c’era un grande desiderio di generosità.
Mario ha sempre avuto un temperamento dialettico, amava la sfida, il confronto, il duello leale, ma senza risparmio di colpi. Era il suo modo di offrirsi, persino di venirti in soccorso, e a dispetto delle apparenze, quando sembrava di averti messo sotto scacco, ti aveva invece reso un servizio. Si donava così, Mario, detestava commiserare, ignorava la compassione, adorava al contrario provocare, toccando anche tasti dolenti, ma solo per farti uscire dalla tana e costringerti a una scelta. La sua era una sorta di maieutica agonistica, dove le parole avevano il peso delle pietre e la posta in gioco non erano opinioni ma scelte di vita. Ebbi bisogno di tempo per capirlo, ma quando ci arrivai non seppi più resistergli, ero io che lo cercavo, gli offrivo spunti per affondi, lo spingevo su terreni accidentati, mi divertivo a rovesciare il gioco, diventando così una sua interlocutrice prediletta.
Sapendo che non potevo correre Mario mi aveva concesso l’esonero dai campi da tennis. Passavano tutti di lì i suoi più cari amici, non gli bastava parlarci, voleva sfidarli su un vero campo da gioco, anche quello era uno scambio, un modo di stabilire tensione e complicità, antagonismo e affiatamento. Torto collo aveva accettato che con me questo non se lo poteva permettere, ma me lo aveva fatto pagare, a suo modo, spostando la partita su un tavolo da ristorante. Negli ultimi anni aveva preso la consuetudine di invitarmi a cena. Era l’unico modo per avermi dal vivo, per trovarsi faccia a faccia, senza contentarsi delle sole voci al telefono che pure erano sempre molto eloquenti. Preferiva guardarmi dritto negli occhi, studiare le mie reazioni, arrivare subito al punto, stringere all’osso i discorsi. Il resto non aveva alcun senso, non ci badava nemmeno, consultava il menù con svogliatezza e ordinava sempre la solita pizza. Poi la lasciava freddare nel piatto, quasi se ne fosse dimenticato, infine la divorava in pochi minuti, tanto per togliersela di mezzo. Mangiare insieme era un fastidioso accidente, non gliene importava nulla della tavola, si dimenticava di ordinare il vino e non mi chiedeva se volevo il dessert. Eppure era un ottimo cuoco, un grande amante della cucina, a casa sua faceva ottime cene e non si risparmiava mai coi suoi ospiti. Ma in quelle occasioni il cibo era solo un pretesto, contava soltanto quello di cui parlavamo, che alla fine erano sempre questioni filosofiche che ci spingevano su territori anche molto complessi, oppure commenti sulle storie che stavo scrivendo e che a Mario divertivano tanto.
Chi scrive sa che è sempre molto difficile parlare di ciò che si sta elaborando, a volte può essere utile far leggere qualche pagina, ma in genere è un viaggio oscuro e solitario che semmai solo alla fine può trovare uno sbocco. Mario invece voleva sapere tutto, era curioso come un bambino, mi interrogava su vicende, sviluppi, finali, dava consigli, suggeriva idee. Gli aspetti creativi lo stimolavano, diventava un vulcano, si appassionava a intrecci, tensioni, rovesci, parlava dei miei personaggi come fossero persone reali, era un giudice attento e un arguto consigliere. Apprezzava molto che inventassi storie e non si dispensava dall’elogiarmi. Quando mi invitava a cena e mi dichiaravo onorata, lui mi rispondeva che l’onore era tutto suo ad andare a cena con una scrittrice. Io lo invitavo a farla finita, mi imbarazzavano i suoi complimenti, ma lui insisteva, dicendo che quando sarei stata famosa avrebbe potuto dire di avermi conosciuto che ero solo una ragazzina. Non lo sopportavo, eppure capivo che lo diceva con sincero trasporto; come non aveva misura nel fare le critiche, altrettanto non l’aveva nel tessere elogi.
Non finiva mai col sorprendermi, Mario, a volte lo chiamavo per raccontargli alcune cose, immaginando già le sue reazioni, invece mi spiazzava sempre, con il bisturi della sua intelligenza coglieva tratti insospettati, ribaltava punti di vista, proponeva soluzioni inattese. Anche quando me ne uscivo con frasi apodittiche come: “mi annoia tutto, fuorché scrivere e studiare”, lui rispondeva fulmineo: “perché, che altro c’è?”, ribaltando in un soffio la prospettiva del mio estremismo. Era difficile portarlo sul proprio terreno, piuttosto era lui che ti conduceva sul suo. Aveva vissuto diversi anni a Brescia, trasferitosi per lavoro, ed era riuscito ad amare persino quella brumosa città, ad apprezzarne lo spirito refrattario, l’atmosfera asfittica, trovando spunti di interesse anche negli aspetti più remoti. Quando vi andai la prima volta per presentare un mio libro, Mario mi impartì una serie di precetti per visitare al meglio la città. Tornai dopo una visita sommaria che mi aveva lasciato indifferente e lui mi disse che non avevo capito niente, non ero stata capace di cogliere la vera anima della città, i suoi tesori nascosti, i suoi profondi segreti, e che dovevo assolutamente tornarvi. Vi tornai, stavolta per intervistare Emanuele Severino, e non osai andarmene prima di aver visitato a fondo il museo di Santa Giulia, la pinacoteca Tosio Martinengo, il duomo vecchio e il duomo nuovo, gli scorci più curiosi, gli angoli meno consueti. Al rientro gli riferii ogni cosa con la trepidazione di una scolaretta sottoposta al suo ultimo esame e lui bofonchiò che sì, va bene, ma potevo ancora capirla meglio. Tacqui per timore di una terza missione.
Mario era innamorato dell’intelligenza delle persone. Lì trovava il suo terreno da gioco preferito, gli piaceva analizzare, stimolare, interagire, il resto contava ben poco, detestava frivolezze e smancerie, tendeva a stabilire rapporti virili con tutti, rifuggiva come la peste affettazioni femminee e svenevoli approcci. Forse il complimento più imbarazzante che mi abbia mai fatto fu quando mi disse che avevo un’intelligenza maschile. “Sei essenziale e impudente, non ti perdi in inutili psicologismi, ti sottrai a ogni stupido intimismo, ricerchi nella pura astrazione forme di creatività, affili la tua ironia con buona dose di cinismo, insomma ragioni proprio come un uomo”. Credo di incarnare profondamente la mia femminilità e di non potermi immaginare altrimenti che come donna, ma non mi sono mai sentita tanto commossa come in quel momento. Nella sua ricerca del paradosso come intima verità Mario centrava sempre nel segno.
Ma quello che amo di più ricordare di lui non è tanto la persona ruvida, severa, rigorosa, quanto quella ilare, leggera, evasiva in cui si raccoglieva la sua natura più autentica. A dispetto della sua scientifica serietà Mario aveva una passione sfrenata per l’astrologia. Lo intrigavano i segni zodiacali, sapeva tutto di case e pianeti, influenze e ascendenti, per ognuno dispensava i propri consigli e le indicazioni di compatibilità con gli altri segni. Mi aveva assicurato che il leone poteva andare d’accordo con tutti, fuorché il gemelli, che invece gli avrebbe creato seri problemi. Quando lo misi in croce perché avevo conosciuto un gemelli che mi aveva fatto impazzire, lui accomodante mi disse, che, certo, non c’era letteratura, ma si potevano sempre contemplare eccezioni. Aveva una risposta pronta su tutto, Mario, teneva ferme le sue convinzioni, ma poi trovava il modo di essere conciliante, comunque mai ostile. A un certo punto si era fissato che dovessi accompagnarmi con uomini più giovani. A me non interessavano, ma lui insisteva, dicendo che erano molto più stimolanti delle persone mature. Era appassionato dei giovani, li frequentava molto, ne ammirava entusiasmi e potenzialità, e alla fine si comportava come loro, dimenticava i suoi anni, al ritorno dalle cene mi teneva le ore in macchina, come si fa quando si è adolescenti, continuando a parlare entusiasta, mentre io lo ascoltavo intirizzita sentendomi sempre più vecchia.
In Mario c’era un’affascinante commistione tra approccio razionale e istinto passionale, rigore dell’analisi e slancio delle emozioni, non si curava che potessero creare incongruità, viveva a fondo entrambe le cose, seguendo sempre una propria linea a dispetto di tutte le convenienze. Era capace di assillarmi allo stremo perché richiedessi tutta l’assistenza necessaria per il mio stato di invalidità, ossessionandomi anche con richieste impensate che la legge non contemplava. Poi quando capitava che camminando per strada con il mio passo incerto trovassi un inciampo che mi facesse cadere, lui non perdeva il filo del discorso, mi aiutava distratto a rialzarmi da terra e riprendeva imperterrito, assai infastidito che l’avessi interrotto. A me faceva impazzire questo suo modo di essere così incostante e mutevole. A volte me lo sentivo troppo addosso, altre volte non riuscivo a stargli al passo, invadeva e insieme volava, dovevi stare attento a tenerlo a freno e poi scapicollarti a corrergli appresso. Non c’erano misure, e questa forse era la sua maggiore risorsa. Aveva la statura di un vero personaggio, Mario, con tutte le sue euforie e contraddizioni, le sue intemperanze e zone d’ombra. Chissà se un giorno riuscirò a farlo vivere in qualche mia storia.




Gli Orti delle Arti – Percorsi d’Autore


Quattro incontri sulle sperimentazioni artistiche dei linguaggi contemporanei tenutesi a novembre e dicembre 2015 presso gli Orti di Trastevere, per approfondire dei percorsi individuali nell’ambito della musica, del disegno, del teatro e della narrativa, nell’intento di creare possibili dialoghi tra le diverse forme espressive.

Locandina Orti delle Arti

Daniela Tordi, illustratrice – Dentro e fuori l’albo illustrato. Viaggio tra creatività e comunicazione – Mercoledì 18 novembre

Alessandro Murzi, compositore – I treni inerti. Indagine palindroma sul pensiero musicale – Martedì 24 novembre

Vittorio Pavoncello, drammaturgo – Una donna virtuale. Nuovi personaggi per le scene del futuro – Mercoledì 2 dicembre

Alessandra Fagioli, scrittrice – I bambini di Dio. Abissi e visioni del racconto civile nell’era del terrore – Giovedì 10 dicembre

In Via Orti di Trastevere 59, ore 18.00

 

DENTRO E FUORI L’ALBO ILLUSTRATO. VIAGGIO TRA CREATIVITA’ E COMUNICAZIONE

Daniela Tordi, illustratrice

L'albo illustratoOgni libro illustrato è un piccolo mondo a se stante, un racconto per immagini e testo chiamato ad evocare suggestioni profonde. Nel migliore dei casi, il risultato soddisfa tanto il pubblico infantile quanto quello adulto, toccando vette d’ironia o di poeticità sorprendenti. A chi vuole conoscerlo, si disvela allora un universo vario e raffinato, un ambito della creatività umana dove bravura e senso del gioco si conciliano e si combinano all’infinito. La sfida, per chi si misura con questo genere, è avere un tratto originale e riconoscibile, una cifra stilistica propria. Non è poco. E’ come acchiappare un gatto per la coda…

 

I TRENI INERTI. INDAGINE PALINDROMA SUL PENSIERO MUSICALE

Alessandro Murzi, compositore

I treni inertiLa ricerca del pensiero musicale nei labirinti della mente tra insidie e sorprese: motivazioni e necessità estetiche del gesto compositivo di ieri e di oggi. Il difficile percorso del compositore classico contemporaneo tra scelte poetiche, gabbie formali e costante confronto con linguaggi passati e presenti. Un’indagine intorno al ruolo di chi compone a fronte dell’indebolimento della sua funzione sociale e del sempre più arduo rapporto con il pubblico. Un viaggio tortuoso che illumina l’infaticabile ricerca di un linguaggio autonomo e originale in cui possano convivere passato, presente e futuro.

 

UNA DONNA VIRTUALE.  NUOVI PERSONAGGI PER LE SCENE DEL FUTURO

Vittorio Pavoncello, drammaturgo

Una donna virtualeUna voce, un file, una voce di sintesi, un personaggio virtuale chissà?! In un epoca dove i generi a volte sono solo un nickname le avventure e disavventure di una donna che decide di sposarsi su internet e che vive un matrimonio virtuale molto simile a quelli reali sia nel bene sia nel male. Il matrimonio, i regali, il viaggio di nozze e l’amara scoperta che c’era un’altra donna non virtuale ma fatta di quella putrescenza di carne ed ossa. L’unica cosa che resta è la solitudine e un senso teatrale dell’esistenza.

 

I BAMBINI DI DIO. ABISSI E VISIONI DEL RACCONTO CIVILE NELL’ERA DEL TERRORE

Alessandra Fagioli, scrittrice

I bambini di DioUna ballata pop per narrare mafia capitale e i tempi della crisi, un carteggio tra due profughi ucraini (un ribelle filorusso e una Femen anti-Putin) per raccontare le contraddizioni della Russia odierna, un montaggio parallelo di storie di bambini (un boia, una kamikaze, un’altra scampata al gas sarin e un altro alle stragi di Boko Haram) per declinare i molteplici volti della Jihad. I diversi modi di narrare la crisi, la guerra, il terrore inventando storie che possano farsi metafora della realtà.

 




Omaggio a Pier Paolo Pasolini

Omaggio a Pier Paolo Pasolini composto nel quarantennale della sua morte

Pasolini poeta, narratore, regista, drammaturgo, critico, intellettuale. Tutte le sfaccettature dell’opera di Pasolini nella sua pluralità di linguaggi e nella sua profondità di contenuti. Dieci omaggi alla sua poesia, ai suoi romanzi, al suo cinema, al suo teatro, ai suoi articoli, con una riflessione sul pasolinismo e un uno “scherzo” in versi per ricordare l’importanza della sua opera assai più che il mistero della sua morte.

1. STORIE DELLA CITTÁ DI DIO

A me, sopra ogni cosa, manca Pasolini. Gli ho dedicato gli anni del mio dottorato di ricerca e rimane l’autore che conosco meglio dopo Shakespeare. A una decina di giorni dall’anniversario del suo assassinio, in questo periodo di commemorazione per il quarantennale, desidero tributargli un mio personale omaggio, pubblicando ogni giorno un brano della sua opera, magari un po’ distante da quelli più “canonici”. E in tempi di processi per mafia capitale, carica di sindaco vacante e imminenze giubilari vorrei iniziare proprio da come percepiva la “città di Dio”.

Roma malandrina

Storie della città di Dio(…) La sua bellezza è naturalmente un mistero: possiamo pure ricorrere al barocco, all’atmosfera, alla composizione tutta depressione e alture del terreno, che le dà continue inaspettate prospettive, al Tevere che la solca aprendole in cuore stupendi vuoti d’aria, e soprattutto alla stratificazione degli stili che a ogni angolo a cui si svolti offre la vista di una sezione diversa, che è un vero trauma per l’eccesso della bellezza.
Ma Roma sarebbe la città più del mondo se, contemporaneamente, non fosse la città più brutta del mondo? Naturalmente bellezza e bruttezza sono legate: la seconda rende patetica e umana la prima, la prima fa dimenticare la seconda.
I punti della città solo belli, e i punti della città solo brutti sono rari. Quando la bellezza si isola ha qualcosa di archeologico nel miglior caso: ma più spesso è espressione di una storia non democratica, in cui il popolo è lì a far colore, come in una stampa del Pinelli.
E così – al contrario – la bruttezza, quando si isola, e giunge fin quasi all’atroce, non è mai completamente depressiva e scostante: la fame, il dolore vi sono allegoria, la storia è la storia nostra, quella del fascismo, della guerra, del dopoguerra: tutta tragica, ma in atto, e per questo piena di vita.

2. ATTI IMPURI – AMADO MIO

Prima che fosse accusato di «corruzione di minori e atti osceni in luogo pubblico», allontanato dalla scuola media dove insegnava in Friuli ed espulso dal PCI «per indegnità morale e politica», tra il ’46 e il ’48 Pasolini scrisse due brevi romanzi, Atti impuri e Amado mio, in cui intreccia ricordi di guerra, turbamenti spirituali, paesaggi primitivi e pulsioni sessuali, sempre combattuto tra desiderio, possesso e senso di colpa per quello che era il suo vero scandalo: l’omosessualità diretta perlopiù verso i fanciulli.
Prima di scoprire la borgata romana questi sono alcuni suoi passaggi più carichi di lirismo, pudore e disincanto.

Atti impuri

Atti impuriEgli, quella sera, era di una bellezza da potersi toccare come un oggetto: una luce dorata e minerale che splendeva all’interno del corpo, accendendo più la sua carne molle e tiepida che i suoi occhi. Sotto la lampada elettrica e contro il biancore delle lenzuola, le sue pupille erano divenute più cupe, trascolorando l’azzurro in un indaco velato di rosa. E splendevano, avide… Infatti io lo accarezzavo senza posa, giocando col suo piccolo corpo perfetto…
Sì, mi pareva che tutto tra me e Nisiuti dovesse restare inespresso. C’erano giorni e giorni in cui io ero tutto in lui, in cui ero null’altro che un suo sorriso, una sua espressione. A me erano rimasti solo gli occhi per contemplarlo, per andare al di là del suo bruno-rosa, dell’onda nera dei suoi capelli, della sua pupilla affettuosa e tiepida.
Eravamo ambedue in balia del nostro reciproco amore: il mio furioso, conscio, impuro, il suo, benché purissimo, non meno esclusivo. In lui certo prevaleva un affetto appassionato, che lo avvicinava a me forse ancor più di quanto io fossi avvicinato a lui dal mio desiderio. Così che per merito suo anche la mia passione era purificata.
E invece di quelle sere mi restava solo il presente: quel corpo che mi camminava accanto, quei campi invasi dalla luce, quella luna violenta e remota. Il nostro amore così esplodeva senza più ritegni, protetto da quel totale presente, da quella dolcissima angoscia, e da quelle lacrime (di felicità?) che restavano negli occhi dopo l’inutile vittoria sul peccato.

Amado mio

«Ma io, amici, non ho il senso del buco, dissi entrando nello spavento generale, siete in errore. (…) Non ho il senso del buco, a tre anni cominciò il famoso ciclo di sogni in cui mi trovavo dentro un cunicolo scavato in un monte: era spaventoso. A tredici anni cominciai a sognare di donne, ma il buco non l’avevano: il loro ventre era di pietra. (…) Io ho amato una volta sola, ma non si trattava di una donna: io non ho il senso del buco, il buco è tabù, c’è davanti la mano di Dio. Ho amato, ma non era una donna… (…) Era un puledro.»

3. BESTEMMIA

Pasolini e MoraviaSotto quest’unica parola si raccolgono i quattro volumi di poesie composte da Pasolini e suddivise in più di venti raccolte. Alcune davvero grandissime tanto da persuadermi che Pasolini sia stato soprattutto un sommo poeta (e non solo civile come voleva Moravia). Impossibile selezionare qualche poesia più significativa, anche perché sono perlopiù poemi piuttosto complessi, mi limiterò a citare solo un paio di epigrammi tratti da “La religione del mio tempo”, uno sul nostro Paese, che sembra scritto ieri, e un altro sui letterati, alla faccia dei tanto decantati cenacoli dell’epoca. Perché il Pasolini più irresistibile rimane quello che fustiga senza pietà!

Alla mia nazione

Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico,
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto il male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.

Ai letterati contemporanei

Vi vedo: esistete, continuiamo a essere amici,
felici di vederci e salutarci, in qualche caffè,
nelle case delle ironiche signore romane…
Ma i nostri saluti, i sorrisi, le comuni passioni,
sono atti di una terra di nessuno: una… waste land,
per voi: un margine, per me, tra una storia e l’altra.
Non possiamo più realmente essere d’accordo: ne tremo,
ma è in noi che il mondo è nemico al mondo.

4. POESIA IN FORMA DI ROSA

Pasolini e la madreMi è impossibile non citare Supplica a mia madre, in dittici baciati, nella raccolta “Poesia in forma di rosa”, in cui Pasolini esprime la sua lacerazione interiore tra l’amore assoluto per la madre, che lo condanna alla “solitudine” e alla “schiavitù”, e quello per i “corpi senz’anima”, che gli fa sentire tutto il peso dell’esclusione e della diversità. Conflitto insanabile, che ha portato il poeta a incontrare la sua morte e la madre a sopravvivergli; destino atroce dopo averlo già fatto con l’altro figlio.

Supplica a mia madre

È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima di ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò che è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore dei corpi senz’anima.

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu,
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

5. UNA FORZA DEL PASSATO

BestemmiaProfeta e insieme primitivo, capace di intuire sviluppi quasi “futuribili” e al contempo di rifugiarsi in un mondo arcaico fuori dalla Storia, infaticabile sperimentatore di nuovi linguaggi e al contempo accanito ricercatore di una sacralità primordiale, sostenitore illuminato di un progresso sociale e politico e al contempo fustigatore impietoso di uno sviluppo consumistico, di questo e di altro parlerò con Enzo De Camillis nel presentare il suo film “Un intellettuale in borgata”, sabato 31 alle ore 19 in via Selinunte 57, al Quadraro sulla Tuscolana, cui siete tutti invitati, per omaggiare anche quella borgata troppo amata da Pasolini come dicono le sue stesse parole:

Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.

Visioni e simboli della sessualità

6. LA STRAGE DEGLI INNOCENTI

La strage degli innocentiIo non so dire quale per me sia il più bel film di Pasolini, ma so dire con certezza quale per me sia la sua più bella sequenza: la strage degli innocenti da Il Vangelo secondo Matteo. Lì dentro c’è tutto il suo cinema. I primi piani sui volti arcaici tanto ricercati da Pasolini nel Terzo Mondo, i campi lunghi sui sassi di Matera dove egli aveva ravvisato una Palestina autentica, assai più che in Terra Santa, le zoomate improvvise sul groviglio di mantelli, pugnali, fantocci nel caos dello scempio, l’esplodere della musica “sacra” di Bach a contrasto con la violenza del massacro, i versetti finali dal Vangelo declamati con solennità sui corpicini esanimi degli infanti. Pasolini era un autodidatta ma ha rifondato un linguaggio anche nel cinema, tanto da considerarlo una vera e propria lingua.

la strage degli innocenti pasolini – Cerca con Google

 7. BESTIA DA STILE

Bestia da stileNel marzo del 1966 a Pasolini venne una bella emorragia per un’ulcera duodenale. Mi direte, ora bisogna commemorare pure l’ulcera? No, l’ulcera nella sua essenza no. Ma nella sua conseguenza assai. Costretto un mese in ospedale buttò giù il progetto di tutte e sei le tragedie che compongono il suo teatro, per poi svilupparle nei mesi successivi. Opere estremamente allegoriche che rappresentano le molteplici coercizioni del potere sull’individuo, messe in scena nel tempo da grandi registi sotto diverse forme. Bestia da stile è quella più autobiografica, in cui si celebra il doppio fallimento, della rivoluzione (nella figura dell’arso vivo Jan Palach) e della poesia (nella figura del poeta incapace di incidere sul potere anche con il suo stile).

JAN

Io sono nella mia conoscenza.
Sono nella congiuntura fortunata
in cui Ragione e Saggezza stanno insieme.
Sono nutrito dal mio colloquio col mio popolo.
Ho le spalle sicure, con dietro il suo sorriso.
Perciò non mi nego alle critiche
E alle scandalose contestazioni!
In tanta luce la loro ombra è rassicurante.
La mia lotta di poeta contro la Follia
dei poeti dell’Occidente, la loro oscura intimità,
la loro fuga dentro i propri figliali segreti,
è fatta, sì, in nome della Ragione:
ma, ripeto, questa Ragione sta insieme alla Saggezza.
Mi è perciò ben chiara
la differenza di natura
tra la mia Eresia e l’Ortodossia
che criticamente accetto.
Anzi, la coscienza di questo dramma è la mia poesia!
Ciò che avviene qui
in quest’anima, al centro di Praga,
è indice di ciò che avviene nel mondo.
Sicché posso essere, sia pur dolcemente, spietato
come è sempre chi agisce secondo Realtà.

8. SCRITTI CORSARI

Pasolini corsaro: gli articoli pubblicati su varie testate tra il ’73 e il ’75 in merito al potere dello Stato sulla Chiesa, alla crisi della religione, alla fine della culture subalterne, alla massificazione dei consumi, alle stragi di Stato, alla “miseria” della contestazione e naturalmente all’assenza di memoria.

Un Paese senza memoria

Scritti corsariNoi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo ricordi, frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni.
Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono portatori di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che questo è un Paese speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale.

9. LETTERE LUTERANE

Pasolini luterano: gli ultimi articoli del ’75 ancora più caustici e violenti in cui egli porta all’estremo il suo rigetto per la Storia, radicalizza il suo rimpianto per il Mito, sferza i suoi strali contro il vuoto della cultura creato dal Potere e soprattutto accusa la Dc di aver creato una spaccatura tra il «Paese» e il «Palazzo», invocando un processo per condannare la corruzione, gli scandali e le stragi di Stato.

Il Processo

Lettere luteraneDunque: indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione di denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come si usa dire, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono «selvaggio» delle campagne, responsabilità dell’esplosione «selvaggia» della cultura di massa e dei mass-media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre tutto il resto, magari anche distribuzione borbonica di cariche pubbliche di adulatori.
Ecco l’elenco «morale» dei reati commessi da coloro che hanno governato l’Italia negli ultimi trent’anni, e specie negli ultimi dieci: reati che dovrebbero trascinare almeno una dozzina di democristiani sul banco degli imputati, in un regolare processo penale, simile, per la precisione, a quello celebrato contro Papadopulos e gli altri Colonnelli.

10. PETROLIO

L’ultima parola naturalmente a Pasolini, non ai pasolinisti, e a quell’ultimo romanzo cui stava lavorando prima di morire, e che a sua detta l’avrebbe impegnato per tutta la vita. Un coacervo di progetti, misteri, appunti, visioni, caratterizzato da una pluralità di generi e di modelli, da una diversità di stili e di registri, che non finisce mai di offrire nuove interpretazioni ogni volta che lo si rilegge. Una storia incentrata sul tema del doppio, dell’ossessionedell’identità, della frantumazione, della metamorfosi, del senso di possedere e dell’essere posseduti. Concludo dunque il mio omaggio con questa immagine sospesa e incisiva in cui si fronteggiano Demoni e Dei su quello stesso prato in cui si sono consumate dissolutezze e sparizioni.

Il pratone della Casilina
PetrolioMa insieme a questi Dei, quasi in sacra combutta per quella nottata, si sentiva anche la presenza di Dei sotterranei, di Demoni: era chiaro; quella notte così profondamente penetrata dall’odore dell’erba secca e del finocchio, così radicata a una luce lunare che sembrava inesauribile, caduta lì dal cielo per fondarvi una notte estiva e eterna, era demoniaca: ma non si trattava affatto di Demoni appartenenti a un Inferno dove si scontano condanne, ma semplicemente appartenenti agli Inferi, là dove si finisce tutti. Insomma, poveri Dei, che se ne andavano in giro lasciando dietro a sé il loro odore di cani, astuti e rozzi, sinistri e camerateschi, usciti dai loro simulacri di tufo, oppure di legno divorato dal sole e dalla pioggia, rendendo funebre l’intero mondo notturno, e il cosmo. Senza però né lutto, né dolore: poiché nell’essere funebre consisteva l’odorosa, silente, bianca, e perdutamente quieta e felice, forma della città notturna, dei prati, del cielo.

La dimensione simbolica del corpo

11. I DANNI DEL PASOLINISMO!

Salò e le 120 giornate di SodomaMuccino scrive su facebook che Pasolini era un “non” regista, che usava la macchina da presa in modo amatoriale, senza stile, aprendo le porte a quell’illusione che il regista fosse una figura accessibile a chiunque, intercambiabile e improvvisabile, promuovendo così un anti-cinema in senso estetico e narrativo in anni in cui il cinema italiano era cosa altissima e faceva da scuola di poetica e racconto in tutto il mondo.

Aggiunge anche che da lì il cinema italiano morì in pochissimi anni con una lunga serie di registi improvvisati che scambiarono il cinema per qualcos’altro, si misero in conflitto con i Maestri che il cinema lo avevano nutrito per decenni, demolirono la necessità da parte del cinema di essere un’arte popolare e lo privarono di un’eredità importante che ci portò a essere da seconda industria cinematografica più grande del mondo a una delle più invisibili.
(Però, pensa quanto casino ha combinato Pasolini quando si è messo in testa di fare cinema, vai a sapere alle volte!)
In risposta a Muccino in poche ore si scatena su facebook un vero e proprio linciaggio verbale a suon di attacchi, critiche, insulti, calunnie di vario tipo con una rabbia e una violenza inverosimili contro chi aveva osato profanare il Vate, il Maestro, il Modello inoppugnabile e incontrovertibile, al punto da costringere lo stesso Muccino a chiudere il suo profilo facebook, non prima però, badate bene, di aver ricambiato gli affondi ingiuriosi con non meno apodittiche sentenze, tacciando i suoi aggressori di attacco alla libertà d’espressione, di conformismo intellettuale e di fascismo applicato.
Ora, domineddio, Pasolini è morto da quarant’anni e delle sue spoglie sarà rimasta solo polvere per cui non può nemmeno rivoltarsi nella tomba, ma soprattutto non può resuscitare per sommergere sia adulatori che denigratori con quella stessa veemenza, precisione e acuzie con cui elaborava le proprie idee nel pieno rispetto di quelle altrui.
Perché lo scempio che si sta facendo oggi su Pasolini, per lui o contro di lui, è l’esatta antitesi di quello che era la sua natura, la sua eleganza, la sua posatezza. Se mi passate la metafora ornitologica è come accanirsi sul raffinato canto di una cinciallegra facendola a pezzi a colpi di mannaia.

12. IL POVERO PASOLO

Povero PasoloIl povero Pasolo
sotto terra da anni
sta come un moccolo
a far conta dei danni.

Per tutti coloro
che urlano in coro:
– Oh che vate assoluto!
– Oh che inutil rifiuto!

Sia Evviva che Abbasso
ne fan solo un bottino
scatenando un fracasso
se poi arriva Muccino!

– Diventare un modello?
Mi tocca anche quello?
Sbandierar verità?
Ma che assurdità!

Così il Pasolo afflitto
non ce la fa proprio più
ma non si dà per sconfitto
e aspetta tutti laggiù!