> Articoli > L’immaginario di Baudolino

image_pdfimage_print

L’IMMAGINARIO DI BAUDOLINO

  

Credevo di aver trovato una “figura” che, sotto diverse forme e con diversi fini, si ripresentasse, smaliziata ed ironica, in tutti i romanzi di Umberto Eco, a dispetto dell’ipertrofica eloquenza, dello sconfinato saggismo e della stratificata architettura che li alimentano: quella del Silenzio. Mi era sembrato che alla fine di ogni storia tutto dovesse tacere: fosse per distruggere l’eresia di Aristotele che elogiava il riso senza ossequio al timor di Dio ne Il nome della rosa, fosse per vanificare l’insensatezza di un Piano che aveva perso nel tempo le sue finalità ne Il Pendolo di Foucault, fosse pure per sospendere l’interpretazione delle carte di un naufrago che svaniva dentro la sua fantasia ne L’isola del giorno prima, in ogni caso, al fondo, non rimaneva che il silenzio. Tre romanzi non fanno una regola, ma certo il quarto è stata un’eccezione, sotto molti aspetti a detta dello stesso autore. In Baudolino non solo il Silenzio è bandito da un territorio a densissima narrazione e a più registri, dai molteplici risvolti e dagli infiniti raccordi, ma vi è addirittura un abuso di Parola che sconfina nella funzione opposta a quella del fare Storia: ovvero il mentire, che per altro – se ci si pensa bene – è sempre una variante del non dire (la verità).

Essendo il testimone che riferisce allo storico la propria esperienza (vera, presunta o immaginaria), Baudolino non tace, ma mente, consapevole che quanto più sono inverosimili le sue menzogne, tanto più si realizzano in eventi storici, attraverso un sottilissimo intreccio di fantasia e di realtà che non lascia più intendere i confini dei diversi piani del discorso, come mai intimamente confusi e misteriosamente irrisolti. In un tale congegno dove non si sa se cosa si racconta esiste o meno, è proprio l’interpretazione che finisce non solo col costruire un ordine (dei fatti, delle invenzioni, delle bugie), ma soprattutto con lo svelare i misteri ad esse sottesi.

Tutta la narrativa di Eco riposa – e non poteva essere altrimenti – sul meccanismo dell’interpretazione. Interpreta Baskerville i segni delle sette trombe dell’Apocalisse per comprendere la sequenza degli omicidi; interpreta Casaubon i file del computer Abulafia per individuare i disegni del Piano; interpreta persino l’Autore gli scritti del naufrago per ricostruire la mentalità (e la visionarietà) del Seicento; interpreta, quindi, lo stesso Niceta Coniate i racconti (presunti falsi) di Baudolino, arrivando a svelarne, paradossalmente, l’intrinseca verità. É lo storico Niceta infatti, con l’aiuto del veggente Pafnuzio, che mostra a Baudolino come realmente è morto il padre Federico, a dispetto di tutte le congetture fatte intorno alle mirabolanti invenzioni del castello di Ardzrouni. Ed è proprio quello storico, che per mestiere deve dire la verità, a illuminare un bugiardo che, pur cosciente delle proprie menzogne, non si era mai accorto di vivere nell’inganno.

D’altra parte è intorno al contrappunto tra la narrazione fantastica di Baudolino e le integrazioni storiche di Niceta che si snoda tutto il romanzo, laddove le imprese favolose del protagonista si intersecano con le vicende dell’impero di Federico Barbarossa, e l’incredibile missione in Oriente dei Re Magi si conclude con il colossale incendio di Costantinopoli. Ma al di là del continuo rimando tra cronaca e leggenda, in cui spesso si stenta a credere alla realtà e ci si lascia persuadere dalla fantasia, il tratto che più contraddistingue questo romanzo dai precedenti consiste nell’ingegnosa alternanza tra un registro popolare-farsesco che caratterizza le grottesche vicende della città di Alessandria (la fondazione, l’assedio, la liberazione, il cambio del nome), la “ruspante” famiglia d’origine del protagonista (mirabilmente divisa tra miseria e saggezza), lo sfortunato matrimonio di Baudolino e Colandrina (con lo struggente episodio del figlio nato morto: «bugia della natura») e, di contro, un registro filosofico-sapienziale che modula le intricate dispute dei compagni di Baudolino (prima fra tutte l’irresistibile disquisizione sull’esistenza o meno del vuoto tra il Boidi e Borone), le spiegazioni dei prodigiosi marchingegni nel castello di Ardzrouni (dove si compie il misterioso delitto di Federico), ma soprattutto il confronto tra le innumerevoli eresie delle diverse “razze” di Pndapetzim (compresa, naturalmente, l’affascinante digressione sulla natura di Dio e sul ruolo delle ipazie).

Un perfetto intreccio tra stile alto e stile basso, tra sottile ironia intellettuale ed esilarante paradosso popolare, in cui si verifica quello che lo stesso Eco ha spiegato di recente (Sulla letteratura, Bompiani, 2002), laddove afferma che una delle eccezioni di Baudolino consiste nel contraddire il principio – costantemente osservato negli altri romanzi – che è la costruzione del mondo a determinare il linguaggio, dal momento che in questo caso è invece lo stile a generare personaggi, ambienti e situazioni. L’altra importante eccezione, di cui parla Eco nello stesso testo, è la sostanziale mancanza di un’idea seminale, a fronte di un insieme di idee che hanno dato vita ai momenti più salienti del romanzo. Vero, il delitto nella camera chiusa, la resa dei conti tra i cadaveri mummificati, la sapiente costruzione dei falsi sono tutti motivi legati a scene ben precise che non danno ragione della struttura complessiva dell’opera. Tuttavia, se Baudolino costituisce un’eccezione (stilistica e strutturale) rispetto ai romanzi che lo hanno preceduto, ne rappresenta al contempo la sintesi dei principali motivi, riproponendo ogni tema essenziale di quei romanzi all’interno di un contesto diverso.

Il mistero che avvolge la morte (presunta) di Federico in un intrico di supposizioni, congetture e ipotesi legate all’ambiente “stregato” in cui si è verificata, richiama inevitabilmente il giallo della sequenza di delitti perpetrati nella cinta abbaziale de Il nome della rosa, altrettanto carico di incognite e ambiguità, risolte anch’esse con un colpo di scena finale. La bramosia di potere che alimenta la spasmodica ricerca del leggendario Gradale, con tutto il gioco di contraffazioni operato intorno alle reliquie, non fa altro che echeggiare l’ossessione plurisecolare dei Templari e dei Rosacroce, ne Il Pendolo di Foucault, nel volersi appropriare della Verità sul Piano (altrettanto “falsa” quanto il gradale trovato da Baudolino). Ancora, lo «Spasimo del Desiderio» (Eco, 2002) provato da Baudolino nel continuo rinvio del suo viaggio verso il Regno del Prete Giovanni si ricongiunge a quell’afflato cosmico che sospinge il naufrago de L’isola del giorno prima verso l’oltrepassamento del Meridiano Antipodo, per raggiungere quel Punto Fisso che, come il Regno del Prete, si rivela una meta aleatoria. Il giallo della morte, la conquista del potere e la missione inverosimile sono dunque i “tratti” esemplari della narrativa di Eco, che si ripresentano in Baudolino e hanno come costante un’altra essenziale “figura” di questa prosa: quella dell’Inganno. Inganno che in quest’ultimo romanzo non si riduce semplicemente all’elemento dell’arcano, dell’inesistente o dell’illusorio, ma assume un vero e proprio statuto di “falso” che arriva al punto di raddoppiarsi nella “copia del falso” (la lettera del Prete Giovanni falsificata da Zosimo dal prototipo inventato da Baudolino), oppure di estendersi a tutti gli oggetti che costruiscono la missione in Oriente (oltre alle lettere e al palazzo del Prete, anche le mappe del viaggio, le reliquie dei Magi e le teste del Battista). Un reticolato di contraffazioni che costituisce la sostanza fantastica (e fallace) del racconto improbabile (e falso?) di Baudolino.

Vi è, infine, un altro motivo che, per la verità, è sempre presente nei romanzi di Eco, ma solo in quest’ultimo lo si percepisce con una forza così intensa e distinta: quello dell’Eros. Tutti i protagonisti di Eco sono attraversati da brividi di grande passione, che sia quella peccaminosa della carne, quella vulnerabile del legame amoroso o quella edulcorata per una donna ideale. Adso da Melk si abbandona all’impeto dei sensi con una fanciulla “selvaggia” incontrata nella cucina dell’Abbazia, scoprendo la vertigine del piacere intimamente legata alla coscienza del peccato. Casaubon, durante il suo delirio editoriale nell’inventare il Piano, intrattiene un incostante e contrastato rapporto con Lia, dalla quale riceve un figlio: il proprio «Rebis». Roberto a sua volta si innamora di una Signora, che fa rivivere nei suoi scritti di naufrago, trasformandola secondo i propri desideri, fino a lasciarla ammalare e morire d’amore per lui. Baudolino, dal canto suo, non vive solo un paradigma dell’amore, ma ne vive tre: quello puramente “lirico” e platonico per l’imperatrice, moglie di Federico Barbarossa e donna irraggiungibile; quello assai più umile e caduco per Colandrina, che muore di parto dando alla luce un «mostriciattolo»; quello infine quasi surreale, ma al contempo stupefacente e drammatico, per quella creatura incredibile che è Ipazia.

Tra tutti gli irresistibili mostri che popolano Pndapetzim e convivono follemente in un crogiolo di eresie, Ipazia si distingue come una stella splendente nelle orribili tenebre, illuminando non solo con la sua bellezza, ma soprattutto con la sua scienza persino un uomo ormai scaltro, sapiente e navigato come Baudolino. La teoria dell’apatia come armonia degli opposti finalizzata a “correggere” l’errore della Creazione provocato da Dio, fa di Ipazia non una creatura insensata (come tanti altri mostri), ma soavemente saggia, di una statura filosofica e dialettica che fino allora era stata esclusivo appannaggio dei personaggi maschili di Eco. Con lei Baudolino scoprirà un’altra dimensione dell’amore, forse quella più umana a dispetto dell’inquietante natura dell’amata, mezza Venere e mezza capra, che concepirà da lui una creatura, per poi sparire in quel misterioso territorio di incubi e di incanti, inespugnabile accesso al mitico Regno del Prete Giovanni.

Share This