Ma perché la verità?

Ma perché la verità?

La colpa deve essere stata di tutta questa montagna di menzogne. Per forza. Altrimenti non si spiega. In un mondo infestato da narrazioni assurde, fallaci, inverosimili, di tutti contro tutti, di colpe sempre più grandi, di capri espiatori esponenziali, di notizie false e contronotizie ancora più false, di spropositi e smentite, di credenze contraffatte e di inganni all’algoritmo non ci si poteva aspettare qualcosa di diverso. D’altra parte dopo che si è creduto a tutto alla fine non si crede più a nulla. A eccezion fatta di una sola cosa: la verità, la pura, assoluta verità.
Per essere creduti, quando tutti mentono, occorre certificare che ciò che si dice sia accaduto veramente. Così la storia vera diventa un marchio di fabbrica, un attestato doveroso, la condizione imprescindibile per narrare qualsiasi cosa. Se è accaduto davvero, per quanto incredibile sia, non si può mettere in discussione.
Raccontare la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità ha legittimato però non solo di restituire storie accadute a terzi o in altri tempi da questi, ma anche di riferire storie accadute a sé stessi, ai propri congiunti, nel tempo delle proprie vite.
Così si è andato a scoperchiare quel vaso di Pandora che conteneva tutti gli orrori scaturiti dalla crisi della famiglia borghese. Madri tiranne, padri perversi, mogli agitate, mariti indolenti, figlie neglette, figli traviati, amanti confusi, bambini saccenti. In un tortuoso groviglio di dolore, morte, abbandono, perdita, lutto, malattia, disperazione. Storie di fatti reali, esperienze comuni, azioni condivise, vissuti personali. Come fossero le uniche cose al mondo meritevoli di narrazione: immediate, letterali, dirette.
Non più romanzi né racconti, dunque, ma biografie, autobiografie, memoriali, resoconti, faction, nonfiction, diari. Perlopiù canti funebri che si levano intorno alle rovine del paesaggio, alle miserie della vita, alla deriva dei rapporti, alla vertiginosa prevedibilità degli eventi più scontati. Con l’unica consolazione che alla fine la letteratura possa rivelarsi una medicina per lenire gli strazi del vivere e alimentare irrimediabilmente lo scrivere di sé, per sé, a sé.
Ma perché? Perché parlare delle proprie faccende presumendo che possano interessare agli altri? Perché credere che il personale possa essere universale? Perché narrare il concreto senza tradurlo in simbolico? Perché drammatizzare la sofferenza come unica dimensione reale? Perché esemplificare in dinamiche sentimentali complessi avvenimenti storici? Ma soprattutto perché fare il torto più grande alla letteratura ritenendola una medicina? Quale vero autore scriveva per curarsi? Quale scrittore usava la narrativa per dare sfogo ai propri accidenti e poi trovare in essa una riparazione? Piuttosto ci sono autori che si sono suicidati dopo aver scritto capolavori e giammai vi hanno trovato un conforto o una cura.
Insomma la scrittura del fatto privato (proprio o altrui) è pretenziosa, irrilevante; quella sullo sfondo di un fatto collettivo (sociale o storico) spesso è riduttiva, banalizzante; quella poi con l’obiettivo di lenire un danno (con funzione terapeutica) non è proprio letteratura. È sfogo, confessione, diario, testimonianza, pratica autoriferita, ovvero nulla di più antiletterario.
Perché la letteratura è rappresentazione del mondo, non copia; è metafora, allegoria, simbolo, non documentazione; è levità, distacco, ironia, non drammaticità; è intuizione, sintesi, digressione, non autoanalisi.
Non se ne può più di personaggi reali e private sofferenze, di fatti concreti e ordinarie vicende, di strazi banali e intime esperienze, ma sopra ogni cosa non se ne può più di donne che scrivono di madri e di figlie, di vittime e di eroine, di dolore e sacrificio, di abnegazione e martirio.
Quando vedremo autrici distaccate che scrivono di donne cattive? O autrici ironiche che scrivono di donne ingegnose? Perché i personaggi femminili non possono avere le stesse peculiarità di quelli maschili? Perché non possono essere assassine, ambiziose, argute, malvagie alla loro stessa stregua? Perché non possono essere frutto di fantasia, di varianti bizzarre o di esperimenti audaci?
Ci vorrebbero autrici che scrivessero di donne che non le rispecchiano, di donne consapevoli di un destino che non hanno subito ma che si sono scelte, oppure che gli è capitato e hanno saputo giocarselo secondo le proprie abilità, di donne lucide, ironiche, terribili (come quelle che seguono a breve), uniche responsabili dei propri misfatti.
Quando ci libereremo dalla dannazione delle menzogne, dalla disgrazia delle storie vere, dall’ossessione del privato e del personale, dalla smania dell’indennizzo e della riparazione, allora forse si potrà riscoprire l’autenticità dell’invenzione, il gusto del gioco letterario, la felicità dell’ingegno creativo, l’estro della sperimentazione, per narrare davvero qualcosa che tenga conto di chi legge assai più di chi scrive.




Propaganda bellica. La terza Erinni

Propaganda bellica. La terza Erinni

La propaganda, finora, io l’avevo letta solo sui libri di scuola. Sì, quella che si studia nei manuali di storia quando parlano di guerre, ad esempio, di come si manipolavano le informazioni per esercitare pressioni su stati d’animo e opinioni. Facendo ricorso alla paura, all’autorità, al senso di appartenenza, screditando avversari e colpevolizzando innocenti, ostentando banalità, vaghezze, operando semplificazioni, sfruttando stereotipi e slogan, additando sempre un capro espiatorio.
Non che esistesse solo la propaganda bellica, s’intende, se vogliamo risalire proprio indietro la troviamo già nella Bibbia, poi nell’Eneide, ancora nel Medioevo durante le Crociate, per non dire durante la Controriforma per contrastare il Protestantesimo.
Pare che anche la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America sia un capolavoro di propaganda nazionale, ma altrettanto Karl Marx nel Capitale non c’è andato leggero in termini di declinazioni propagandistiche del proprio pensiero.
Insomma c’è stata una propaganda religiosa, culturale, filosofica, politica, economica, persino letteraria, essendo un fenomeno squisitamente comunicativo. Certo l’apoteosi l’ha raggiunta durante i totalitarismi e i loro catastrofici conflitti… i cui spasimi pensavo si fossero estinti con l’ultima guerra mondiale.
E invece no. Avevo sottovalutato l’evoluzione tecnologica della comunicazione massmediale. E soprattutto la ridondanza cosmica delle piattaforme connettive. Tanto da manifestarsi un fenomeno inedito nella storia umana: non una, ma più propagande degne della terza guerra mondiale… senza però la terza guerra mondiale!
Non che le propagande si riescano a tollerare meglio se associate alla fine del mondo, ma risultano davvero insopportabili, per non dire farsesche, se questa fine la danno per acquisita quando ancora non c’è. E già una guerra nel cuore dell’Europa a XXI secolo bell’avviato è qualcosa di indicibile, se poi si esercitano violenze propagandistiche da conflitto atomico globale è ancora più inaccettabile.
Putin minaccia che la risposta della Russia a eventuali contrattacchi alla sua “operazione speciale” porterà a conseguenze che non si sono mai viste nella Storia. Biden dichiara che strozzerà l’accesso della Russia alla tecnologia, stroncherà il suo apparato industriale e spezzerà la sua capacità di competere. Zelensky afferma che la terza guerra mondiale è già in atto e se non fanno la no fly zone sull’Ucraina e non la sommergono di armi non ci sarà scampo per nessuno.
Minacce sentenziose, dichiarazioni spropositate, anatemi marchiani, parole più violente delle stesse armi di sterminio che nella loro ipertrofica prosopopea appaiono persino stucchevoli. Direi che se proprio hanno un valore è che nell’ostentare un apparato da belligeranza termonucleare alla fine la esorcizzano.
Pensavo che con il rilancio delle teorie del complotto avessimo toccato il fondo. Le scie chimiche degli aerei che liberano sostanze misteriose per inquinare il pianeta, la frode lunare di uno sbarco messo in scena per millantare primati planetari, l’attacco alle Torri Gemelle organizzato dalla Cia per invadere l’Afghanistan sono ormai antichi deliri soppiantati da una nuova generazione di complotti molto più folkloristici.
Con la pandemia ormai si sono aperti scenari vertiginosi: virus scappati dai laboratori, tecnologie distruttive per gli anticorpi, guerre pandemiche per il dominio del mondo, vaccini manipolati per alterare il genoma. Deliri floridi ai quali neanche la guerra attuale si è saputa sottrarre: da Biden che ha spinto Zelenski a farsi attaccare per rinforzare la presenza della Nato in Europa, a Putin che nel suo grande disegno pan russo ha deciso di spingersi fino a occupare Lisbona.
Certo anche il negazionismo non è stato da meno. Non dico quello storico, come la negazione dell’Olocausto o di altri genocidi, dall’ucraino, all’armeno, fino all’assiro. Ma quelli più attuali come la negazione del cambiamento climatico o peggio della pandemia da Covid 19, con tutto lo sfinimento paranoico, ossessivo, pretestuoso, strumentale dei No Mask, No Vax, No Pass: paladini visionari di libertà irriducibili concepite per individui monadici, avulsi da qualsiasi dimensione collettiva.
Ma la punta di diamante delle narrazioni mistificanti l’ha raggiunta solo la guerra tra propagande (più che la propaganda di guerra), l’escalation di maledizioni incrociate, il gioco di anatemi al rialzo… fuori scala e fuori senno. Quella è davvero la terza Erinni.
Non Aletto, l’indicibile, colei che non riposa e non dà requie, che castiga i peccati morali come la collera, l’accidia, la superbia. Non Tisifone, guardiana dei cancelli del Tartaro, che castiga i delitti di assassinio come il parricidio, il fratricidio, il matricidio. Ma Megera, la strega, preposta all’invidia e alla gelosia, che induce a commettere delitti come l’infedeltà coniugale.
Quella non è fustigatrice come le altre due, ma istigatrice, non punisce ma incita, non mortifica ma spinge alla perdizione. Se poi arriva a ruota dopo complotti e negazioni suggella definitivamente la catastrofe.




Favola nera d’Europa

Favola nera d’Europa – Illustrata con dipinti di Otto Dix

C’era un tempo la piccola Europa,
che poi tanto piccola non era perché era l’unica al mondo.
Nel senso che a Ponente aveva solo mare a perdita d’occhio
e a Levante aveva solo terra illimitata e desertica.

Così cominciò ad allargarsi,
prima stringendo in una morsa tutto il Mediterraneo,
poi inoltrandosi nell’entroterra
verso altri mari del nord e altri monti dell’est.

Ma la piccola Europa, che intanto era diventata grande,
si era divisa in tanti piccoli stati
che gareggiavano a chi diventava più grande per mare e per terra.

Così si scatenarono guerre furibonde
per motivi politici, dinastici, religiosi
tra regni, nazioni, imperi che diedero vita
alla guerra degli hussiti e a quella dei boeri,
alla guerra dei cent’anni e a quella dei trent’anni,
alla guerra di devoluzione e a quella di successione,
alle guerre di religione e a quelle d’indipendenza,
alle guerre civili e a quelle dinastiche
alle guerre napoleoniche e a quelle jugoslave.

Ma la piccola Europa voleva diventare sempre più grande
e allora non si espanse solo nel proprio continente
ma si estese nel vicino Oriente e poi in quello medio e infine in quello estremo.

Poi puntò verso sud e si prese tutti i paesi sotto di sé,
dall’Angola alla Somalia, dall’Algeria al Congo,
dal Mozambico al Camerun, dalla Namibia alla Tanzania.

Ma il colpo grosso lo fece quando scoprì che dopo tanto mare verso ovest
c’era una terra lunga lunga che andava dal polo sud al polo nord,
così la occupò, la depredò, la colonizzò,
infliggendo schiavitù, stermini e distruzione.

Non contenta però la grande Europa arrivò a fare grandi guerre,
una più grande dell’altra, tanto che il grande paese dell’est
e il grande paese dell’ovest che ora aveva ai suoi lati
dovettero intervenire per liberarla da devastanti dittature.

E dopo due grandi sfracelli, con annessi orrori e genocidi,
il grande paese dell’est e il grande paese dell’ovest
non si fidarono di lasciare la povera Europa riprendere la carneficina
e allora la spaccarono in due metà e se ne presero una per ciascuno.

Ma in breve il grande paese dell’ovest
inglobò sempre più paesi sotto la sua protezione
e il grande paese dell’est sfondò i propri confini
per riprendersi le terre vicine.

Così la grande Europa, che intanto era tornata piccola piccola,
invece di difendere la pace per la quale si era unita
alimentò la guerra contro il grande paese dell’est,
contando di essere difesa dal grande paese dell’ovest.
Ma quello si era stufato, non aveva più mire espansionistiche
in altri continenti, ma solo nel proprio.

Tant’è che la piccola Europa,
terrorizzata che il grande paese dell’est la volesse invadere tutta
e il grande paese dell’ovest la volesse abbandonare a sé stessa
decise di armarsi fino ai denti,
per diventare anche lei un grande paese del mezzo
capace di battere il grande paese dell’est
facendo a meno del grande paese dell’ovest.

Ma per quanto si armasse,
per quanto costruisse missili e bombe,
per quanto si indebitasse per uomini e mezzi,
il grande paese dell’est non la invase
e il grande paese dell’ovest non la abbandonò.
Il primo la teneva sotto scacco con la minaccia dell’invasione territoriale,
il secondo la teneva sotto scacco con il controllo del monopolio economico.

Ma la piccola Europa ormai doveva consumare tutte le armi che aveva pagato
e non potendole usare fuori dai propri confini le rivolse al suo interno.

Così, sempre più piccola e sempre più divisa,
tornò a fare guerre tra nazioni e guerre tra popoli,
guerre tra contrade e guerre tra faide,
guerre di fede e guerre di razza,
guerre di quarantasette, ottantacinque, centodieci anni,
fino a ridursi in un immenso cumulo di macerie
che nessuno aveva più voglia di rimettere in sesto.

Infatti il grande paese dell’est e il grande paese dell’ovest
si misero d’accordo per non ricostruire più nulla.
Fecero della vecchia Europa una sconfinata terra di nessuno,
smilitarizzata e desertica, per evitare ennesimi disastri.

Ormai erano diventati paesi immensi e pacifici:
un continente di mezzo per sempre imbelle e neutrale
era sufficiente a garantire egemonia, prosperità e pace
alle loro incontrastate e impareggiabili autocrazie.

 




Questione di genere

QUESTIONE DI GENERE

Io volevo fare la donna di casa e la madre di famiglia. Non per vocazione, ma proprio per principio. Non mi piacciono le faccende domestiche, al contrario mi fanno venire l’orticaria. Adoro invece abitare la casa, espandermi in tutti i suoi recessi, possedere diversi angoli di rifugio, isolarmi dal resto del mondo e magari ogni tanto trovarvi qualcuno con cui avere a che fare. Non amo nemmeno la confusione, mi irrita l’eccessiva promiscuità, ma decisamente adoro i bambini. So divertirli, raccontargli storie, giocarci per terra. So capire i loro problemi, aiutarli a risolvere, entrarci in empatia. Ma forse perché non sono miei. Temo che se lo fossero non li sopporterei proprio. Ma chi lo sa poi, non ne ho avuti e non mi è mai capitato qualcuno con cui farli.
Perché il problema è proprio questo. Essere finita in una voragine tra due estremi. Da una parte gli impraticabili. Quelli intriganti, diabolici, maledetti, che hanno stoffa da vendere ma non la scuola per rispettarti e si servono di te a piacimento senza alterare alcunché della loro vita. Mariti fedifraghi o amanti indolenti il risultato non cambia: sposati che non si vogliono separare oppure liberi che non si vogliono legare si rimane comunque sospese a fare da riserva o da sollazzo. Dall’altra parte invece gli irrilevanti. Quelli papabili, disponibili, compiacenti che ti fanno il filo ma senza crederci, si aspettano qualcosa ma non si espongono, ostentano scaltrezza ma non hanno sostanza, tanto da farti passare ogni tipo di voglia. Hanno solo l’attenuante di non essere rovinosi, ma la loro inconsistenza li rende insopportabili, al punto da finire con l’evitarli.
Così, dopo essermi dannata con gli impraticabili e astenuta dagli irrilevanti, mi sono ritrovata a stare in casa senza fare la moglie e a intrattenere mocciosi senza esserne la madre. Precipitata in quel baratro tra estremi senza appigli né dislivelli, senza mediazioni né compromessi. Perché io mi sarei pure adattata a qualche sfumatura intermedia, che so, un marito in odore di separazione, un single con inclinazione al legame, un’anima semplice con un guizzo d’arguzia, un carattere eccentrico dotato di spirito critico, insomma un ibrido che potesse stemperare gli estremi canonici che da sempre dividono gli uomini in stronzi o in noiosi.
E invece no, questo non mi è stato dato in natura. Seppure, come diceva Churchill della democrazia, la mia condizione solinga è la peggiore che ci possa essere, eccezion fatta di tutte quelle che mi sono capitate finora. Dunque, dopo tutto, è sempre la migliore di quelle in cui mi sono imbattuta. Per cui di che lamentarsi? Considerando poi che le donne, dal canto loro, possono essere molto più tremende degli uomini. Perché troppe volte mi sono consolata di non essere un uomo proprio per non avere a che fare con una donna. Magari meno eccentrica ma più isterica, forse meno noiosa ma più stupida, senz’altro meno aggressiva ma più evanescente.
Così ho tirato innanzi a fare una vita che non era la mia, ad aspettare qualcosa che non accadeva, a confidare su qualcuno che non arrivava, a sognare una donna che non ero io. Certo, mi sono riuscita a difendere, ho fatto tesoro della mia solitudine, stato di grazia del mio isolamento, beatitudine della mia selvatichezza, senza tuttavia bastare a me stessa. E questo è stato l’intoppo, avvertire la necessità di un interlocutore, un volto, una voce, un corpo, una testa con cui avere a che fare, una testimonianza di esistenza che desse senso alla mia, un’interazione con un essere umano che facesse sentire più umana anche me. E questa irriducibile impellenza mi ha sempre fregato.
In fondo ho guardato ogni volta con stupore donne che prendevano e mollavano uomini come capi di abbigliamento, donne che ne potevano fare del tutto a meno e donne che non potevano staccarsene un attimo, donne che ne raccoglievano uno da piccole e se lo facevano bastare per tutta la vita, donne che ricominciavano ogni volta daccapo seppure deluse, percosse, umiliate.
Io però non sono mai riuscita a trovarmi in nessuno di questi stati, né distaccata né dipendente, né opportunista né subalterna. Ho fatto sempre a mio estro, come mi sentivo e come mi pareva, anche a costo di andare a sbattere il grugno. Ma almeno sapevo che me l’ero cercata da sola e non rischiavo di dare la colpa al malcapitato spacciandomi sempre come vittima o come eroina.
Perché è proprio questo che ho sempre detestato nelle donne. Non darsi mai altra opportunità che non fosse quella di non poter fare alcunché soccombendo al proprio destino, oppure che non fosse quella di reagire a ogni costo credendosi sovrumane. E siccome a me non sono mai piaciute né le disgraziate né le super eroine, sono finita col perdere i punti di riferimento, tanto da smarrirmi in un dedalo di trappole ogni volta che mi innamoravo. Per giunta senza neanche mettere a frutto l’esperienza del momento tanto da non ripetere gli stessi errori, anzi ricadendovi con più virulenza, soggiogata assai più dalle leggi della passione che non da quelle della ragione.
Eppure non nutro rimpianti, né rimorsi, né rancori. Anzi, rifarei tutto se mi capitasse la medesima sorte, se invece me ne capitasse un’altra chissà cosa potrei combinare. Come adesso, ad esempio. Avevo una gran voglia di rimettermi in gioco, una volta smaltite le ultime storie melodrammatiche che come al solito mi avevano ridotto in un’infinità di frantumi, uscendo di nuovo allo scoperto e cogliendo con ringiovanita scaltrezza quello che mi avrebbe offerto la vita. Fiduciosa in un cambio di passo, in un giro di ruota, in un punto di svolta che per destino mi sarebbe spettato. E invece no. Tutto l’opposto. Tra capo e collo è arrivata proditoria la pandemia.
Reclusione, quarantena, distanziamento, protezione, maschera anticontagio e pure antiapproccio, uscite mirate, giretti solitari, panchine proibite… quali condizioni peggiori per un incontro galante? Senza nemmeno più un cinema, un teatro, un concerto, un museo dove per azzardo trovarsi? Ma poi pensi che se non è successo per decenni perché mai dovrebbe capitare proprio adesso? In cui per altro sono tutti in paranoia per la costrizione domestica? Tutti meno me, naturalmente, che invece me la vivo come una pacchia insperata. Senza nessuno che mi rompa le scatole, facendo tutto quello che voglio, godendomi da sola l’intera casa, dando un senso alla vita come mi gira. E forse proprio questo mi ha salvato dall’immensa psicosi che ha contagiato tutti.
Complotti, persecuzioni, autoritarismi, guerre civili, regimi totalitari, colpi di Stato, una visionarietà così virulenta da far impallidire persino la pandemia. Solo perché è stato necessario stare alcune settimane in casa per contrastare il contagio. Roba che questa vita io la faccio da anni. Lo stato di quarantena per me è la routine. Solo che l’ora d’aria invece di farmela in un parco me la sono fatta intorno all’isolato. Per questo forse non sono sprofondata nel buco nero dei deliri collettivi che hanno contagiato tutti con più potenza del virus.
Seppure il vero segreto per salvarsi non era nemmeno nella tanto abusata resilienza, quanto nella insospettata creatività! Perché sarebbe bastato avere un po’ di inventiva per non farsi cogliere dall’ansia di sentirsi ostaggio di un regime assolutista, un po’ di scaltrezza per non sprofondare nell’ossessione di essere preda di complotti assassini, un po’ di fantasia per trovare le giuste strategie di sopravvivenza senza abbandonarsi all’esasperazione, come ho cercato di fare io, nell’inventarmi una vita a misura di quarantena fatta di poesia, musica, pittura, levità, ironia.
Così alla fine ne sono uscita incolume, ma sempre più solitaria e defilata, sociopatica e forastica, con la sensazione di essere una sopravvissuta in un mondo che ha dimenticato l’arte come motore di esistenza, la creatività come soluzione dei problemi, facendosi sommergere dalle paranoie dei nostri tempi che accecano ogni ragionevolezza, mortificano ogni immaginazione.
Mi è rimasta per la verità un’unica speranza. Quella che in tutto questo pandemonio si siano rimescolate un po’ di carte. Il virus è una brutta bestia, disorienta, confonde, sbaraglia, sconquassa. E i risultati possono essere diversi. Ma non mi aspetto grandi epifanie, a volte per spostare il corso di una vita basta un soffio. Tutta sta che spiri, per una buona volta, dalla parte giusta.




Le frontiere più estreme dell’autoscatto

COME CI SI PUÒ AMMALARE O MORIRE DI SELFIE

Spiegatemi la grandezza di scalare l’Everest,
ti sforzi, muori dal freddo, arrivi in cima e non c’è niente,
neanche una rete 3G per twittare un selfie.
Anonimo

  1. Dal Selfie Alphabet alla “selfite”

     Non importa dove, non importa quando, non importa come. L’importante è esserci. E per poterlo fare occorre provarlo. L’autoscatto attesta una presenza esclusiva, testimonia un’identità inquivoca, veicola l’unicità del proprio sé nella rete, attribuendone un riconoscimento e determinandone un’appartenenza. Se il selfie ha un senso in quanto postato sui social, il mostrare se stesso non è più una rappresentazione di ciò che si crede di essere o di ciò che si vuole far credere di essere – secondo gli “immaginari” individuati da Roland Barthes[1] – ma diventa altresì una testimonianza di esistenza, quale che sia, che richiede la diffusione in rete per essere certificata (attraverso like, espressioni emotive, commenti verbali, condivisioni).
1Naturalmente i social sono pieni di immagini che riproducono paesaggi, monumenti, animali, persone, oggetti, qualsiasi presenza che possa attestare un proprio esserci nel mondo in qualità di testimone, attribuendo in questo modo alla fotografia quel duplice ruolo di “possesso” e di “consumo” che ne designa la valenza di riproduzione e di immortalità secondo Susan Sontag[2]. Eppure la documentazione di esperienze o avvenimenti – che siano viaggi, azioni, cerimonie, ricorrenze – sembra perdere la propria autorevolezza se il soggetto della “ripresa” non si fa oggetto della stessa, al punto che il proprio sé finisce col surclassare tutto il resto, rendendo spesso irrilevante ogni contesto o occasione che lo giustifichi.
Esserci, dunque, sopra ogni cosa. E naturalmente farsi apprezzare e condividere. Ma il selfie non è solo un modo per attestare se stessi, per richiedere conferma oppure conforto a seconda del proprio grado di autostima. Il selfie è comunque una forma di esibizione che anziché neutralizzare un certo narcisismo, al contrario lo potenzia. È vero, Narciso basta a se stesso, si incanta da solo di fronte alla sua immagine riflessa, non ha bisogno di mostrarsi, né tantomeno offrirsi ai giudizi degli altri, la sua contemplazione è solitaria, si consuma nel suo sguardo e si spegne nello stesso riflesso che non riesce a catturare. Ma anche nel selfie c’è auto-contemplazione. L’immagine del sé viene catturata (riprodotta) e diffusa (immortalata) non solo per esibirsi al mondo, con i relativi riscontri amplificati nella rete, ma anche per continuare a specchiarvisi nelle sue molteplici risoluzioni senza struggersi perché svanisce nell’acqua. Così anche una scarsa autostima può generare compiacimento, anche un’insicurezza profonda può provocare l’innamoramento del sé, perché il social non è solo condivisione, ma anche archivio, non è solo una vetrina collettiva, ma anche un album singolare, cosicché ci si può sempre ammirare nella memoria infinita dei propri selfie.
2Solo che la storia non finisce qui. Se la presenza virtuale nel web attraverso l’autoscatto – per esserci, per mostrarsi, per esibirsi, per contemplarsi – attesta comunque una dimensione identitaria, sia pure fittizia o truccata o alterata, la sua evoluzione porta alla frantumazione di tale identità, messa a servizio di particolari, situazioni, animali che ne determinano il significato.
È possibile così declinare quasi tutto l’alfabeto per definire i vari hashtag dedicati ai selfie, a cominciare dalle parti di corpo. Non più allora il volto intero, semmai il profilo migliore (#helfie, da half selfie), o solo le gambe, di solito sdraiate in bikini (#lelfie, da leg selfie), o le unghie delle mani dopo una manicure perfetta (#nelfie, da nail selfie), o le acconciature dei capelli quanto mai eccentriche (#helfie, da hair selfie), o ancora il fondoschiena, tonico o flaccido che sia (#belfie, da b-side selfie). Ma ci sono anche i torsi nudi maschili, non per forza muscolosi (#shirtless selfie, senza maglietta), o i seni di donne intenti ad allattare (#brelfie, da breast selfie), oppure certe espressioni come la lingua di fuori (#tongue-out selfie), o le labbra a becco di papera (#duck selfie). Sempre riguardo il corpo ci sono poi i fashion selfie (#felfie) che mostrano capi di abbigliamento, o i wellness selfie (#welfie) che evidenziano la cura del corpo, o ancora i gym selfie (#gelfie) che esaltano i muscoli fatti in palestra.
Ma la mania dell’autoscatto si estende anche alla presenza di animali, domestici o di fattoria, persino pelouche, e gli hashtag dedicati a loro sono molteplici (#alfie da animal, #delfie da dog, #relfie da reindeer, renna, #pelfie da pet o pelouche, #felfie da farm, animali di campagna). Mentre altre tipologie di autoscatto vengono contraddistinte dai luoghi in cui vengono fatte, eminentemente in bagno (#telfie da toilette e #melfie da mirror), oppure davanti a dipinti o a statue (#museum selfie), o peggio dietro a bare di parenti (#funeral selfie), per non dire alla guida di auto o di moto in corsa (#driving selfie). Non mancano però i selfie a letto dopo aver fatto sesso (#aftersex) oppure appena svegli, o quelli a tavola con il cibo nel piatto prima di mangiarlo, o quelli con smorfie e facce varie in foto tessera, o quelli che riproducono vecchie foto, o quelli in stile nerd, casual, nature, coatto, meditato, sfatto, o ancora i video selfie (#velfie), per non dire dei selfie al selfie in cui l’autoscatto si eleva al quadrato nel riprodurre a sua volta un autoscatto.
Dunque una vera epidemia febbrile, trasmessa per contagio o imitazione, che raggiunge forme ossessive in base alle mode del momento e si organizza secondo un preciso codice di hashtag, tanto da aver fatto parlare di “selfite”, una sorta di affezione articolata in tre fasi – iniziale, acuta e cronica, in base a quanti selfie si fanno e si postano al giorno – che tuttavia non sembra avere alcun fondamento scientifico. In realtà non c’è nessuno studio che attesta una patologia legata al selfie, seppure ci siano diverse forme di abuso che possono condurre a dipendenza, frustrazione, condizionamento, inadeguatezza, autoreferenzialità. Tutto sommato più un disagio che un disturbo, più un eccesso che una malattia… fino a quando però il gioco non si fa duro.

  1. Dal Selfie Olympics al selfie estremo

    Prima si sono formati sui social gruppi pubblici e privati di selfie games. Perlopiù autoscatti di facce buffe, espressioni divertenti, piccoli camuffamenti del volto, con nasi o orecchie da animale, con cappelli o occhiali esagerati, insomma una serie di varianti giocose del selfie che di rado si estendevano a tutto il corpo o a parti di corpo. Poi però sono subentrate le pose curiose e le situazioni azzardate che hanno messo in scena delle vere e proprie gare di esibizioni più o meno acrobatiche, assurde, ridicole, imbarazzanti.
3La condivisione in rete è diventata competizione virale e sono sorti i selfie olympics organizzati anch’essi in pagine e in hashtag di facebook, twitter e instagram. Il luogo privilegiato per queste gare olimpioniche si è rivelato proprio il bagno di casa (soprattutto perché c’è lo specchio che permette anche i selfie riflessi), con le varianti della cucina, della camera da letto o dello sgabuzzino. Nell’ambito delle diverse prestazioni si sono poi evidenziati veri e propri generi: i selfie koala arrampicati sulla porta, in equilibrio sui pomelli, in bilico sull’anta; i selfie nudi sospesi nel vuoto sopra la vasca o sopra il letto; i selfie rannicchiati dentro il forno o il camino o il frigorifero; i selfie acrobatici su tricicli, skateboard, sedie impilate, oppure rovesciati sottosopra, puntellati sulle pareti, a penzoloni dalla finestra; i selfie con oggetti ingombranti in spazi ristretti come una canoa o un tagliaerba o un’automobile a pedali; i selfie in cui si cucina con le piastre sul lavello o vi si mangiano dentro gli spaghetti; i selfie in cui si celebrano messe o funerali in bagno travestiti da monaci o santoni; i selfie con parodie di allenamenti e prestazioni ginniche sempre dentro la toilette; i selfie con effetti ottici di specchi all’infinito e di piani prospettici che rimandano a più scene; i selfie mascherati da supereroi con simulazioni di prodezze ridicolizzate.
Insomma una casistica infinita di posizioni, prestazioni, effetti speciali, combinazioni, simulazioni, messinscena dissacranti, sfide, provocazioni, eccessi, parodie. Il tutto dentro l’intimità della propria abitazione, che si trasforma tuttavia in un habitat surreale in cui ogni cosa è possibile, proprio nell’intento non solo di esibirsi per quello che si è ma soprattutto di stupire per quello che si è in grado di fare attraverso soluzioni sempre più audaci, ridicole, assurde.
Così da un piano di autoreferenzialità realistica, che rimanda appunto a una propria identità “corretta” semmai da apposite applicazioni per risultare ancora più “ideale” secondo determinati modelli, si passa a un piano di performance esibizionistica che rinvia a un’identità alterata da una serie di prove che piuttosto dissacrano la realtà, ne rovesciano le funzioni, la spingono verso una deriva di nonsenso e paradosso.
Cosicché il riprodursi e il diffondersi in rete attraverso competizioni “olimpioniche” non è più un atto per cercare conferme del proprio sé o per compiacersi dei propri ritratti, non è nemmeno una smania di imitazione che porta a emulare altri modelli, o un’ossessione compulsiva che induce a rappresentarsi in varie forme; diventa piuttosto una spirale contagiosa che porta a sfidare nuove frontiere performative, in cui non conta tanto l’esserci ma il fare, non la propria identità ma la propria prestanza, non il proprio volto anonimo ma la propria prodezza personalizzata.
Eppure ci si può spingere ancora più oltre. Basta fare un salto dall’interno all’esterno, lasciando gli spazi asfittici delle toilette o quelli ancora più restrittivi dei forni per quelli vertiginosi dei grattacieli o per quelli adrenalinici delle rotaie e il gioco è fatto: si approda all’universo pericolosissimo del selfie estremo.
4I pionieri sono stati gli scalatori di grattacieli, torri, ponti, statue, tralicci e quant’altro potesse dare il senso di verticalità vertiginosa che si era raggiunto. Tutti autoscatti con lo sfondo del vuoto che si ha sotto i piedi per siglare una prodezza che non appaga per la vista che si può godere dall’alto, ma per la vista di sé che si può dare sull’orlo del nulla. Le varianti dei selfie “aerei” sono poi quelle scattate in caduta libera col paracadute, o da diversi velivoli sporgendosi fuori dalla cabina, o sospesi nel vuoto attaccati a funi o a cavi, o quando non addirittura nello spazio.
Ma non c’è solo il cielo da sfidare, anche in mare si possono fare selfie estremi con balene e pescecani, o quando si è travolti da un’onda con il surf, o buttandosi a precipizio da una cascata o semplicemente stringendosi addosso un coccodrillo. Seppure le fiere predilette da abbracciare per un wild selfie rimangono i leoni, le tigri, gli elefanti come fossero animali domestici, quando invece non ci si vuole immortalare mentre si scappa rincorsi da tori o da orsi inferociti.
Eppure la vera sfida del pericolo nel ritrarsi in situazioni temerarie si misura soprattutto attraverso atti sconsiderati, come restare sulle rotaie fino a poco prima che il treno sopraggiunga, o arrampicarsi sui piloni dei cavi ad alta tensione, o usare per scherzo armi da fuoco o bombe a mano, o semplicemente mettersi in posa quando si corre alla guida di auto o di moto, o ancora in circostanze catastrofiche come incendi, esplosioni, naufragi, attentati, ecc.
Quando però il mostrarsi per esistere si fa anche a rischio della vita allora i tratti comportamentali di oggettificazione del sé possono assumere tendenze psicotiche, laddove non si ha più la percezione di un reale pericolo e si è posseduti dal bisogno di superare se stessi. Nel suo testo La vita quotidiana come rappresentazione[3] Erving Goffman mette ben in luce la tesi secondo cui si diventa se stessi solo mettendosi in scena per gli altri, tanto che per potersi affermare occorre mostrarsi a un pubblico che valuti cosa si è capaci di fare. E il selfie estremo sembra proprio avvalorare questa necessità di certificazione a qualsiasi costo, anche a quello della vita. Nell’inalienabile dimensione virtuale del social in cui tutto si può simulare, morire davvero appare così l’unico modo autentico per rendere reale la propria rappresentazione, perché nulla come la morte può attestare la propria esistenza.

  1. Dal “selficidio” al Safe Selfie

     In India tre ventenni di Nuova Delhi sono morti tra le rotaie mentre cercavano di farsi un selfie sui binari con un treno in arrivo, senza riuscire a salvarsi in tempo per via della velocità del convoglio. In Russia un adolescente è morto nella regione del Ryazan per aver toccato i fili dell’alta tensione mentre cercava di farsi un selfie arrampicandosi sul ponte di una ferrovia. Altri due ragazzi russi sono saltati in aria sui monti Urali mentre si facevano un selfie tenendo in mano una granata nell’atto di innescarla. Una ragazza moscovita si è sparata un colpo in testa per errore mentre si faceva un selfie puntandosi la pistola alla tempia. In una stazione di Barcellona un quindicenne è morto per una scossa elettrica alla testa dopo essersi fatto un selfie con l’asticella sul tetto di un treno merci. Un altro cittadino spagnolo è morto brutalmente incornato mentre tentava di farsi un selfie rincorso dai tori. Un turista giapponese è precipitato mentre era intento a scattarsi un selfie in cima al tempio indiano Taj Mahal. Una sedicenne italiana è scivolata per lo stesso motivo dalla rotonda di Taranto schiantandosi sulla scogliera sottostante. Anche una coppia di turisti polacchi è volata giù da un dirupo per farsi un selfie panoramico in Portogallo.
6Alle decine e decine di morti fulminati, travolti, esplosi, precipitati, sempre nell’intento di immortalarsi in condizioni estreme, si aggiungono poi le numerose vittime dei driving selfie, scattati alla guida di veicoli in corsa non badando alla strada. Gli incidenti provocati per sbandamento di auto e di moto a seguito di distrazioni da selfie hanno raggiunto anche in Italia, soprattutto nella zona del napoletano, un’incidenza tale da annoverare il selfie alla guida come un pericolo stradale alla stessa stregua della droga e dell’alcol.
Naturalmente considerare questi episodi di decesso per selfie estremo solo come un risultato di prodezze avventate significa banalizzare il fenomeno. Anche perché non si tratta di casi isolati, negli ultimi anni si parla di più di un centinaio di morti e feriti per la pratica dell’autoscatto in condizioni pericolose e la cosa non può essere ascrivibile solo ad atteggiamenti comportamentali. Non rendersi conto di correre il rischio di morire, o peggio ancora sfidare volutamente quel rischio anche solo per rendere “straordinaria” un’esperienza banale come una vacanza denuncia una pulsione psicotica ad andare oltre se stessi, facendo qualcosa di eccezionale che possa diventare memorabile, proprio per evadere dalla finzione o dalla routine. Insomma una tendenza inconscia di superare l’alienazione quotidiana o di infrangere la dimensione virtuale anche a costo della propria vita che alcuni psicologi hanno definito col termine di “selficidio”.
Al punto che in Russia, dove il fenomeno ha raggiunto una rilevanza statistica data la pratica particolarmente diffusa di performance pericolose per autocelebrarsi, il Ministero dell’Interno ha lanciato una campagna contro i selfie temerari, divulgando una guida intitolata Safe Selfies per orientare all’autoscatto sicuro. Oltre a moniti come “un selfie con un’arma può uccidere” o “una foto estrema rischia di essere l’ultima” o “un selfie figo può costarvi la vita”, la campagna di sensibilizzazione si basa anche su volantini, video, suggerimenti, cartelloni ispirati alla segnaletica stradale che raffigurano divieti di autoscatto con arma da fuoco, in prossimità dei binari, vicino a belve feroci, arrampicati su ponti o tralicci, alla guida di autoveicoli, ecc.[4]
5Anche in Italia la Polstrada insieme alle Asl Napoli 1 e Napoli 2 ha tenuto una serie di seminari per sensibilizzare i giovani a non fare selfie mentre si guida tanto quanto non far uso di droga o di alcol, con una campagna “no selfie – no drink – no drug” che mette appunto sullo stesso piano di pericolosità l’autoscatto con le sostanze psicotrope, soprattutto dopo la diffusione del «Periscope», l’applicazione di video-live collegata a twitter che permette di mandare in diretta tramite cellulare qualsiasi filmato ovunque ci si trovi.
Insomma il selfie trattato come una sostanza che può dare dipendenza, tolleranza o assuefazione, che può alterare l’attività mentale, lo stato di coscienza o il comportamento, che può spingere a simulare atti estremi (come puntarsi addosso una pistola o fingere di innescare una bomba) o a affrontare prove rischiosissime (come scalare tralicci di cavi ad alta tensione o sostare sui binari al sopraggiungere di un treno), tanto da essere combattuto attraverso politiche di controllo e di sicurezza a livello nazionale.
Ma il risvolto più paradossale di tutti, in questo gioco di messinscena con la morte, è che per contrastare incidenti e decessi sono state studiate anche nuove applicazioni per simulare la condizione da selfie estremo, in modo da effettuarlo senza viverlo, attraverso sfondi fittizi o circostanze ricostruite che possano restituire l’audace impresa senza aver corso alcun rischio. Così la situazione estrema che si cercava per rendere ancora più “vera” la propria rappresentazione viene risolta in modo “virtuale”, tornando a quella finzione di partenza che si voleva tanto scongiurare.
È il circolo vizioso del selfie perfetto: più si cerca di farlo veritiero più diventa innaturale, più si cerca di rappresentare se stessi più ci si mostra altro da sé. E forse è proprio in questo gioco di rimandi interni che si annida la vera ossessione per l’autoscatto: Narciso muore struggendosi perché non riesce a riconoscere che l’immagine riflessa di cui si è innamorato è la propria (non essendosi mai visto), il “selfista” invece si danna, quando non muore, perché non riesce a far riconoscere agli altri l’immagine ideale di sé (pur essendosi mostrato all’infinito).

[1] R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino, 2003.
[2] S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino, 2004.
[3] E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 1970.
[4] Si vedano i siti www.travelblog.it o www.blitzquotidiano.it, campagna russa e guida contro il selfie estremo.

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O l’Elba o morte. Non solo mare.

O l’Elba o morte. Perché l’isola non sia solo natura ma anche cultura e possa valorizzare tutte le sue ricchezze, anche quelle meno immaginabili. Non solo Cavoli e la Biodola ma anche il Volterraio e Forte Falcone. Non solo rocce a picco e acqua cristallina, ma anche festival, corsi e avvenimenti.

1“O Roma o morte”, diceva Garibaldi in occasione della partenza dei garibaldini dalla Sicilia per risalire la penisola fino a raggiungere Roma e liberarla dal potere temporale della Chiesa, solo due anni dopo la spedizione dei Mille. Perché all’epoca combattere per la libertà di un popolo e per l’unità del Paese era una questione di vita o di morte.
Così quando penso all’isola delle mie origini, cui sono legata da un sentimento ancestrale, mi viene da dire “O l’Elba o morte”, tanta è la mia dipendenza fisica e la mia affezione morale che mi rende quel luogo inalienabile. La mia stessa identità appartiene all’isola, non saprei immaginarmi senza di lei, al punto che non vivendoci vi ho lasciato la parte più profonda di me, l’anima. Cosicché le appartengo come può appartenere un corpo a un’anima. E questo non vuol dire viverci, vuol dire amarla aldilà del proprio vissuto.
3Ma anche l’isola ha un’anima, assolutamente irriducibile. E quell’anima non è rappresentata solo dalla sua intrinseca bellezza. Perché l’Elba non è solo natura. Non è solo gli splendidi paesaggi. Non è solo la mirabile sinfonia tra mare, cielo, spiagge, monti, boschi, paesi. Non è solo l’arte di certi affreschi o l’archeologia di certi ruderi. L’Elba è anche una dimensione esistenziale, fatta di pensiero, sensibilità, passione, umanità e soprattutto cultura. Non solo perché vi hanno vissuto e operato tanti artisti e tanti autori, ma perché vanta tradizioni di festival musicali, eventi teatrali, rassegne cinematografiche, incontri culturali, premi letterari da far invidia a tante metropoli che non soffrono l’isolamento del mare.
Tutti fenomeni che nutrono il tessuto umano e sociale dell’isola e ne alimentano anche il turismo e l’economia. Per questo la cultura dovrebbe essere tanto preziosa all’Elba quanto lo è la sua natura, proprio nell’ottica di caratterizzarne l’identità attraverso l’interazione tra i diversi comuni e non il loro antagonismo competitivo. Una cultura che possa valorizzare l’intero territorio e non sprofondare in ottusi particolarismi o in sterili polemiche. E naturalmente una cultura non fatta solo di eventi ma anche di formazione, condivisione, scambio, apertura.
5Credo nel mio piccolo di aver apportato un contributo allo sviluppo culturale dell’isola conducendo l’anno scorso dei corsi di scrittura creativa a Portoferraio rivolti sia agli isolani che ai villeggianti, così come quest’anno terrò altri incontri sempre sulla scrittura presso le scuole di Marciana Marina in modo da coinvolgere direttamente la popolazione studentesca. Ed è un vero piacere per me portare la mia esperienza qualificata in contesti diversi da quello metropolitano, proprio perché ho potuto constatare che esiste un grande interesse da parte della popolazione isolana nel mettersi in gioco e confrontarsi con altre realtà.
Per questo a mia volta sogno un’Elba in cui rifugiarmi non solo per perdermi nel suo mare, per trovare ristoro al corpo e per ricongiungermi con l’anima. Sogno anche un’isola in cui non veda l’ora di arrivare per partecipare a iniziative, assistere a spettacoli, collaborare a progetti. Sogno un’isola per la quale varrebbe la pena di morire non solo per rivedere il suo mare, che comunque già mi appartiene, ma per conoscere cose che altrove non potrei trovare. Questo è il mio sogno “risorgimentale”, dove un’isola possa prendermi non solo il cuore ma anche la mente.