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POTENZA E FASCINO DELLA PAROLA: GASSMAN SCRITTORE

  

In più di un’occasione Vittorio Gassman ha dichiarato che avrebbe voluto fare lo scrittore. Scrittore di prosa, ma anche di teatro e forse di poesia, dal momento che, per quanto avanti negli anni, ha avuto modo di confrontarsi con tutti i generi di scrittura. Può sembrare strano che un attore a tutto tondo come Gassman possa essersi avvicinato con tanta passione alla scrittura e possa aver prodotto testi propriamente letterari”, se non si tiene conto dell’importanza che egli ha dato in tutta la sua vita alla centralità della parola”, intesa non solo come testo da interpretare o come idioma da modulare, ma soprattutto come lingua con cui comunicare attraverso i suoi molteplici regimi, sia sul piano orale che su quello scritto.

Lo studio approfondito dei testi, l’acquisizione mnemonica di tante opere, l’esercizio di traduzione di diversi autori e la frequentazione di personaggi squisitamente “letterari” hanno senza dubbio creato in Gassman una sorta di fascinazione per il linguaggio, per la potenza evocata dalla parola e per i giochi sapienti della retorica – assai più che per altre modalità espressive, come la gestualità o la mimica – al punto da spingerlo ad usare lo strumento verbale non solo nelle sue molteplici opportunità interpretative, ma anche nelle più svariate soluzioni letterarie.

Per la verità Gassman “debutta”, per così dire, nella scrittura creativa attraverso un genere alquanto diffuso tra le personalità degli artisti, dei politici e degli uomini di spettacolo: quello dell’autobiografia. Lo fa, tuttavia, con un piglio stilistico piuttosto curioso e originale, che tradisce fin d’allora la sua stoffa di scrittore. Un grande avvenire dietro le spalle (1981) si snoda lungo due direttrici, la storia privata e quella d’artista, in cui si intrecciano i rapporti con i genitori, le amanti, i colleghi insieme agli spettacoli che interpreta e di cui cura la regia, l’instabilità e la fragilità del proprio ruolo di marito e di padre insieme alle esperienze contrastate con il cinema statunitense, la “sregolatezza” degli eccessi di fumo, alcool e libertinismo insieme all’impegno militante negli anni del Teatro Popolare. Slanci pindarici e abbandoni sconsolati, glorie di grande attore e vergogne di prodotti scadenti, arroganza di un uomo pieno di sé e tenerezza di un artista sensibile costituiscono gli opposti di una personalità complessa, contrastata, a tratti irrisolta, che racconta la propria storia con autentico artificio, con compiaciuta autoironia, offrendo una molteplicità di sfaccettature del medesimo personaggio.

Non è solo la materia, tuttavia, che interessa, talvolta diverte e talaltra commuove, ma è soprattutto la varietà degli stili con cui Gassman “narra” la sua vita a rendere più intrigante e movimentata la lettura: non tanto i versi di alcune composizioni o le “voci” definitorie dei propri amici o gli scambi epistolari con alcuni colleghi, ma soprattutto il passaggio dalla prima alla terza persona nel capitolo dedicato all’America “dolce-amara”, oppure l’intervista provocatoria improvvisata con un suo improbabile alter-ego o ancora il “monologo interiore” in cui sviscera tutta la sua anima nel capitolo conclusivo.

Circa dieci anni più tardi, Gassman torna a riflettere sulla sua vita, ma questa volta lo fa attraverso il genere del romanzo (sempre a sfondo autobiografico) nel quale racconta la sua cupa e sofferta esperienza del “male oscuro”. Il Vittorio/Vincenzo de Le memorie del sottoscala (1990) è perlappunto un ex attore e regista, poi diventato editore e scrittore (la doppia anima intimamente agognata), con quattro figli, un buon numero di amici e una discreta situazione finanziaria; eppure così drammaticamente lacerato da una depressione estenuante e pervicace contro la quale cerca di combattere attraverso le armi dell’analisi e della stessa scrittura. Forse ancor più che nell’autobiografia, in questo romanzo Gassman si dichiara e si “confessa” (al riparo della protettiva maschera del suo alter ego), svelando i dubbi, le paure, le omissioni e i sensi di colpa, tradendo le sue ambizioni e le sue fragilità, recitando la sua parte di marito distratto, di padre premuroso, di amico pedante e di paziente logorroico.

I temi che il protagonista attraversa sono in buona parte quelli appartenenti alla vita dell’autore: il difficile rapporto con i figli, le argute polemiche con gli amici, l’impegno didattico nella scuola di teatro, il lavoro sofferto nel percorso d’analisi, il suo ricercato confronto con il “genio” di Kean e la sua costante interrogazione sul tema della morte. Temi noti, già in buona parte affrontati nell’autobiografia e che, però, ora assumono “sembianze” nuove, inconsuete, grazie agli svariati registri narrativi che Gassman adopera in questa sua opera di finzione. Stralci di sceneggiatura, frammenti di testi teatrali, correzioni di bozze, canzoni didattiche, brani lirici, monologhi paralleli, favole visionarie, paranoie numeriche rappresentano i diversi moduli di narrazione con cui a fasi alterne Gassman si misura: a volte in modo troppo sproloquiante, pretenzioso ed esagerato per fare della vera narrativa, altre volte in modo felicissimo come quando gioca con la lingua e inventa storie surreali sulla guerra tra lessici e grammatiche.

Per quanto troppo immerso nel suo ruolo di mattatore e troppo preso dalle tematiche attoriali per essere un vero “autore” super partes, Gassman ha dimostrato di saper usare la lingua anche nelle complesse forme dell’invenzione lirica e drammatica, oltre che narrativa. Prima ancora della stesura del romanzo, compone infatti una raccolta di poesie, che lui stesso intitola Vocalizzi (1988), seguita da un insieme di traduzioni tratte dagli autori più disparati.

La rivelazione della parola, l’arte dell’attore, l’ambiguità del teatro, l’abisso della depressione, l’esorcismo per la morte, le personalità dei figli e quelle degli amici si rivelano i “motori” che animano queste liriche scritte in versi sciolti e con le rime più svariate, seguendo una metrica spesso curata con sottile sapienza, che stupisce ancor più se la si pensa scaturita dalla penna di un autore così poco incline al gusto della sintesi e alla “rarefazione” linguistica.

Così come sorprende l’eterogeneità di autori che Gassman ha scelto e tradotto nella sua personale antologia: dai “maledetti” Verlaine, Baudelaire, Mallarmé, Rimbaud a Valéry e Michaux, da Lowry, Cummings e Corso a Ferlinghetti, Salinas e Borges, dimostrandosi all’altezza non solo di saper interpretare, sia pur liberamente, testi così diversificati, ma anche di saper apprezzare, con raffinata sensibilità, autori di non facile e immediata comprensione.

Sempre affascinato dalle infinite possibilità espressive, ludiche, stilistiche e semantiche che può offrire la parola, Gassman finisce col comporre anche una silloge di racconti proprio sulla molteplicità dei paradigmi che possono derivare dalle varie articolazioni della parola, per giungere persino ai suoi contrari, come l’afasia e il silenzio. Mal di parola (1992) declina un insieme di storie all’insegna dell’antitesi tra gli opposti – dallo sproloquio al mutismo, dalla solidarietà alla solitudine, dall’abilità retorica alla meccanicità ripetitiva – in cui prendono forma personaggi inquietanti, padroni o schiavi della parola, comunque tutti affetti da quel male di “dire”.

Pur intimamente legati da una tematica così beffarda ed intrigante, i racconti risultano molto disparati tra loro e con alterne riuscite. Forse quello più meritevole di nota dal punto di vista dell’intreccio narrativo e della costruzione dei personaggi è proprio Silenzio, la storia di un anchorman televisivo che perde l’uso della parola, probabilmente per averne troppo abusato. Intorno al suo ostinato mutismo si agitano il suo manager, i dottori, l’ex moglie, l’amante, il fratello e la governante che cercano vanamente di restituirgli il dono della parola, senza capire se dietro la sua presunta afasia si nasconda un protervo rifiuto verso l’insensatezza e l’inutilità della comunicazione. Con impietosa ironia Gassman non perde l’occasione di mostrare la spettacolarità circense di molti talk show, attraverso una carrellata di personaggi assurdi e ridicoli, in mezzo ai quali il protagonista del racconto si divertiva a fomentare polemiche vane e a scatenare puerili gazzarre. Cosicché l’inevitabile conclusione di un tale abuso della parola non poteva essere che il rifiuto incondizionato di tutte le voci (quelle voci tanto temute e tanto sfuggite dal Gassman depresso), per ritirarsi in un orgoglioso e illuminato silenzio.

Un’ultima dimensione letteraria che non è certo possibile trascurare, sia pure in questa breve analisi, è quella relativa agli scritti drammatici. Come attore, regista e in genere uomo di teatro, Gassman non poteva non confrontarsi prima o poi con la drammaturgia. Oltre a numerose traduzioni di testi teatrali, aveva già curato alcune versioni per il teatro e altri riduzioni per il cinema, per poi pubblicare i testi delle sue più importanti “rivisitazioni” di grandi autori della letteratura.

Ulisse e la balena bianca (1992) coniuga il disegno suicida di due grandi figure mitologiche: il capitano Achab del Moby Dick di Melville e l’Ulisse dell’Inferno di Dante, entrambi protesi verso la sfida impossibile di una natura suprema. Nel testo Gassman intreccia le due storie, innestando altre fonti letterarie, nella costante ricerca di cogliere le “ragioni” di questo sovrumano anelito verso l’assoluto.

In Camper. Farsa edipica in due tempi e dieci rounds (1994) Gassman ritorna su un tema a lui caro, quello del difficile e ombroso rapporto tra padre e figlio, già portato in scena con Affabulazione di Pasolini alcuni anni prima. Nel suo testo rivisita il tema, reinterpretandolo secondo una versione autobiografica, in cui si serve non solo delle presenze fisiche ma anche di quelle immateriali (registrate e filmate) dei propri figli.

Il testo, tuttavia, più interessante non solo sotto un profilo drammaturgico, ma anche sotto quello biografico e concettuale è senz’altro Bugie sincere (1997), ennesima e personale rivisitazione del mito del grande attore inglese Edmund Kean. Gassman aveva già diretto e interpretato a teatro il testo di Dumas nella rilettura di Sartre (Kean, genio e sregolatezza nel 1955) e l’anno successivo ne aveva curato e interpretato la riduzione cinematografica, per poi riproporre di nuovo a teatro una sua personale versione con O Cesare o nessuno nel 1974.

Nel suo ultimo testo drammaturgico Gassman delinea la figura di Kean attraverso tutte le sue sfaccettature contraddittorie, dall’inimitabile talento istrionico alle irriducibili intemperanze caratteriali, “lavorando” soprattutto intorno alle riflessioni relative al ruolo dell’attore e all’arte del teatro che Kean e il critico Hazlitt si scambiano con incalzante provocazione. Nel testo, inoltre, Gassman inserisce la voce fuori campo di un narratore (che lui stesso interpreterà nella messinscena teatrale del 1997) nell’intento di rappresentare una doppia coscienza di Kean, che interviene di contrappunto in tante riflessioni e nei momenti salienti del dramma.

A conclusione di questa rapida rassegna di scritti letterari è difficile dire se Gassman si possa considerare più un narratore o un poeta o un drammaturgo. Indubbiamente è riuscito a scrivere in prosa come in versi, a “raccontarsi” in forma autobiografica come in forma drammaturgica, dimostrando non solo di avere un prezioso talento letterario ma anche una raffinata perizia della lingua. Per quanto, gran parte della sua scrittura non sarebbe potuta esistere se non fosse stata supportata dalla sua più grande e sovrastante esperienza di attore.