L’altra Istanbul. Reportage alternativo

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L’ALTRA ISTANBUL
Reportage alternativo in otto quadri

 

Durante il giorno ho sentito il brusio di Istanbul insieme agli altri dieci milioni di individui, anche nei momenti in cui ero più assorto e credevo di essere completamente solo: il clacson delle vetture, il rumore degli autobus, lo scoppiettio dei motori, il fracasso dei cantieri, le urla dei bambini, gli altoparlanti della macchine dei venditori e quelli dei minareti, i fischi delle navi, le sirene della polizia e delle ambulanze, cassette di musica ovunque, le porte che sbattono, le saracinesche abbassate, i trilli dei telefoni, i campanelli, le risse negli angoli per questioni di traffico, i fischietti dei poliziotti, gli scuolabus…
Orhan Pamuk, Altri colori

 

Facile dire bella. Si potrebbe decantare Istanbul per la triangolazione scenografica dei tre corni che dà vita a un intreccio di fascinose prospettive, per il richiamo di cupole e minareti che scandiscono in struggente contrappunto il profilo delle coste, per la maestosità dei palazzi dei sultani che affiorano come creature mitologiche dal filo dell’acqua, per la ricchezza di affreschi e di mosaici che tempestano nicchie segrete e solenni arcate, per il languore dei tramonti su mare e canali che sprigionano un intenso caleidoscopio di riflessi, per la contagiosa vitalità della gente che affolla piazze e mercati, cortili e moschee.

Eppure tutto questo è solo un’apparenza. O meglio è la sostanza che appare di più. In realtà la città è altrove, è fatta di altre cose, nasconde insoliti soggetti, che non sono corpi, luoghi, atmosfere, monumenti, ma dimensioni di esistenza, paradossi topografici, culti eccentrici, contrasti irriverenti, che fanno della città un immenso laboratorio antropologico in cui la vera meraviglia consiste in quello che accade piuttosto che in quello che rivela. Così si potrebbe ricostruire una città secondo tratteggi estemporanei anziché percorsi ragionati, secondo dettagli occulti anziché tesori conclamati, poiché la verità non è mai in ciò che si ammira, ma in ciò che ci sorprende.

 1) Confutazione della termodinamica

Si prenda un sistema complesso. Si liberino tutte le energie ivi contenute e si lasci che queste producano una graduale entropia. Si mantengano costanti altre funzioni di stato e si permetta che queste compensino un relativo equilibrio. Si alimenti il sistema nel tempo in modo che l’indice di entropia interagisca proporzionalmente al contrappeso delle altre variabili. Il risultato che si otterrà è la città di Istanbul.

Non è che questo accada solo laggiù. Si hanno egregi esempi anche sul suolo patrio, come Napoli o Palermo, ma se messe a confronto con Istanbul diventano città assimilabili a Berna o a Zurigo. Come se nella città turca si fosse realizzata l’eccellenza dell’esperimento suddetto, la sua espressione più pura, dove lo stato di caos si inscrive in un sistema di bilanciamenti che conducono a una perfetta stabilità. Un miracolo inedito, che non è dato in natura.

Nella concertata anarchia che avvolge piazze, strade, canali, rotte di Istanbul governa, se si accetta l’ossimoro, un arcano meccanismo che tiene tutti i pezzi tra loro senza farli collidere. Automobili che sfrecciano all’impazzata lungo arterie perimetrali o carreggiate assiali nel cuore della città, camion con rimorchi che fanno manovre circensi invertendo la rotta, superando in curva, piombando su ingorghi, autobus di linea che improvvisano percorsi, saltano fermate e fanno salire e scendere gente in mezzo agli incroci, taxi che contrattano i prezzi come mercanti d’asta e portano altrove da dove si vuole senza alla fine farsi pagare, pedoni apparentemente suicidi che attraversano triple corsie saltando cordoli, schivando vetture, provocando inchiodate, per poi uscire illesi quasi fossero invulnerabili a ogni tipo di impatto.

Non è che sull’acqua la circolazione osservi un maggiore costrutto, al contrario, l’assenza di percorsi carrabili apre un’infinita possibilità di rotte a un illimitato genere di natanti, con il risultato che l’intima armonia del caos marittimo si fa ancora più sorprendente. Feluche e paranze attraversano i canali zigzagando come anatroccoli tra le onde dei grossi cargo senza essere travolte da stazze trenta volte più grandi di loro, traghetti turistici con i loro festoni al vento si buttano in mezzo a pescherecci e rimorchiatori portando in salvo il loro allegro carico da una sponda all’altra della città, tra la Marmara e il Bosforo convergono corvette e dragamine, fregate e incrociatori che navigano impassibili in rotta di collisione finché all’ultimo istante, per un’imponderabile intesa telepatica, qualcuno scarta a dritta o a manca evitando d’un soffio lo scontro.

Dunque tout se tient direbbero i francesi, senza che per questo accadano impatti rovinosi, incidenti letali, deflagrazioni, affondamenti. Anzi tutto scorre secondo una rinnovata armonia che nella sua totale assenza di regole produce infinitesimi meccanismi compensatori che danno stabilità al sistema, mantenendone il ritmo e alimentandone l’energia, senza spingerlo mai sull’orlo del collasso.

Come in una composizione dodecafonica l’intera rete di relazioni circolatorie viene infine concertata da un complesso contrappunto di clacson che non suonano più per ragioni di pericolo o protesta (non essendoci più gli estremi per capire dove finisce l’uno e inizia l’altra o viceversa), ma solo per attestare il proprio esserci, con una serie di modulazioni acustiche che fanno decadere il senso dell’avvertimento ed elevano a espressione eccentrica la propria appartenenza al tutto.

 2) Sotto il tiro di sguardi incrociati

Si potrebbe dire, mutatis mutandis, che New York sta agli Stati Uniti come Istanbul sta alla Turchia, laddove la città non è lo specchio del Paese, bensì la sua esemplare eccezione. Non a caso entrambe sono affacciate su sponde ai margini del proprio Stato, l’una a Oriente della nazione occidentale per eccellenza, l’altra a Occidente alle porte dell’intero mondo orientale.

In dimensioni assai più ridotte anche la Turchia annovera distese sconfinate di boschi, altipiani, vallate, bacini, in mezzo ai quali spuntano fittissimi agglomerati di case arroccate una sull’altra, quasi a darsi manforte per non sprofondare negli spazi immensi che le circondano. Cosicché l’horror vacui è esorcizzato da roccaforti ad altissima densità abitativa che azzerano tutte le distanze urbane per concentrarsi in nuclei saturi di umanità, pur rimanendo isolate come monadi in un territorio che disperde ogni centro nella sua estensione indistinta. Finché, procedendo sempre verso l’occaso, non si arriva a Istanbul, dove va a estinguersi l’ampiezza della terra in un mare ancora più ampio, sul cui limite sorge un concentrato urbanistico che è l’ennesima potenza di paesi, villaggi, cittadine disseminate all’interno.

Ci deve essere una misteriosa ragione perché i turchi amano stare appiccicati l’uno all’altro. Non che manchino gli spazi, anzi quelli ce ne sono in abbondanza e sono anche valorizzati come parchi, tenute, riserve, eppure quando si tratta di insediarsi in nuclei urbani la densità degli abitanti raggiunge livelli parossistici. Tutti stanno dappertutto, vanno ovunque e riempiono ogni spazio. Non è dato trovare angoli remoti, strade solitarie, piazze deserte. Gli stessi luoghi aperti sono organizzati in modo da comprimervi più gente possibile, a cominciare da fitte panche di legno allineate in file parallele come negli spalti di un anfiteatro o nelle navate di una chiesa, dove tutti si siedono a piacere volgendosi di quinta, a tre quarti, di spalle, spesso assorti nei propri pensieri, pur trovandosi a pochissimi centimetri con perfetti sconosciuti, di cui sentono l’odore, avvertono il respiro, sfiorano la pelle, senza tuttavia scomporsi dalla propria meditazione come fossero tanti eremiti raccolti nell’infinito del mezzo metro di una panca.

Ma questa densità autistica è solo apparente. In realtà, a guardar bene, nell’aria si disegna una fittissima rete di sguardi incrociati. Chi siede guarda chi passeggia, chi passeggia guarda chi incontra, chi incontra guarda chi vende, chi vende guarda chi compra, chi compra si guarda ai lati dove vede gente che siede. Ma il circuito degli sguardi non è solo circolare, è anche intrecciato, con rinvii interni talvolta molto complessi, tanto che non si sa più chi osserva e chi è osservato, o meglio ognuno è l’uno e l’altro insieme all’interno di un puzzle in cui tutti guardano tutto, senza che nessuno rimanga isolato o sfugga al sistema di incroci.

Eppure in questo vedere senza essere visti e in questo esser visti senza vedere c’è qualcosa di profondamente naturale, non si avverte alcuna morbosità né forzatura, come se facesse parte di una tacita intesa inscritta in quel gran teatro del mondo in cui tutti sono interpreti inconsapevoli di tanti destini incrociati cui non ci si può sottrarre, perché legati da una sorta di gravitazione che tiene unite tutte le componenti, non solo autoctone, ma anche forestiere. Tanto che, in breve tempo, chi soggiorna a Istanbul viene fagocitato nella rete di sguardi e senza accorgersene si ritrova a essere un tassello inalienabile di quel complesso incastro di visioni.

 3) Tornelli a cielo aperto

Nel film Nuovo cinema paradiso di Giuseppe Tornatore, nel villaggio di Giancaldo c’era un matto che tutte le sere cacciava via tutti dalla piazza principale, gridando: “andate via, andate via, che devo chiudere la piazza!” La sua pazzia consisteva dunque nel fatto di voler chiudere un luogo aperto per eccellenza come l’agorà, arroccandosi in un territorio che per sua fisionomia è impossibile da asserragliare.

A Istanbul non ci sono pazzi che la sera vogliono chiudere le piazze, anche perché sarebbe un’impresa inverosimile svuotarle, ma c’è chi ha realizzato un paradosso non molto dissimile dalla pretesa del matto di Giancaldo.

Esiste un unico tram di superficie assai panoramico che partendo dalla città moderna percorre un tratto lungo il Bosforo, attraversa il ponte di Galata, si insinua nella città antica, svolta verso il Gran Bazar e prosegue verso occidente. Come tutte le linee su rotaia che occupano le carreggiate centrali della strada, a ogni fermata ci sono due banchine laterali, quando non addirittura una centrale che serve a entrambe le linee di andata e di ritorno, agli estremi delle quali sono stati collocati appositi tornelli che si attraversano infilando un gettone prepagato o premendo una chiavetta a credito, senza ottenere alcuna ricevuta del proprio passaggio, né un biglietto di corsa semplice, né una carta che attesti il pagamento. Una volta superato il tornello non vi è poi alcun tipo di controllo, né presso le fermate, né a bordo del tram, anche perché non si saprebbe cosa chiedere se non si è in possesso di alcun titolo di viaggio, per cui tutti si muovono senza prove addosso, pur essendo passati tassativamente attraverso le aste girevoli di accesso.

Ora, un sistema che impone uno dei controlli più coercitivi, come il passaggio obbligato attraverso il tornello, in aeree aperte per eccellenza, come le banchine dei tram lungo la strada, cui si può accedere semplicemente salendo o scendendo un gradino senza essere nemmeno sottoposti ad alcuna verifica, in città appunto come Napoli o Palermo sarebbe saltato per aria nel giro di poche ore, con tornelli scassati a ogni fermata, o nel migliore dei casi ridotti a oggetti decorativi con tanto di graffiti e vernici a impreziosire la loro totale inutilità.

Invece a Istanbul nessuno si sogna di aggirare il passaggio, lo attraversano tutti come la cosa più naturale del mondo, per giunta pagando ogni volta il prezzo di un’unica corsa perché non esistono biglietti a tempo, sconti cumulativi o abbonamenti periodici, ma solo una sorta di riduzione sulla corsa successiva se dopo aver preso un mezzo se ne infila subito un altro.

È come se sotto la luce del sole, e dunque sotto gli occhi di Dio, non si potesse concepire di violare alcunché, sebbene si impongano restrizioni del tutto aggirabili e niente affatto perseguibili. Perché in fondo si è anche sotto gli sguardi di tutti, quella rete tentacolare che regge appunto le fila dei vari rapporti e impone non solo un’etica di comportamento nel rispetto di chi osserva, ma tiene saldo anche l’intero sistema impedendogli di collassare, alla stessa stregua delle più avveniristiche teorie astronomiche che cercano di spiegare cosa tiene coeso l’universo caotico.

 4) Le isole di Escher

Istanbul è una delle più grandi culle della religione islamica, con tutto il suo dipanarsi di moschee ottomane, cimiteri monumentali, chiese bizantine, chiostri medievali, ma è anche uno dei più maestosi templi delle barriere architettoniche, con tutto il suo snodarsi di gradinate imponenti, dislivelli vertiginosi, accessi senza scivoli, pendenze ripidissime.

Ma aldilà della sua struttura architettonica, immaginata per un popolo di fedeli, viandanti e navigatori, avvezzi a spostarsi sempre a piedi, a saltare al volo su battelli instabili e a pregare sdraiandosi e alzandosi un’infinità di volte, la città sembra un’immensa opera d’arte materica che esibisce un sapiente disegno di asfalti crepati, marciapiedi sconnessi, scalini distrutti, lastroni dissestati, quasi a voler comporre una sorta di gincana lungo cui ognuno è costretto a indovinare il proprio itinerario.

L’eventualità che possano esistere persone con difficoltà motorie, bisognose di accessi facilitati, rampe attrezzate, percorsi rotabili, non è punto contemplata; chi è invalido è affar suo, resti a casa e si intrattenga in altro modo. Di fatto in giro, in tutto il caravanserraglio che si può incontrare, tante corti dei miracoli non se ne vedono, né storpi, né mutilati, né tanto meno gente con bastoni o stampelle, per non dire di carrozzati che sarebbe come trovare dei sommozzatori in montagna o degli alpini al mare.

Eppure nel proprio piccolo, se si guarda bene, anche a Istanbul si sono sforzati di fare qualcosa, sempre però secondo l’infallibile principio random che governa tutta la città. Cosicché è possibile trovare minuscole isole pedonali che si ergono in mezzo a incroci trafficatissimi, con uno scivolo da un lato per far salire carrozzelle, passeggini, biciclette, ma poi una volta montati sull’angusto triangolo di cemento si rimane là, imprigionati in un’area di pochi metri quadri perché manca un altro scivolo per scendere dall’altro lato.

Ci sono casi, tuttavia, in cui lo sforzo è stato maggiore, tanto che su altre isole pedonali, che spuntano sempre come funghi sparuti in mezzo a snodi di traffico che sarebbe già inconcepibile attraversare a piedi o peggio ancora su veicoli a rotelle, si può trovare anche più di uno scivolo, a piacere orientato, la cui pendenza però è così ripida da risultare impraticabile, oppure è smottata in più punti da diventare una trappola mortale per qualsiasi temerario che vi si avventuri.

Dunque isole prigione, isole trappola, isole barriera, in un mare di cemento perennemente in tempesta, che sarebbero state degne delle migliori geometrie impossibili di Escher, dove nell’apparente equilibrio di forme e proporzioni tutto è incongruo perché vengono violati i più comuni principi di gravitazione e relatività, dando vita a irresistibili paradossi strutturali che nella città turca appaiono assorbiti nella naturalezza dell’arredo urbano, quasi a impreziosire incroci anonimi e ordinarie congestioni.

 5) Fiori nei fucili

Asserire che l’intera città di Istanbul sia governata dal caos, ancorché armonioso e bilanciato, è tuttavia un falso clamoroso. Forse sempre in virtù della teoria delle compensazioni, quello che accade lungo i percorsi stradali e le rotte marittime si ribalta radicalmente all’interno dei verdi polmoni che aprono oasi di beatitudine nel tessuto urbano.

Che siano parchi, o giardini, o ville, o prati appaiono tutti tempestati da aiuole elegantissime, cespugli raffinati, siepi ornamentali, vialetti impeccabili, in cui ogni tratto è curato secondo principi di maniacale simmetria e ordine ossessivo che tendono a raggiungere una perfezione estetizzante alla quale è impossibile sottrarsi.

Infatti, per una sorta di incantesimo, quando si entra in queste oasi di verde l’intero sistema si capovolge. La densità di persone è molto più diradata, la gente si muove con meditativa lentezza o sosta seduta in assorta contemplazione, le voci sono modulate su toni sommessi, gli sguardi distolti da fissazioni insistenti. Tutta la rete di intercettazioni a distanza decade come d’incanto, lasciando spazio a immensi vuoti d’aria riempiti solo dalle lunghe ombre degli alberi e da voli intrecciati d’uccelli che disegnano in cielo orientali arabeschi.

Nemmeno il più piccolo spazio dotato di un praticello o di qualche fioriera viene risparmiato da interventi botanici curati nei minimi dettagli, dalla gradazione cromatica dei fiori, alla disposizione scenografica delle aiuole, alla proporzione sinuosa dei vialetti, ogni cosa è concertata all’insegna dell’armonia e della bellezza, senza imperfezioni né sbavature, come se in quei luoghi si volesse ricorrere a un riscatto, una sorta di indennizzo dal delirio urbano, aprendo squarci di delizia nel cuore del subbuglio.

Ma la smania di mettere a posto ogni angolo di verde invade anche gli spazi dell’università, le aree delle moschee, i cortili dei palazzi, tutti i luoghi monumentali non solo gremiti da folle di turisti ma anche occupati da forze dell’ordine destinate a sventare attacchi terroristici. Militari in assetto di guerra sono così diffusi in tali posti da diventare parte dell’arredo museale, tanto che i turisti si avvicinano ai piantoni armati per farsi fotografare insieme a loro come se questi fossero alberi frondosi o slanciati rampicanti, inscritti nella splendida cornice floreale.

Nessuno però pare accorgersi dello sgradevole stridore tra il metallo dei proiettili e il velluto delle foglie, quasi facessero parte della stessa natura, e nessuno si sogna di violare quelle amene aiuole, strappandone i fiori per infilarli nei fucili.

 6) Straziante assalto della fede

Istanbul non è solo una città che mostra, è soprattutto una città che parla. Al concerto dodecafonico dei clacson e alle voci concitate della gente si sommano i richiami dei pescatori che vendono sgombri alla griglia sui moli, le offerte dei mercanti che allungano stoffe e porcellane dai banchi, le urla dei marinai che decantano crociere favolose sul Bosforo, gli assalti dei ristoratori che placcano i turisti con i loro menù, in un estenuante frastuono vocale che nella sua intima concertazione finisce col diventare una vivace musica di sottofondo.

Eppure esiste una colonna sonora che si insinua melodiosa tra i molteplici rumori, cui è impossibile assuefarsi. Cinque volte al giorno, con esattezza matematica, ovunque ci si trovi, qualsiasi cosa si faccia, si viene investiti dallo straziante richiamo alla preghiera da parte del muezzin. Straziante non è il richiamo in sé, ma il modo in cui pervade ogni cosa, propagandosi come una morbida marea che inonda tutta la città senza risparmiare neanche una creatura, quasi che l’appello ad adorare Allah emergesse dalle viscere della terra o piombasse dai vertici del cielo.

Impossibile rimanere imperturbati da quest’esortazione amplificata che riecheggia da un minareto all’altro attraverso una rete di rimandi interni che travalica piazze e palazzi, acque e parchi, riversandosi negli animi e inondando le coscienze. Così si vedono correre i fedeli verso i luoghi sacri per soddisfare i loro slanci adorativi, scappare i turisti dalle moschee per sgomberare il campo alla preghiera, riempire in pochi attimi tutti gli spazi deputati al salmodiare dei versetti, sbarrare cancelli e portoni per impedire l’accesso agli avventori, piombare l’intera città in un astratto silenzio creato dalla fine del richiamo.

Ammassati gli uomini al centro della moschea, confinate le donne ai lati o dietro le grate, i templi islamici si fanno rifugio dei credenti in momenti canonici via via rinnovati. Ma chi non prega non rimane lì a intralciare, o si allontana lesto od occultato osserva, comunque non resta indifferente alla periodica mobilitazione collettiva che coinvolge tutta la città. Non ci sono concerti di campane che reggano il confronto, non messe all’aperto tanto corali, né processioni liturgiche così trascinanti, nulla si avvicina all’ipnosi del canto del muezzin, più ammaliante del flauto magico, più seduttivo delle epiche sirene.

Quando poi cala la notte, con le luci languide dei monumenti che si rifrangono nell’acqua come tante lame dorate, l’attacco del richiamo è ancora più struggente, prende nelle viscere, scuote nel profondo e muove anche l’animo più scettico alla contemplazione del supremo.

 7) I gatti di Allah

Corollario indiscusso di tutte le città movimentate da mercati rionali, piazze affollate, pontili caotici, angoli torbidi è il randagismo. A Istanbul non trovi un cane nemmeno se muori. Animale immondo per eccellenza, sottoposto a ostracismo perché diabolico, bandito dalla comunità come essere impuro, il più fedele amico dell’uomo viene condannato dallo stesso Maometto che ne invoca la morte per sconfiggere il male.

Nessun cane dunque per le strade di Istanbul, né all’interno di abitazioni private, per scongiurare perniciosi contagi. Ma questa sorte è squisitamente canina, non condivisibile con altri animali domestici. Tutt’altro destino è riservato al gatto, creatura preziosa, di rara purezza, accolto nelle case e accudito per le strade, libero di muoversi ovunque e amato come un essere umano, quando non addirittura investito di un’aura divina.

Che siano umani oppure divini quello che però cambia nei gatti di Istanbul è la loro natura felina. Sono più longilinei dei loro simili, hanno zampe più lunghe e un corpo più magro, scattano veloci come gazzelle, rimangono all’erta a mo’ di segugi. Sono padroni del territorio che occupano, si lasciano avvicinare senza fuggire, prediligono i cimiteri delle moschee, si fanno le tane in mezzo alle tombe. Nutriti da tutti non implorano cibo, sono sazi persino di coccole.

Ma la loro vera celebrazione non riposa nella realtà di tutti i giorni, bensì in un’eccentrica produzione artigianale. Gatti di porcellana, di legno, di vetro, gatti miniaturizzati o totemici, gatti strumentali o decorativi, gatti in tutte le salse e di tutti i colori, surrogati di gatti veri da portare come amuleti, gatti consolatori, gatti scaramantici, gatti feticcio, un’apoteosi di gattità esplode da tutte le parti quasi fosse una dimensione dell’esistenza.

Se i cani dunque vengono cacciati dalle moschee dove prima andavano e venivano a loro piacere, i gatti sono parte integrante di pietre tombali e stele marmoree che circondano i minareti; se gli oggetti toccati dai cani devono essere lavati sette volte perché siano liberati dalle loro impurità, tutto ciò che viene toccato dai gatti non subisce contagi e mantiene inalterata la sua integrità; laddove il cane viene bandito, il gatto è accolto con devozione, laddove al primo è interdetta ogni cosa, al secondo è concesso di tutto.

Così può accadere che a notte fonda, tra i vicoli della città vecchia dove risplendono le vetrine sempre accese dei negozi di tappeti pregiati, cuccioli di felini residenti in tali esercizi si accomodino sopra disegni finissimi ricamati a mano con tessiture preziose, e ivi, su tappeti stimati migliaia e migliaia di euro, affondino i loro teneri artigli per affilarsi le unghie.

 8) Con buona pace di Eraclito

Lo chiamano il tram della nostalgia e percorre lungo un solo binario in su e in giù la “via della Indipendenza” che dalla piazza principale della città nuova scende verso il corno d’oro fin quasi a raggiungere la torre di Galata. Interamente pedonale la via è ancora più affollata di tutte le arterie che vi affluiscono, per cui ogni volta che sopraggiunge il nostalgico tram sulla sua monorotaia centrale, suonando all’impazzata per sgombrare il suo rigoroso percorso da fastidiosi intralci di folla, si vedono schizzare qua e là capannelli di sventurati, costretti a sottrarsi all’ultimo istante all’orgoglioso convoglio che non altera nemmeno d’un soffio il suo caparbio andamento.

Sgomitando così lungo la via per aprirsi un varco dentro un eccentrico precipitato di umanità, pronti a saltare da un lato o dall’altro per lasciare il passo all’ineluttabile tram, ci si immerge in un caos di elementi che sintetizzano in poche centinaia di metri il contrasto tra avverse culture, il dissidio tra estreme vedute, la collisione di opposti sistemi incapaci di trovare una propria unità.

Come in una sequenza di un film senza soluzione di continuità, o per meglio dire come in un piano-sequenza, scorrono sotto gli occhi di tutti insegne psichedeliche di jeanserie ridondanti di chiasso, uffici di cambio con sportelli presi d’assalto, chioschi di panini imbustati e gelati compressi, sofisticate vetrine con abiti all’ultima moda, società multinazionali a più piani dalle pareti a specchio, Mc Donald’s e fast food con cibi assortiti take-away, ingressi rutilanti di magazzini dai tunnel labirintici, bottegucce di artigianato locale e articoli fai-da-te, nel mentre che camminando si incontrano donne velate con solo una fessura per gli occhi, oppure con un triangolo di apertura tra gli occhi e il naso, oppure con un rombo tra gli occhi e la bocca, oppure con un ovale tra la fronte e il mento, o ancora soltanto con il capo coperto, che incrociano a loro volta turiste in calzoncini e maglietta con capelli al vento e collane vistose, mescolate a uomini d’affari con la ventiquattrore e a giovani studenti con le cuffiette, mentre ai lati della strada si sentono gruppi etnici suonare strumenti dal vivo, canti cristiani amplificati dalle chiese vicine, richiami di saltimbanchi con i loro numeri da circo.

Insomma un’immensa congerie di stridori tra un occidentalismo selvaggio e un islamismo tetragono, tra rinnovate tendenze e letargiche tradizioni, tra convivenza interetnica e discriminazione sessista, tra solidarietà umana e coercizione sociale, che alla fine avrebbero mandato al manicomio persino il povero Eraclito.

Per questo chi visita Istanbul attraverso pacchetti combinati di due o tre giorni che contemplano formule come Topkapi – Santa Sofya – Moschea Blu – Gran Bazar, oppure Taksim – Istiklal – Galata – Corno d’oro, o ancora crociera sul Bosforo – mar di Marmara – isole dei Principi, più che un torto alla città fa un torto a se stesso, sorvolando un luogo che dice molto di più di ciò che mostra e che si comprende assai meglio dalla vertiginosa terrazza di Pierre Loti, o nell’immensa piazza della moschea di Eyüp, o sotto la minuscola cappella di San Salvatore, o dentro le stanze dell’Istanbul Modern.

Ma sopra ogni cosa la stupefacente interazione di clacson, sguardi, tornelli, scivoli, scalini, prati, fucili, preghiere, gatti, contrasti finisce col rivelare molte più verità di quanto non riescano a fare tutti i tesori contenuti nell’immenso patrimonio artistico della città.

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