Chant d’amour à deux voix

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CHANT D’AMOUR À DEUX VOIX

Ogni cosa, finché dura, porta con sé la pena della sua forma,
la pena d’esser così e non poter essere altrimenti.
Luigi Pirandello

      Dieci

     Sì, ora comprendo. “Cambiare idea” significa tornare ad amarti, solo in quel caso mi risponderai. Mi rendo conto, senza l’amore non resta nient’altro, credo sia profondamente ingiusto, ma forse non può essere che così. Ma non voglio dirti addio, non ne sono capace, tanto meno augurarti buon viaggio come hai fatto tu, mi dà troppo l’idea di una dipartita. Tra un mare di lacrime ti dico ciao, amore, ciao, non so se riuscirò mai a stare senza di te, non sai quante volte ho pensato di tornare da te.

     Leggevo e rileggevo senza posa quelle parole che mi laceravano le carni acuminate come stiletti, aprendomi ferite impossibili da tamponare con nessun unguento, sanguinavo stille di dolore puro, refrattarie a ogni palliativo, non c’era possibilità di riscatto né di rivincita in quel finale di partita, secco e risoluto come un’esecuzione, chiosato ancor più da un saluto estremo, disperato, che quasi implorava aiuto pur non concedendo possibilità di accettarlo, una sorta di contro appello, nella cui invocazione era contenuta un’intima diffida.

     Ma ciò che mi turbava di più era che quelle parole le avevo scritte io, era mio quell’addio che non era un addio, ero io che non cambiavo “idea” e dunque non tornavo ad amare, allora perché soffrire come se fossi stata lasciata, lo avevo fatto io senza possibilità di rimedio, seppure in continuazione avessi rilanciato la posta, senza mai chiudere, come se non fossi stata capace di alzarmi da quel tavolo su cui non lasciavo solo le carte vincenti, ma anche le mosse fallite, i passaggi sospesi, le occasioni mancate, una vera disfatta che mi dava solo tormento.

     Eppure sapevo che non avrei potuto fare altrimenti, quello era l’ultimo atto di una storia che ormai mi aveva sopraffatta, qualsiasi cosa facessi potevo solo sbagliare, se perseveravo soffrivo, ma se troncavo soffrivo ancora di più, come una droga che sai che fa male, ma se la interrompi stai peggio. Non c’erano molte alternative se non continuare a tirare la corda oltre ogni limite, finché alla fine quella non si sarebbe spezzata. Così quello che dovevo fare io l’avevo subito, e per quanto fossi quella che non amava più soffrivo come se non fossi più amata.

     Eppure Roland mi amava moltissimo, ma non era tanto l’intensità del suo amore a essere sorprendente, quanto la sua qualità. Era un amore allo stato puro, come un distillato di elevata raffinatezza, spurgato da ogni scoria, refrattario a ogni contagio, assoluto come una copula, intollerante a qualsiasi predicazione, dato in natura nella sua essenza più semplice e insieme esclusiva, non c’erano condizioni che potessero limitarlo né variabili che potessero alterarlo, si offriva per quello che era mostrandosi in tutta la sua evidenza.

     Per una come me era difficile immaginare che si potesse nutrire un sentimento del genere. Avevo passato la vita ad amare uomini che in me vedevano solo una donna da concupire e da possedere per le proprie voglie o necessità, chi aveva avuto bisogno di un’amante per sottrarsi alla routine coniugale, chi di un’amica per provare qualche emozione priva di impegno, chi addirittura se ne era approfittato senza corrispondere alcun sentimento. Cosicché a volte mi ero divertita al pensiero che oltre agli uomini sposati in cerca di evasione che non intendevano liberarsi, agli uomini liberi in caccia di novità che non volevano legarsi e agli uomini indifferenti che ci stavano solo per svogliatezza o indecisione, restavano sempre i vedovi, trovatisi soli loro malgrado, desiderosi magari di una nuova compagnia, seppure col fantasma della moglie che avrebbe aleggiato nell’aria… ma mi ero consolata dicendo che con la morte purtroppo la vita mi aveva messo in confidenza e alla fine per me sarebbe stato più facile gestire una moglie morta, piuttosto che una viva o nessuna di esse.

     Tuttavia Roland mi aveva spiazzato, non mi voleva né come amante, né come amica, ma solo come donna da amare, senza limiti né riserve, con tutto il trasporto possibile, a dispetto di problemi e difficoltà, non importava chi fossimo o come vivessimo, esistevamo solo noi due, come se il mondo fosse stato creato apposta per ospitare il nostro amore, il resto non aveva alcun senso e non c’era nulla che potesse alterare quella realtà.

     Ma mi era difficile condividere una visione così apodittica e perentoria, in realtà avrei voluto averla anch’io, ma ero troppo afflitta dal senso della caducità delle cose, dai dubbi sulla qualità delle persone e dalle paure sulla natura dell’amore. Eppure ci avevo provato, in fede mia ci avevo anche creduto, davvero ce l’avevo messa tutta, ma era come salire su un ring da peso piuma per battersi con un peso massimo, o come mettersi ai blocchi dei 100 metri da maratoneta per sfidare un velocista, avevamo pesi e passi diversi, non c’era gara con lui, non solo mi teneva testa su tutto ma teneva anche botta, era un ottimo incassatore, e tutte le mie performance più paranoiche non l’avevano spostato d’un soffio.

     Solo alla fine aveva gettato la spugna, quando ormai sapeva che non sarei più tornata indietro, seppure ci avesse sempre sperato, fino all’ultimo, oltre ogni limite di resistenza. Ma purtroppo la mia incapacità era stata più spossante della sua pervicacia, e ora mi ritrovavo a piangere non per le parole che mi aveva scritto lui, ma per quelle che gli avevo scritto io, quasi una nemesi fosse giunta a infliggere la sua ineluttabile compensazione.

      Nove

     Continuavo ad andare su e giù lungo la panoramica che avevo fatto migliaia di volte, ormai la conoscevo a memoria e l’avrei potuta fare anche bendato, malgrado alcuni tratti fossero molto stretti e i tornanti pericolosi, era talmente bella che ogni volta mi turbava, non mi ero mai abituato, nemmeno quando dovevo correre per impegni di lavoro o per far visita ai figli, rimanevo sempre folgorato da quegli scorci che si aprivano di colpo girando intorno agli speroni di roccia, stupendi vuoti d’aria che sovrastavano paesini scoscesi, spiagge diafane, scogliere purpuree su cui si riflettevano le vivide tinte del crepuscolo quando la palla di fuoco sprofondava nel mare, uno spettacolo che spezzava il fiato e spesso mi imponeva di inchiodare, se non altro per appagare lo sguardo e non finire in uno strapiombo.

     Ma ora non vedevo più nulla, anzi a stento scorgevo la strada, gli occhi erano perennemente inondati di lacrime e solo gli occhiali neri mascheravano in parte la mia commozione, continuavo a guidare come un automa, senza una meta, tanto per non pensare, invece era peggio, non facevo che vagare con la mente laddove non dovevo finire, sempre là, a non capire, perché mi ritrovavo così, dove avevo sbagliato, cosa mi era sfuggito, non riuscivo a darmi pace e ad aggravare le cose c’erano anche quelle strazianti canzoni d’amore che mi ostinavo ad ascoltare, Aznavour, Brassens, Moustaki, Barriere… Le loro malinconiche melodie mi struggevano ancora di più, fino al punto che mi dovevo fermare non perché sopraffatto dalla vastità che mi circondava ma perché oppresso dalla morsa che mi stritolava le viscere.

    Una volta capitò che feci tutta d’un fiato la costa da Menton a Nizza, per poi proseguire verso Antibes e Cannes, nell’intento di arrivare a Toulon nel minor tempo possibile, quasi la corsa a capofitto per la litoranea potesse vanificare tutti i pensieri che mi ossessionavano, ma fui fermato da una volante a Saint-Raphaël, un poliziotto mi intimò di togliermi gli occhiali neri per accertarsi della mia identità e dopo avermi inflitto una durissima sanzione mi consigliò di curarmi al più presto quella brutta congiuntivite, non era il caso di andarci in giro per quelle strade. Ma come spiegargli che la mia affezione era una donna che non mi amava più? E per la quale non c’era nemmeno una cura? Anzi semmai solo un modo di starci ancora più male?

     Perché i messaggi erano continui. Mi manchi. Ti desidero. Non faccio che pensarti. Mi sei rimasto dentro. Non posso far a meno di te. Ti porto ovunque vado. Non voglio perderti. Sei unico al mondo. Ma allora perché diavolo mi aveva lasciato? Sembrava che l’avessi scaricata io, mentre era lei che non ne aveva più voluto sapere. Per giunta così, di punto in bianco. Andava tutto bene, poi di colpo aveva detto basta. Ormai erano più di due mesi che non ci vedevamo più. L’ultima volta era stata alla fine dell’anno, ora era ormai marzo inoltrato. Due mesi di telefonate, conversazioni via Skype, corrispondenze epistolari, messaggi sul cellulare, tutti i canali possibili di comunicazione a distanza, sentendo solo la voce, al più osservando il volto, oppure inondandosi di parole per spiegare, chiarire, analizzare tutti i dettagli, i risvolti, le sfumature, un compendio infinito di chiose, commi, postille a una storia che non si capiva come fosse andata a finire.

    Aurora non aveva fatto altro che trovare ostacoli al nostro amore. Prima diceva che tra noi c’erano troppe incompatibilità. Senza le affinità elettive ogni alchimia era impossibile. Poi l’aveva messa sul piano degli stili di vita e delle visioni del mondo. Non era solo un fatto di caratteri o di personalità. Aspettative e proiezioni non collimavano. Infine aveva tirato fuori l’impossibilità di un rapporto di coppia, a causa dei miei vincoli familiari non avremmo mai potuto vivere insieme. Ma solo dopo che si era profilata la possibilità di liberarmi del tutto per stare con lei aveva ammesso di non amarmi più. Allora legittimamente mi ero chiesto se mi avesse mai amato. Per arrivare alla conclusione che lei non si era innamorata di me, ma del mio amore, non era posseduta dalla passione come lo ero io, ma si era fatta travolgere, non soffriva tanto la mia mancanza quanto la sua solitudine, non superava i problemi grazie alla passione ma ne trovava sempre di più.

     Eppure non c’era stato verso di farglielo ammettere. Aveva sempre negato ogni cosa, affermando con tutta se stessa l’intensità del suo amore. Finché poi non aveva più retto. Ma allora perché non troncare una volta per tutte? Perché quegli strascichi estenuanti che prolungavano solo un’atroce agonia? In realtà lei non ce la faceva a staccare la spina e mi aveva spinto a farlo io. Era stato come essere obbligati da vittime a diventare boia.

     Otto

    Ormai mi era sempre più doloroso andare in giro per la città. Come uscivo mi assalivano brividi, languori, ricordi dei momenti trascorsi insieme, visitando mostre, ascoltando concerti, passeggiando per il centro, rapiti dalle bellezze artistiche quanto dai nostri cuori, mescolavamo baci a fascinazione, abbracci a stupore, quasi fossimo un unico corpo esposto alle travolgenti emozioni che l’arte poteva offrirci.

     D’altra parte io ne avevo fatto una dimensione dell’esistenza ed era inevitabile che trascinassi Roland nel vortice delle mie passioni estetiche. L’arte era la mia ragione di vita, disegnavo, dipingevo, spesso scolpivo, lavoravo con le tempere come col carboncino, modellavo il gesso come la creta, mi piaceva avere un rapporto fisico con le varie sostanze, lui diceva che il mio atelier sembrava un campo di battaglia in cui si erano affrontate più artiglierie, in realtà quella sala dov’erano assiepati cavalletti, tele, calchi, busti era anche la mia dimora, un bilocale in affitto affacciato sull’Arno con vista su Ponte Vecchio, non un lusso avventato ma un colpo di fortuna, che nobilitava il mio essere un’artista spiantata, con tante idee e poche risorse, sempre in cerca di lavoro in un mondo in cui il bello contava quanto l’inutile.

     Perché la verità era che a quasi cinquant’anni mi ritrovavo sola, senza genitori persi troppo presto e senza figli non avuti neanche tardi, col mio solo mestiere messo su in anni di studio e di fatica, che pure rendeva poco e costava tanto, sempre povera in canna e per giunta malata, di un’antica epilessia che dopo episodi più floridi nell’adolescenza mi aveva lasciato strascichi proditori, che mi provocavano repentini sussulti con improvvisi cedimenti dei muscoli e relative cadute rovinose, con cui avevo imparato a convivere adattandomi come potevo ai vari scompensi. Insomma un bel quadro critico che si poteva far saltare con una semplice schicchera, figuriamoci con un panzer com’era Roland. D’altra parte lo diceva sempre lui stesso, l’unico modo per abbatterlo era quello di usare un fucile a canne mozze.

     Eppure, malgrado una serie di reazioni variamente nevrotiche, avevo retto ai suoi assalti, assorbito le sue incursioni, accolto i suoi affondi, anche con visite a sorpresa che mandavano all’aria in un soffio il mio precario equilibrio, era una forza della natura e sapevo di non potergli resistere, l’unica cosa era ridurre al minimo i danni per godersi il massimo del piacere.

     Ma per tutto il tempo non ero mai riuscita a vivere la storia come veniva, nell’unico modo in cui era possibile viverla, senza pensare al passato e tanto meno al futuro, prendendola per quello che era giorno per giorno, accettando tutto quello che offriva senza pretendere altro e nemmeno di più. Certo, sarebbe stato fantastico, ma io sarei dovuta essere un’altra persona.

      Mi era toccato troppo a lungo fare l’amante, per giunta di uomini mai innamorati, per accettare di farlo ancora una volta con un uomo che seppure mi amasse davvero non era libero di farlo, almeno come lo desideravo io. Sentimentalmente non era legato a nessuno ma affettivamente lo era non a una, ma a due famiglie, distanti l’una dall’altra e ignota la seconda alla prima, portate avanti in un perfetto regime di bigamia. Poco male se si fosse trattato di onorare solo i doveri di padre nei confronti dei figli, ma per causa di quelli era rimasto al cappio di entrambe le madri, una troppo fragile e l’altra troppo risoluta per permettergli entrambe di rifarsi una vita.

     Così per mesi avevo accolto nel mio atelier un uomo dal cuore immenso e dalla vita satura, tanto prodigo nel concupire quanto indolente nel liberarsi, che mi si offriva con tutto se stesso chiedendomi di prenderlo per quello che era, in virtù di un amore che trascendeva tutti i problemi. E invece per me li alimentava, proprio perché mi offriva ciò che più mi mancava e allo stesso tempo mi negava ciò di cui avevo bisogno, in un perfetto contrasto tra libido e distacco, passione e abbandono che invece di lenire gli abissi della mia solitudine li acuiva ancora di più.

     E a nulla potevano servire aneliti o intenti, neanche quando sembrava che avesse deciso di farla finita con tutto, troppo grande era la distanza tra il desiderio e l’azione, e poi a lui piaceva amarmi così, non chiedeva di più, piuttosto mi rimproverava che fossi io a non amarlo abbastanza, perché se fossi stata davvero innamorata non mi sarebbe importato chi fosse, sposato o no, libero o meno, che cosa contava? Chi amava davvero non si curava se l’amato fosse un bandito, un traditore, un malato di cancro, era solo accecato dal fuoco della passione che rendeva ogni cosa insignificante.

     Ma a me sembrava una visione troppo romantica dell’amore, se non addirittura infantile, quello che sapevo è che negli ultimi tempi il dolore surclassava la gioia, la sofferenza il godimento, per qualche ora di piacere piangevo per giorni, per qualche momento di passione mi disperavo senza trovare pace. Per questo la volta che Roland tornò a trovarmi a fine dicembre, dopo uno dei migliori soggiorni trascorsi in una splendida Firenze post-natalizia, tra mostre d’arte, concerti sinfonici, spettacoli dal vivo, film sperimentali quando alla fine ci fu di nuovo lo straziante distacco che mi faceva rivivere quelle perdite antiche legate ai lutti prematuri dei miei genitori, seppi nel profondo del cuore che quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto.

     Sette

    Mia madre mi diceva sempre che ero stato il figlio dell’amore. Nato dalla travolgente passione di due persone poverissime, un’inserviente e un pasticcere, che poi avevano messo al mondo altri figli per consuetudine, sebbene fossero stati più coccolati di me, che a stento ricordavo qualche vaga carezza di mia madre, mentre di mio padre non avrei potuto giurare che mi avesse dato neanche un bacio. Così ero cresciuto per strada, insieme ad altri sbandati, a inventarmi una vita di espedienti e furberie, sfidando gli altri in gare di prodezza senza risparmiarmi violenze ed aggressioni.

     Ma al contrario dei miei fratelli avevo talento e i miei genitori si sacrificarono per farmi studiare, fui l’unico della famiglia a laurearmi e a trovare un lavoro di prestigio, divenni un esperto in apparecchiature sanitarie ed ebbi l’incarico di rappresentarle presso le strutture ospedaliere della Provenza e della Linguadoca, arrivai anche a tenere corsi di aggiornamento sulle innovazioni tecnologiche e mi appassionai alle sperimentazioni dei più sofisticati macchinari.

   Nel frattempo mi innamorai di una giovane maestra di Toulon, la sposai ed ebbi due figli. Uno ormai aveva quasi trent’anni, viveva a Marsiglia con la fidanzata ed era diventato un biologo marino. L’altra invece aveva superato da poco i vent’anni ma era come se non ne avesse neanche dieci, era nata con un’impietosa forma di autismo che non l’aveva mai messa in relazione col mondo, viveva in una realtà tutta sua cui a nessuno era permesso l’accesso.

     Io e la madre avevamo fatto tutto il possibile per riscattarla dalla sua alienazione, col risultato però di alienarci tra noi, lasciando estinguere ogni traccia di intimità. Fu così che andai a cercare altrove quelle emozioni ormai sopite da tempo, inanellando una serie di storie più o meno insignificanti, finché non mi innamorai di una collega che viveva a Nizza, al punto da andarci a vivere insieme e mettere al mondo un piccolo torello, tutto arguzia e vivacità.

     Ma non ebbi mai il cuore di abbandonare mia moglie, né tanto meno il coraggio di dirle nulla, tutti i weekend tornavo da lei facendole credere che ero sempre fuori per lavoro, con una figlia in quello stato non avrei mai potuto lasciarla sola, e poi era così fragile che non avrebbe mai retto una separazione. Ma mi costò caro, perché quando il mio terzo figlio compì tre anni la madre mi mise alla porta visto che in tutto quel tempo non ero riuscito a chiarire le cose con l’altra famiglia.

     Fu in quel frangente che superata la soglia dei sessant’anni conobbi Aurora e in un solo istante me ne innamorai come non mi era mai accaduto prima di allora. Era tutto quello che avevo desiderato e che mi era sempre mancato, un miscuglio diabolico tra fascino, ingegno, instabilità e spregiudicatezza, non mi era mai capitato di conoscere una persona così, tanto solare quanto incosciente, tanto vulcanica quanto vulnerabile, mi buttai a capofitto nella storia senza pensare a nulla, per me esistevamo solo noi due, il resto non contava alcunché, ma mi sbagliavo perché lei era diversa da me, o forse non era persa quanto me.

     Mi parlava sempre di rapporto di coppia, di possibilità di vivere insieme, quando ancora non c’eravamo frequentati, criticava le mie scelte di vita, la mia indolenza a scoprire le carte, quando ancora dovevamo conoscerci, mi voleva libero a prescindere, senza limiti o problemi, come se avesse già dato abbastanza e non volesse più saperne di legarsi a chi lo era già.

     Finché a un certo punto scoprii con rabbia e con dolore che mia moglie non solo mi tradiva da tempo con più persone, ma che tra queste c’erano cari amici per raggiungere i quali mi aveva usato, intrecciando tresche attraverso di me e deridendomi davanti a tutti. Era quanto bastava per darmi la forza a fare quel passo che fino allora non avevo mai osato fare, avrei chiesto una separazione consensuale, mi sarei occupato di come gestire la figlia autistica, avrei sistemato le cose anche con l’altra famiglia di Nizza, dalla quale per altro ero stato espulso, infine sarei corso dalla mia Aurora per incominciare una nuova vita insieme a lei.

     Ma le storie non vanno mai come le raccontano le favole, mia moglie aveva minacciato il suicidio, mio figlio grande aveva deciso di tirarsene fuori, mia figlia malata aveva iniziato a dare in escandescenze, mentre l’altro figlio piccolo menava i suoi compagni all’asilo perché la madre era sempre al lavoro e il padre non lo vedeva mai, infine Aurora mi aveva rivelato che ormai non provava più amore per me. Era disposta a starmi vicino e a offrirmi tutto il suo aiuto da amica, ma non se la sentiva di essere travolta in questi casini cui era del tutto estranea. Solo allora capii quanto l’aver vissuto sempre da sola l’avevano resa incapace di amare senza riserve.

     Sei

    Sapevo che un viaggio sarebbe stato solo una fuga dalla realtà ma non c’erano alternative, la mia casa a Firenze era troppo stretta per contenere due esistenze ingombranti come le nostre, avevo una branda nella camera da letto e un divano nell’atelier, dormivamo separati in mezzo al caos della mia attrezzatura, d’altro canto Roland non mi poteva ospitare dove viveva, seppure mi avesse proposto più volte di andarlo a trovare presso un albergo o una stanza in affitto, ma per quanto amassi la Costa Azzurra non volevo vederlo in un luogo impersonale nella veste di clandestina, tanto valeva andare da qualche parte estranea alle nostre vite, distante da impegni e problemi, dove ci saremmo potuti amare senza nasconderci a nessuno, proprio perché ignoti a tutti, finalmente liberi di illuderci di essere davvero una coppia, seppure nel tempo che ci saremmo concessi.

     Era appena iniziato dicembre e le prime correnti gelide avevano già avvolto di brividi il Mare Nostrum, non volevamo spingerci molto lontano né andare a irrigidire il nostro amore in latitudini nordiche, avevamo piuttosto bisogno di scaldarlo ai raggi di un sole che ancora intiepidiva le terre più a sud, e amando entrambi il clima latino decidemmo di volare in Andalusia.

     Fu come fare un tuffo nel cuore della primavera mentre si era già alle soglie dell’inverno. Siviglia era raggiante nella sua lucentezza, un tripudio di colori abbagliava lo sguardo, era difficile assorbirla anche solo a tratti, estenuava e insieme accoglieva, non c’era punto in cui ci si potesse distrarre. Cordoba invece rapiva chiunque nel suo labirinto, per poi svelare di colpo scorci ammalianti, dando infine il colpo di grazia con quell’apoteosi prospettica che era la sua Mezquita. Granada era semplicemente monumentale, un crogiuolo di stupori incastonato tra due colline rocciose da cui si ammiravano panorami vertiginosi, il cui tesoro più grande era arroccato in cima all’Alhambra. Tre gioielli diversi che avevamo infilato uno dietro l’altro come perle di una collana, visitandole con l’entusiasmo degli amanti e l’impazienza dei turisti.

     Avevo già viaggiato molto prima d’allora, spesso con amici, non meno di frequente in solitaria, mi piacevano entrambe le soluzioni, ma solo Roland mi fece assaporare appieno cosa voleva dire amarsi scoprendo il mondo. Un eccitante miscuglio di sensualità, meraviglia, rapimento, epifania in cui la libido si nutriva della contemplazione, il possesso alimentava la conoscenza, in un flusso continuo che ci portava spesso a confondere i piani, scambiandoci effusioni nei luoghi sacri e confrontandoci animatamente in quelli privati.

     Ma al di là dell’amore e dell’arte, binomio per me indissolubile in qualsiasi forma di seduzione, mi aveva colpito il modo in cui Roland percepiva la mia malattia. Quando si è affetti da qualcosa che non si può curare, né contrastare, ma tutt’al più adattarcisi come si può, le persone che ti stanno accanto assumono di solito due atteggiamenti. Chi sviluppa una pietas per il tuo stato, rammaricandosi che sia un vero peccato che le cose stiano così e non ci si possa far nulla, e chi al contrario esprime ammirazione per la tua forza, elogiando la capacità di reazione che ridimensiona ogni cosa e sdrammatizza il problema. Col risultato che entrambi finiscono col farti torto, i primi nel non cogliere una tua possibilità di riscatto, i secondi nell’ignorare una tua legittima fragilità, per cui in qualità di vittima o di eroina non ti ritrovi mai nelle percezioni degli altri, sempre costretta a contrastare pietismi o esaltazioni, risorse ignorate o negati tracolli, senza mai essere percepita nella tua ambivalenza di deficit e slancio, abbandono e contrasto.

     Roland invece percepiva la mia malattia come fosse un tratto della mia fisiognomica. Nulla di più o di meno di una caratteristica fisica, come il peso o l’altezza, il colore dei capelli o quello degli occhi, come fosse un fenomeno del tutto connaturato che non gli provocava compassione né ammirazione, vanificando ogni elemento di anomalia. E quando nel viaggio ero più incline a cadere perché stanca della fatica venivo assalita da crisi atoniche che mi facevano crollare di botto, lui mi raccoglieva all’inizio un po’ preoccupato  per eventuali ematomi, accortosi poi che avevo affinato strategie di caduta che non mi provocavano danni, mi rialzava distrattamente meravigliandosi che la macchina fotografica che mi aveva donato malgrado le ripetute cadute non si era mai danneggiata.

     Era straordinario. Per la prima volta mi faceva sentire una persona non alterata, proprio perché non evidenziava in positivo o in negativo quello che avevo, semplicemente lo considerava un mio attributo, bello o brutto che fosse, comunque non degno di particolare attenzione. Piuttosto si rendeva utile all’uopo e con la sua prestanza mi sollevava come un fuscello per salire le scale, mi tirava come una locomotiva per affrontare pendenze, fino ad azzerare in un soffio le mie carenze motorie offrendomi la sua forza come una protesi esterna. Così volavo dove volevo e mi lasciavo cadere senza sentirmi fraintesa.

     Cinque

     Con Aurora sarei andato anche all’inferno. Non mi importava dove fossimo, la volevo solo addosso. Adoravo sentirla stringersi a me, ovunque ci trovassimo, avvilupparsi al mio corpo come un rampicante tentacolare, protendersi in avanti per divorarmi di baci il collo, le guance, gli occhi, con un’insistenza quasi famelica, senza lasciare un solo centimetro del mio volto scoperto dalla pressione di quelle labbra carnose che sembrava volessero detergere la mia pelle da tutte le impurità della vita, facendola tornare soffice e tersa come quella di un bambino.

     Adorava in particolare allungare le gambe sulle mie cosce, quando ci sedevamo da qualche parte per riposarci dalla fatiche del viaggio, per poi buttarmi le braccia intorno alle spalle e tempestarmi di baci sempre sul volto col proprio viso orientato al sole, in modo da essere a sua volta baciata dai raggi mentre continuava a picchiettarmi come un cuculo su tutta la faccia. Io abbassavo il capo, chiudevo gli occhi e lasciavo fare, beandomi di quel trattamento compulsivo che sembrava assalirla anche nei momenti meno opportuni, con la stessa imprevedibilità delle sue crisi epilettiche.

     Per il resto mi lasciavo condurre ovunque volesse andare, era lei che decideva gli itinerari giorno per giorno, studiava cartine, selezionava visite, ottimizzava percorsi da navigata esploratrice qual’era, non trascurava mai nulla e approfondiva ogni cosa, era un’ottima guida, mentre io non avevo il minimo senso di orientamento e mi affidavo ciecamente alla sua conduzione.

     D’altronde avevamo gli stessi gusti e gli stessi interessi, ci piacevano i musei come i paesaggi, le collezioni d’arte come le passeggiate, intrecciavamo visite archeologiche con gite in battello, vedute panoramiche con soste meditative, sempre attaccati l’una all’altro, quasi fossimo incapaci di perdere per un solo istante la presa, come due naufraghi che si tengono aggrappati per non annegare.

     In quel viaggio ricordo che Aurora amava spesso soffermarsi a parlare di me. Quasi che la mia vita le stesse più a cuore della sua si prodigava a darmi consigli, suggerirmi idee, stimolare scelte, con la pazienza di un precettore e la sollecitudine di un maestro, senza rendersi conto però di mettermi ancora più in crisi perché mi spingeva a fare i conti con quella realtà che avevo sempre fuggito, lasciando tutto com’era, non dicendo nulla a nessuno, sottraendomi a decisioni fatali che avrebbero fatto saltare tutta la mia doppiezza. Così la ascoltavo in silenzio come fosse un atto d’amore, pur sapendo che non avrei potuto far nulla di quello che mi diceva, tanto erano distanti i suoi afflati salvifici dalle mie intrinseche capacità.

    Nulla però poteva eguagliare i momenti in cui ci amavamo con un’urgenza quasi ferina, quando esausti dal continuo peregrinare ci rifugiavamo in albergo e ci liberavamo dagli abiti e da tutte le convenzioni che ci avevano fino allora inibito, finalmente padroni dei nostri corpi e delle volute d’amore che ci apprestavamo a interpretare.

     Aurora era un’amante sapiente. Durante l’amplesso il suo corpo si liberava dai movimenti scomposti che a tratti pativa per le crisi epilettiche e come un balbuziente che perde ogni incertezza appena inizia a recitare o a cantare, così lei riconquistava una perfetta armonia non appena si abbandonava al mio possesso. Anzi dimostrava di essere quanto mai elastica e sciolta, mai avevo amato una donna prima di allora in grado di assumere posizioni acrobatiche, diceva che era grazie alla ginnastica fatta da piccola se aveva ancora i legamenti snodati, sta il fatto che tra le mani mi ritrovavo un’atleta piena di grazia, ormai assottigliata dall’atonia muscolare ma vibrante come una viola d’amore, bastava sfiorare le corde più suscettibili e iniziava a suonare la sua melodia, risucchiandomi in una partitura che non era mai uguale a se stessa, ma si rinnovava ogni volta di originali varianti.

     Aveva il costante bisogno di assumere posizioni diverse, di sperimentare insolite intimità, quasi che l’amore non fosse un modo per ritrovarsi, ma piuttosto per perdersi in territori ignoti, dove c’era tutto da rischiare e al contempo da apprendere, nell’impeto di andare oltre se stessi e abbracciare non solo col corpo ma anche con la mente la natura dell’altro.

     Aurora però non si abbandonava così solo per fare l’amore, lo faceva anche quando veniva assalita da tormenti profondi che risalivano a galla da carenze ormai ataviche, quelle d’affetto sopra ogni cosa, cimentate da troppi decenni, allorché non aveva più avuto il conforto di un padre o una madre e non aveva mai avuto quello di un marito o di un figlio, ritrovandosi un segmento spezzato senza ascendenze né discendenze, che si era rinforzato in se stesso facendo a meno di tutto, a parte un pugno di amici che erano andati e venuti senza quasi mai soffermarsi.

     Così capitava, quasi sempre al risveglio, prima di intraprendere le nostre marce turistiche, che lei fosse colta da alcuni spasmi del cuore, molto più travolgenti di quelli che colpivano il corpo, e si abbandonasse a un pianto dirotto tra le mie braccia, inconsolabile come solo un bambino che ha perso qualcosa troppo più grande di lui può essere. Allora io la stringevo forte al mio petto e la dondolavo su e giù, cullandola ritmicamente come si fa con gli infanti cui non si può parlare, consapevole che qualsiasi parola sarebbe stata irrisoria di fronte all’abisso del suo dolore.

     Quattro

    Crollò tutta d’un botto. Dopo tante resistenze si frantumò in mille pezzi nel giro di pochi secondi. Quella fortezza di paure, dubbi, difese che avevo eretto intorno a me per contrastare un mondo che avrebbe potuto violare la mia libertà svanì in un soffio per esaurimento di forze, ormai non ce la facevo più, era inutile contrastare gli affondi a testa d’ariete di Roland, più lo massacravo e più risorgeva, sembrava rinvigorirsi dalle mie stesse mazzate, incassava il colpo là per là, poi tornava alla carica, era una lotta impari, e mi fu ben chiaro una mattina quando gli telefonai per dirgli che, d’accordo, se non proprio a nuoto, sarei finalmente tornata in quell’angolo di paradiso dove ci eravamo incontrati.

     Me lo aveva chiesto per settimane, giorno per giorno, aspettando che lo raggiungessi da un momento all’altro, fiducioso che la passione mi avrebbe spinto ad attraversare il mare anche a nuoto pur di stare con lui, invece fino allora non era mai capitato, avevo desistito ogni volta, pur sapendo che lui restava laggiù solo per rivedermi. Così, a novembre inoltrato, quando ormai le piogge avevano già mutato gli umori della vegetazione, mi decisi a prendere il traghetto per Bastia, dove Roland mi avrebbe raggiunto da Nizza, per poi recarci insieme a Port de Centuri.

     I miei nonni paterni d’origine erano còrsi. Discendevano da un ceppo bretone che si era innestato nell’isola alla fine del settecento, per poi migrare in Italia e insediarsi nelle colline toscane. I nonni però avevano mantenuto la potestà di famiglia, un’umile casa di pescatori a picco sul mare, nel cuore della marina di Centuri in cima a Capo Corso. Io ormai vi passavo tutte le estati, legata a quelle radici più che ai luoghi natii, e proprio laggiù avevo incontrato Roland, che invece era solito villeggiare a Saint-Florent con la sua famiglia di Nizza.

     Quel giorno soffiava uno scirocco rabbioso che alzava onde possenti su tutta la riviera di levante, ma bastava scapolare il capo per ritrovarsi davanti a un mare spianato dal crinale di monti che faceva da schermo alle raffiche, Roland era un patito di macchine d’epoca e non aveva resistito a non portare la sua Aston Martin DB5, un modello del ’63 che ti faceva fare un tuffo nella magia di quegli anni, nel pieno di un boom che lasciava immaginare altri mondi possibili, senza farti presagire che nel giro di pochi decenni si sarebbe invece piombati in un disastro epocale.

     Io avevo sempre adorato il mare in tempesta per cui chiesi a Roland di raggiungere la riviera di ponente facendo il giro del capo in senso antiorario piuttosto che tagliare per l’entroterra risalendo dall’altro versante. In realtà volevo soffermarmi con lui in tutti i luoghi che avevano dato senso alla mia vita passata quando ancora non mi sentivo orfana della vita e di dio.

   Ci fermammo lungo la strada per visitare paesini, ammirare strapiombi, indugiare lungo la riva, sempre sferzati da raffiche furibonde che ammantavano le scogliere di una spuma bianchissima. A Macinaggio ci fermammo a mangiare una pezzogna appena pescata, mentre il mare d’autunno liberava suggestioni irreali, tanto da credere di essere piombati fuori dal tempo.

    Arrivammo alla mia casa di Port de Centuri ormai a notte fonda e solo il giorno dopo ci saremmo potuti accorgere del fascino primitivo che sprigionava quel luogo, ma in quel momento per me contava solo aver dischiuso il mio nido d’origine a un uomo che tra quelle mura non avrebbe solo posseduto il mio corpo, ma anche la mia anima che ormai lì vi si era stabilita di stanza.

     Il lieve sciabordio del mare che carezzava con cura gli scogli cadenzò per lungo tempo i movimenti dei nostri lombi, in un sincrono perfetto tra carne e natura, ansimi e quiete, come se il ridosso di quel versante volesse cullare il nostro amplesso, senza turbarlo con frastornanti sconquassi come accadeva quando virulento soffiava il libeccio.

    Non ricordo quanto ci amammo perché il sogno si confuse con la realtà, sia in stato di veglia che in quello di sonno continuavamo ad amarci, fosse con il corpo oppure con la mente non riuscivamo a percepire la differenza, solo al mattino quando ci accorgemmo di stare al cospetto di una distesa infinita in cui naufragava ogni immaginazione capimmo che il nostro amore era solo un accidente all’interno di un sogno molto più grande.

    Decidemmo allora di continuare il nostro giro lungo il versante protetto, spingendoci verso LʼÎle-Rousse e Calvi, fino a raggiungere quel sogno dentro il sogno che era la riserva naturale di Scandola, una macchia fittissima sovrastante falesie vertiginose di roccia rossa, sculture in pietra scolpite dall’erosione, grotte tortuose dai fondali cristallini, in cui si perdeva la percezione del proprio sé e solo stringendosi l’una all’altro ci si illudeva di non svanire.

    Quando il giorno dopo lasciammo l’isola per tornare ognuno alle proprie incombenze ero nervosa, irascibile, come se qualcuno mi avesse fatto un torto che non sapevo come vendicare, ero cosciente di aver compiuto l’enormità di aver accolto nel mio rifugio segreto qualcuno che ora non poteva più essere insignificante, ma che allo stesso tempo dovevo strapparmi di dosso perché se ne tornava altrove, in una vita che non era la mia. Fu come realizzare che non ero uscita da un sogno ma ero appena piombata in un incubo.

     Tre

     Il copione era sempre lo stesso. Annunciavo le mie visite con un mazzo di rose rosse o una composizione di margherite, oppure con un ramo di orchidee o ancora una pianta di azalee, mentre quando non ce la facevo più partivo senza nemmeno avvertire e mi presentavo a sorpresa, anche a rischio di non trovare nessuno e di dover aspettare fuori di casa. Aurora però mi accoglieva sempre con entusiasmo, anche quando le capitavo tra capo e collo e doveva cambiare i programmi, riusciva sempre a incastrare i suoi impegni e a liberarsi per tutto il tempo che rimanevo con lei.

     Però dopo aver fatto l’amore ed essere andati in giro per la città cominciava a rabbuiarsi, rapita da pensieri funesti che la incupivano sempre di più, fino a quando non iniziava a perorare gli infiniti motivi per cui il nostro rapporto non poteva funzionare. E prima per le incompatibilità di carattere, la mancanza di interessi comuni, la diversità delle visioni del mondo, l’antitesi degli stili di vita. E poi per le inconciliabili esistenze, da una parte i miei casini, dall’altra i suoi problemi, per un verso i miei complicati rapporti, per l’altro i suoi precari equilibri. Infine per l’impossibilità di viversi una storia alla luce del sole, in completa libertà e autonomia, che ci imponeva regimi di vacanza forzata e cadenze di addii laceranti.

     A volte riusciva a stare in una sorta di trance per tutto il giorno, in cui appariva disinvolta e spensierata, seppure nel profondo covasse a poco a poco il suo turbamento, poi andava a letto e nella notte lasciava crescere dentro di sé tutto il peso di un radicale rigetto che puntualmente mi scaricava addosso il mattino dopo. Io avevo le spalle forti e cercavo sempre di tenere botta, ma talvolta crollavo esausto lasciandomi andare alla disperazione. Piansi più volte tra le sue braccia tutta la mia incapacità di liberarla da quel labirinto di ossessioni.

    Una volta verso la fine di ottobre arrivai persino a gettare la spugna. La congedai per iscritto, allegandole le mie predilette canzoni francesi sull’ineluttabile caducità dell’amore, per farle capire che prima o poi sarei anche riuscito a farmene una ragione, ma il risultato fu clamoroso. Andò prima nel panico, rivivendo le perdite ataviche dei suoi affetti primari, poi in preda allo strazio mi chiamò per farmi sentire l’urgenza di riconquistarmi a ogni costo, implorandomi di non scrivere più congedi del genere e di non osare mai più abbandonarla.

     Aurora era una strana creatura. Adorava stare da sola eppure era terrorizzata di essere abbandonata. Per questo non si era mai legata a nessuno. Non sarebbe sopravvissuta a un’altra separazione. Non importava se fosse per un rapporto concluso o per una vita interrotta, per lei non faceva una gran differenza. Eppure era così difficile starle vicino, ormai era abituata a fare ogni cosa da sola che avere qualcuno accanto sembrava paralizzarla. Non riusciva a concentrarsi sul lavoro e tantomeno sulla creatività. I cicli di lezioni che teneva all’Accademia di Belle Arti li preparava in assoluto isolamento e altrettanto faceva quando si dedicava alle proprie opere. Nessuno sapeva cosa accadesse finché una tela o un busto non veniva alla luce. Aurora i gattini li andava a partorire nel bosco, poi tornava e chiedeva che impressione facessero.

     Un giorno commisi anche l’errore di voler osservare qualche dipinto che aveva composto per i suoi amori passati. Mi colpirono alcuni ispirati a un musicista per cui aveva tanto sofferto. Era riuscita a trasferire nei colori la levità delle note e a raffigurare una passione infelice attraverso un concerto di sfumature. Mi ingelosii a morte di quelle tele e capii che quell’amore non corrisposto le aveva fatto vibrare corde che tutto il mio trasporto non sarebbe nemmeno riuscito a sfiorare.

     Poi arrivò il momento in cui dovetti incassare anche il colpo della moto. La mia passione per le due ruote era seconda solo a quella delle macchine antiche. Solo che queste non le potevo cambiare ogni volta, non ne avevo le risorse, per cui mi misi a collezionare le moto delle più varie specie. Ma la mia preferita rimase sempre una Harley Dyna Glide, non troppo sportiva e al contempo molto elegante, ne andavo fiero e la usavo con parsimonia, quasi non volessi sciuparla.

     Un giorno però decisi di andare a trovare Aurora con quella moto per portarla a fare un giro nel Mugello. Arrivai senza annunciarmi e lei fu particolarmente entusiasta di accogliermi, anche perché aveva da poco sventato un mio altro accenno di congedo. Quella volta facemmo l’amore con una strana alchimia di pietas, furore, grazia e possesso che ci lasciò tramortiti per un bel po’. Quando poi scendemmo sul Lungarno delle Grazie la moto non c’era più. Non l’avevo legata e nemmeno assicurata. Solo allora mi resi conto quanto erano diversi i nostri ambienti di vita. I paesini della Costa Azzurra o della Corsica non avevano nulla che fare con una città così imprevedibile come Firenze. E io mi ci ero tuffato dentro con la stessa avventatezza con cui avevo tentato di appropriarmi della natura indecifrabile di Aurora.

     Due

     Era accaduto tutto così in fretta che non ero riuscita nemmeno a rendermene conto. Uno scambio di messaggi, qualche parola al telefono e poi la decisione di vedersi subito perché non si poteva aspettare un minuto di più. Era inutile tentare di frenare quando i freni si erano mollati, mi aveva detto Roland. La metafora mi era piaciuta anche se non avevo mai percepito di avere un comando in mano che poi si fosse rotto. Di fatto avevamo entrambi lasciato l’isola intorno a metà settembre, dopo esserci parlati solo qualche volta, e pochi giorni più tardi Roland bussava alla mia porta.

     All’inizio eravamo un po’ imbarazzati, in realtà ci eravamo già dichiarati ma fino allora non eravamo mai rimasti soli. Io avevo preparato un bel pranzetto per accoglierlo e quando gli aprii il riso era già pronto. Lo trovammo che ormai era diventato colla quando presi dall’ardore della passione ci affacciamo in cucina che era già sera. Rimanemmo a letto per tre giorni e tre notti consecutive. Ci alzammo solo per mangiare qualcosa e fare due passi. Non ricordo che mi fosse mai capitata una cosa del genere. Abituata a sedute lampo con amanti distratti che avevano sempre i minuti contati, quella maratona mi era sembrata qualcosa di inaudito. Soprattutto perché il sesso non era un rapido obiettivo da raggiungere, ma un efficace collante che teneva insieme tante altre emozioni.

    Abbracciati sul letto ci abbandonammo al riso, al pianto, all’ironia, al dramma, senza evitare di rivelarci a vicenda affanni e risorse, pecche e qualità, mescolando un’infinita gamma di umori che ci invischiarono l’una all’altro come insetti imbozzolati in una ragnatela. Non riuscimmo più a staccarci, come se la separazione interrompesse un circuito vitale che si era instaurato tra i nostri corpi. Ma soprattutto perdemmo i confini di noi stessi in una fusione erotica che si alimentava da sola, senza mai accennare a esaurirsi.

    Forse per via degli impulsi epilettici ho sempre avuto il bisogno di muovermi e cambiare più volte posizione anche a riposo, figuriamoci durante l’amore. Roland invece era quasi statuario. A lui piaceva prendermi e tenermi in una posa senza più lasciarmi andare. Soprattutto da quando gli avevo detto che doveva credere a quello che gli dicevo solo quando mi stava dentro. Come se volesse trattenere più a lungo quell’unica verità che si rivelava soltanto durante il possesso. E senza emettere un fiato mi guardava fisso negli occhi quasi a volermi perforare anche con quelli.

     Era robusto di corporatura, aveva le spalle ampie e i fianchi solidi, la pelle invece era quasi del tutto glabra, mentre i capelli apparivano folti e soffici, mi piaceva affondarci le dita soprattutto quando scivolava con la testa tra le mie cosce. Mi ero sempre lamentata della scarsa oralità dei miei amanti. Non capivo perché non l’amassero quanto l’amavo io. Ma Roland mi aveva sbaragliato. Non solo l’adorava, ma mi batteva in intensità e resistenza. A volte lo dovevo scalciare via per l’insopportabilità del piacere che mi provocava.

     A dispetto dei suoi anni era anche fin troppo prestante. Con la mia dozzina d’anni in meno spesso dovevo fermarlo. Avrebbe continuato a oltranza, senza nemmeno venire. Di contro a me provocava spasmi di godimento che non riuscivo più a controllare, sussultavo come un’ossessa, quasi in preda a uno stato di trance, seppure i tremori che mi scuotevano erano tanto diversi da quelli provocati dalle mie crisi. Quando invece era lui a raggiungere l’apice del piacere sprofondava in una sorta di limbo in cui diceva di vedere solo una nebbia lattiginosa che gli ottundeva i sensi. Finché non rinveniva allo stato di coscienza era come se lo avessi perso, gli stavo accanto ma lui non mi percepiva più.

     A quella volta ne seguirono altre ma nessuna raggiunse la perfezione della prima unione. Forse la novità di conoscersi aveva liberato un’alchimia primigenia, dove corpo, mente e anima si erano fusi in un’unica essenza, sprigionando una chimica inedita che sarebbe stata quasi impossibile da riprodurre. Ci avvicinammo ogni volta, ma non eguagliammo mai l’originale.

     Inoltre durante le pause di quel primo rapporto ripassavamo ogni volta i passaggi della nostra recentissima conoscenza, come due bambini che non si capacitano di fronte a una grande sorpresa e si ripetono le proprie reazioni quasi a volersene convincere sempre di più. Ormai eravamo drogati e per realizzare quello che era successo ci raccontavamo ad alterne riprese gli stessi stupori.

     Finché addirittura non mi bastò più parlarne solo con lui. L’evento era diventato così grande che per sostenerlo avevo bisogno di condividerlo con altri. E feci forse un errore cruciale. Parlai di questa storia, e dei suoi oscuri risvolti, con quasi tutte le persone che conoscevo, rendendo universale una dimensione che forse aveva la sua forza proprio nell’essere intima. Col risultato di avere una molteplicità di stimoli, consigli, interpretazioni che non fecero altro che confondermi le idee, acuendo le mie ancestrali insicurezze. Ma ormai era troppo tardi per rimediare. L’amplificazione che avevo creato intorno a me aveva provocato un effetto di ridondanza che invece di estinguere i germi del mio tormento li stava alimentando in un’ottima incubazione.

     Uno

     Non avevo mai particolarmente amato Saint-Florent. C’erano tanti altri posti della Corsica che mi affascinavano di più, la cittadella di Calvi, le Calanche tra Porto e Piana, le valli intorno a Corte, solo che il mio ultimo pargolo mi assorbiva talmente tante energie che mi rimaneva poco tempo per intraprendere escursioni in giro per l’isola. Per cui finiva che nei pochi momenti di libertà prendevo la moto e mi spingevo tutt’al più lungo Capo Corso.

     Per la verità anche quella lingua di terra ricca di paesini immersi nel verde e marine arroccate sulle scogliere mi aveva sempre sedotto. Anzi ogni volta vi scoprivo angoli remoti in cui mi piaceva ritornare. A Port de Centuri vi capitai quasi per caso. L’avevo scorto dall’alto e mi aveva colpito quello sperone di roccia che attraverso un piccolo arco di scogli affioranti formava con l’isolotto di Capense una baia naturale in mare aperto.

     Ero sempre stato appassionato di fotografia e vi tornai spesso per immortalare quelle scogliere al tramonto quando si infuocavano dei riflessi purpurei sprigionati dal sole basso sull’orizzonte. E tutte le volte, poco prima del crepuscolo, notavo una donna che con un’andatura un po’ instabile, malferma sulle ginocchia, si arrampicava con una certa difficoltà sugli scogli per poi buttarsi in mare e farsi una lunga nuotata intorno all’isolotto di fronte. Non so se rimasi più incuriosito dalla sua resistenza nell’acqua o dalla sua precarietà sulla terra, sta il fatto che mi sorprese ancor più quando ogni volta che passava per andarsi a tuffare mi rivolgeva la parola chiedendomi qualcosa sugli obiettivi che usavo. Dall’accento che aveva mi resi conto che non era francese né corsa e sembrava non avere neanche una gran conoscenza di apparecchi fotografici. Mi feci l’idea che si fosse trasferita in quel luogo per svolgere qualche attività di servizio che le permetteva di andare al mare solo la sera.

     Poi un giorno per caso, navigando su internet, scoprii il suo sito. Rimasi ammirato e incredulo allo stesso tempo. L’ampia documentazione di foto, tele, busti, figure dimostrava che non solo era un’artista piuttosto eclettica ma anche una discreta fotografa, quando a me era apparsa così ingenua e inesperta. Mi ripromisi di parlarle appena sarei tornato a Port de Centuri, ma ogni volta che arrivavo sulla scogliera non la trovavo mai. Temevo fosse ripartita per Firenze dove avevo visto che viveva, seppure tornai a più riprese di fronte all’isolotto sperando di rivederla.

      Arrivò così la fine dell’estate e una mattina piuttosto afosa di metà settembre decisi di farmi un ultimo giro lungo Capo Corso per concedermi un bagno refrigerante. Fu un puro caso che scesi alla marina di Centuri, nemmeno ci pensavo più e mi immersi in un’acqua adamantina dalla spiaggia di ciottoli appena dietro il porticciolo. Ormai erano andati via quasi tutti e mi avviai nuotando a rana verso gli scogli al lato della baia quando a un tratto scorsi una figura accovacciata su una roccia che alzava timida una mano per salutare. Istintivamente mi guardai intorno per capire a chi fosse rivolto quel saluto, ma non vidi nessuno. Non riuscii però a individuare la persona perché ero troppo distante dagli scogli, meno che mai mi venne in mente quella donna che avevo incontrato sempre al tramonto e mai su quelle rocce. Capii che era lei solo quando si tuffò in acqua e iniziò a nuotare verso il largo. Sapevo che era una forte nuotatrice, seppure prima o poi avrebbe dovuto fare ritorno.

     Mi misi allora a girare sotto costa in cerchi concentrici sempre più ristretti come uno squalo, in modo da bloccarla quando sarebbe rientrata. E puntualmente, dopo una mezz’oretta, riconobbi le ampie bracciate che si guadagnavano il ritorno verso la riva. Fece una faccia sorpresa quando la chiamai di spalle per farla girare. Le dissi subito che avevo scoperto il suo sito e che mi aveva ingannato perché in fondo si intendeva di fotografia quasi più di me. Mi sorrise con imbarazzo, scoprendo una chiostra di denti bianchissimi appena affioranti dall’acqua. Apparve contenta che avessi scoperto la sua identità e aggiunse che mi avrebbe inviato altre immagini fotografiche se ero così interessato. Le dissi che le avrei ricevute volentieri e poi risposi a qualche sua curiosità intorno al mio conto.

     Mentre parlavamo nell’acqua mi accorsi che lei si stava a poco a poco avvicinando agli scogli scossa da qualche brivido di freddo. Feci finta di non badarci e continuai a chiederle della sua attività, seguendo i suoi movimenti sempre più da vicino. Appena raggiunto lo scoglio non mi volse le spalle per salire, al contrario si arrampicò a gambero puntando mani e piedi e indietreggiando con il sedere. Ormai fattomi sotto la roccia scorsi il suo corpo emergere dall’acqua, prima le spalle accentuate da nuotatrice, poi l’incavo dei seni lungo il quale sgocciolavano stille d’acqua sprigionate dalle ciocche umide dei capelli, poi il ventre piatto e i fianchi torniti, ancora sotto il leggero tessuto di uno slip attillato il rilievo di un monte di Venere assai pronunciato, infine quelle gambe, così misteriose e sottili rispetto al busto e alle braccia, che nascondevano un segreto sfuggente, quasi una dimensione disarmonica che pure non stonava col resto.

     Quando poi alzai gli occhi sul volto di Aurora, incorniciato da una folta capigliatura i cui riflessi ramati luccicavano al sole, incrociai il suo sguardo che mi osservava con un misto di impudicizia e di impaccio, e solo allora avvertii gonfiarsi sotto il mio pube un desiderio inesplorato, quasi sinistro, che mi fece fremere nell’acqua e intuire nel profondo che stava accadendo qualcosa di possente e insieme di irreparabile.

 

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