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SHAKESPEARE IN FAKE:

INGANNI, FALSITÀ, MISTIFICAZIONI TRA ARTE E STORIA

Sette Oscar, tra cui uno per il miglior film e un altro per il miglior soggetto originale (ma sarebbe stato più giusto, se si fosse potuto, attribuire postumo quest’ultimo allo stesso Shakespeare), amato dal pubblico più eterogeneo e apprezzato dalla critica più diversificata, film in assoluto più premiato nel 1999 (e non solo negli Stati Uniti), in grado addirittura di creare una sorta di “shakespearemania” facendo esplodere una moda contagiosa e travolgente intorno a un autore di teatro che deve a tanto cinema la sua dilagante popolarità, Shakespeare in love di John Madden ha indubbiamente creato un fenomeno sorprendente e significativo, che, tuttavia, ci sembra necessario analizzare anche con altri occhi (non incantati dal repentino successo e dal facile divertimento) per poter, con cognizione di causa, levare finalmente una voce contraria.

Indubbiamente di fattura ben confezionata (forse gli Oscar più meritati sono quelli per la direzione artistica, la colonna sonora, i costumi e le scenografie), agile e sbarazzino quanto astuto e accattivante, il film porta sullo schermo la figura stessa del drammaturgo nel momento in cui è alla prese con la stesura di quella che diventerà una delle sue tragedie più grandi e una delle opere più adattate (dalla lirica al balletto, dalla televisione al cinema) del teatro moderno: Romeo e Giulietta. Il cocktail tra Shakespeare, le cui opere erano già state in gran parte divulgate da autorevoli adattamenti cinematografici, e il Romeo e Giulietta, dramma universalmente noto anche ad un pubblico meno sensibile e colto, non può che essere vincente; tanto più se si mescola con abbondante calcolo ed astuzia la vita dell’autore con quelle dei suoi personaggi.

Il film è ambientato a Londra nel 1593, durante il periodo in cui i teatri della città restarono chiusi in parte per la sempre più pericolosa e dilagante epidemia di peste e in parte per la crisi degli impresari che finanziavano gli spettacoli. Shakespeare, raffigurato come un drammaturgo debuttante ancora alle prime armi (verso il quale il film si mette a riparo attribuendogli – come è vero – una moglie sposata a soli diciott’anni e tre figli piccoli), si ritrova – bontà sua – nel pieno di un blocco creativo, proprio quando deve escogitare un degno finale a una tormentosa e appassionata storia d’amore. Ma quale ispirazione più efficace e originale poteva esserci per una grande storia d’amore se non quella di viverla personalmente? E magari proprio nello stesso identico modo in cui la si voleva scrivere?

Così eccoci subito buttati in quello che sarà lo sterile e scontato impianto di tutto il film: il parallelismo tanto più schematico quanto poco verosimile tra l’innamoramento a prima vista del drammaturgo e di Lady Viola (damigella travestitasi da uomo per poter diventare attrice) e l’altro più nobile e “teatrale” innamoramento di Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti. Sulla letterale falsariga del testo di Shakespeare (ed è per questo che non si sa cosa si premia se di sceneggiatura originale in tutto il film si contano pochissime battute) si snoda il frenetico e scomposto avvicendarsi tra la realtà e la finzione, in cui – sempre per accattivarsi la partecipazione di un pubblico tanto più vasto quanto più impreparato – la corrispondenza tra arte e vita viene assicurata anche da personaggi secondari, come Lord Wessex che svolge le funzioni di Paride e altri che interpretano i rispettivi Tebaldo, Mercuzio e Benvolio.

Ma ciò che lascia più perplessi in questa inopinata duplicazione del Romeo e Giulietta è l’incongruenza irrisolta tra l’amore realmente impossibile dei due giovani di Verona che riescono ad amarsi solo una notte prima del loro ultimo addio e la passione così intrigante e libertina dell’autore e di Lady Viola che non fanno altro che baciarsi e amoreggiare per tutto il corso del film.

La falsa corrispondenza tra dramma e storia può annoiare ma non ancora irritare. A questo ci pensa invece la realizzazione di molte scene girate con la stessa tecnica che si può trovare nei film più scadenti e grossolani interpretati da Bud Spencer e Terence Hill. Scazzottate, risse, turpiloqui, affronti di vario genere mandano in visibilio il pubblico più “popolare” e sotto terra le persone un po’ più avvedute. Ma come al solito a farci le spese più grandi è sempre il nostro autore insieme alle sue creature, e nella fattispecie il teschio di Yorik, che – come se non bastasse l’ingiustizia cui è stato condannato per secoli a figurare nelle mani di Amleto mentre questi recita il celebre monologo dell’essere o non essere, quando per la verità la sua presenza appartiene ad una altro bellissimo monologo (ma purtroppo meno noto) pronunciato da Amleto accanto alla fossa di Ofelia sulla caducità della vita – nel film lo vediamo persino declassato ad oggetto contundente!

Per quanto sufficienti a invalidare un film il cui successo deriva soltanto dalla messa in causa (tendenziosa e fasulla) della figura di Shakespeare e dalla messinscena (prima sdolcinata, poi didascalica) del Romeo e Giulietta, queste argomentazioni si limitano a riflettere su aspetti di natura formale piuttosto che storica o filologica. Se, però, ci si sposta su quest’altro piano, come una legittima verifica del film richiederebbe (dal momento che fin dalle premesse esso si propone come una ricostruzione storica di un’epoca e di un autore, su cui non è facile né lecito operare tante modifiche di fantasia), ci si accorge, purtroppo, che il film finisce col fare torto veramente a tutti.

Fa torto, innanzi tutto, a Christopher Marlowe, realmente ucciso in una rissa a soli ventinove anni (peccato, però, che questo accadeva perlomeno un paio di anni prima che Shakespeare scrivesse il Romeo e Giulietta), costretto nel film a starsene in disparte e a fare da improbabile “suggeritore” al collega-rivale in crisi creativa, per poi diventare il suo “alter ego”, finendo addirittura accoltellato a causa di uno scambio d’identità.

Fa torto a William Herbert, conte di Pembroke o a Henry Wriothesley, conte di Southampton (possibili destinatari della raccolta dei Sonetti) o comunque a quel fair youth cui Shakespeare dedica 126 dei 154 sonetti – tra le sue più vibranti, sofferte e stupefacenti liriche d’amore – dimostrando di essere tutt’altro che in crisi creativa (soprattutto negli anni di cui si parla) e di possedere già la sua particolare Musa ispiratrice.

Fa torto a Luigi da Porto e alla sua Istoria novellamente ritrovata di due nobili amanti (1536), poi ripresa dal Bandello nelle Novelle e tradotta in francese da Pierre Boaistuau, arrivata a Shakespeare attraverso la traduzione di Arthur Brooke The tragicall Historye of Romeus and Juliet (1562), da cui il poeta ricava la storia per scrivere la sua tragedia, facendo – come spesso accadeva – un lavoro accorto e ponderato sulle fonti, piuttosto che un’improvvisazione sprovveduta e del tutto pretestuosa come si vede nel film.

Fa torto persino alla regina Elisabetta, costretta – a dispetto della sua natura così schiva ed austera come ben documenta il valido film storico di Shekhar Kapur Elizabeth (1998) – ad alzarsi le vesti regali sopra le caviglie per scendere dagli spalti del Curtain gremiti dal popolo e raggiungere il palcoscenico sul quale svolgere la sua funzione di deus ex-machina, cercando di mettere a posto in modo farsesco e scontato le fila di tutta la storia che, superato il degno e unico finale datole da Shakespeare, non si sapeva come concludere.

Fa torto, infine, al nostro bardo, raffigurato come un commediografo principiante dalla tecnica mediocre e dalla scarsissima ispirazione, quando in realtà nel 1593 egli aveva già raggiunto una vastissima notorietà in tutto l’ambiente teatrale londinese e aveva già scritto e rappresentato alcune tra le sue tragedie e commedie più importanti, come: le tre parti dell’Enrico VI, Riccardo III, La commedia degli errori, Tito Andronico, La bisbetica domata, I due gentiluomini di Verona e Pene d’amor perdute.

Forse la lista dei torti potrebbe continuare – e a nostra volta rischiamo di farne qualcuno a chi in questa sede viene omesso – ma il panorama appare sufficiente a delineare quanto una deliberata operazione di fantasia (come si è visto nemmeno troppo originale e sofisticata) su un personaggio storico e di levatura artistica come Shakespeare, se non ben documentata o quanto meno rispettosa di alcuni aspetti imprescindibili, rischia di degenerare in una caricatura stucchevole e irriverente che non può trovare giustificazione nemmeno nella leggerezza di un film «romantico».

Si dice, infatti, che l’idea del film sia nata da una conversazione tra lo scrittore e produttore Marc Norman e suo figlio. Parlando di Shakespeare il padre si chiedeva che cosa avesse ispirato il giovane autore a scrivere il Romeo e Giulietta e il figlio ipotizzò prontamente che «una storia del genere poteva essere scritta soltanto da chi stava sperimentando in prima persona il fascino pericoloso dell’amore proibito». Così si è stabilito di far innamorare Shakespeare di una donna che si traveste da uomo per poter recitare (così poco sensato e fattibile per quell’epoca) in modo da offrirgli un’esperienza diretta per la sua vena creativa. In tutto ciò quello che dispiace è che nello sforzo (presunto originale e divertente) di dare un “lieto fine” alla tragedia – con l’allusione grottesca che i due protagonisti, per quanto separati ma non defunti, potranno sempre continuare a fare gli amanti – il risultato è quello di vedere una storia d’amore sfrangiata, svilita e compressa sulla scena e una del tutto insipida e farsesca nella vita.

Intorno ai drammi di Shakespeare sono stati fatti centinaia di adattamenti cinematografici, da quelli più ortodossi a quelli più trasgressivi, e spesso quest’ultimi si sono rivelati tra i più interessanti, proprio perché pur modificando l’ambientazione o i caratteri dei personaggi sono riusciti a mantenere una concreta fedeltà non solo al testo ma anche allo “spirito” dell’opera e del suo autore. Il problema, allora, consiste forse solo nel capire che quando ci si confronta con un materiale appartenente sia alla creazione artistica che alla realtà documentata, quello che indubbiamente esalta il “grande” pubblico ma allo stesso tempo irrita l’esperto non è la trasgressione, ma l’ignoranza.