In ricordo di Mario Colafranceschi

Ricordo personale di Mario Colafranceschi, caro amico e collega di Università, in occasione della pubblicazione di una raccolta di alcuni suoi scritti di filosofia, intitolata Caos, complessità, collaborazione. Centralità della politica, necessità della filosofia.

QUEL CHE ERA MARIO

Mario ColafranceschiMario era un uomo vorace. Artigliava la vita con voluttà, mirando al cuore delle cose, puntando dritto all’essenza. Era quasi infastidito dagli aspetti superflui, dai vani dettagli, gli erano solo d’impaccio e se ne liberava subito, senza pensarci. Era affilato, tagliente, non si preoccupava di poterti ferire, gli interessava solo di centrare il problema, buttartelo addosso, costringerti a una soluzione, qualsiasi prezzo avesse avuto. Non conoscevo nessuno tanto sfacciato da rimproverarti che le tue disgrazie pesassero ancora come macigni, che stentavi a risollevarti e che era ormai tempo di guardare altrove. All’inizio non lo capivo, o meglio facevo fatica ad accettare che qualcuno mi trattasse così, lo trovavo arrogante, presuntuoso, nessuno glielo chiedeva; poi però col tempo cominciai a intuire che dietro quell’apparente ruvidezza c’era un grande desiderio di generosità.
Mario ha sempre avuto un temperamento dialettico, amava la sfida, il confronto, il duello leale, ma senza risparmio di colpi. Era il suo modo di offrirsi, persino di venirti in soccorso, e a dispetto delle apparenze, quando sembrava di averti messo sotto scacco, ti aveva invece reso un servizio. Si donava così, Mario, detestava commiserare, ignorava la compassione, adorava al contrario provocare, toccando anche tasti dolenti, ma solo per farti uscire dalla tana e costringerti a una scelta. La sua era una sorta di maieutica agonistica, dove le parole avevano il peso delle pietre e la posta in gioco non erano opinioni ma scelte di vita. Ebbi bisogno di tempo per capirlo, ma quando ci arrivai non seppi più resistergli, ero io che lo cercavo, gli offrivo spunti per affondi, lo spingevo su terreni accidentati, mi divertivo a rovesciare il gioco, diventando così una sua interlocutrice prediletta.
Sapendo che non potevo correre Mario mi aveva concesso l’esonero dai campi da tennis. Passavano tutti di lì i suoi più cari amici, non gli bastava parlarci, voleva sfidarli su un vero campo da gioco, anche quello era uno scambio, un modo di stabilire tensione e complicità, antagonismo e affiatamento. Torto collo aveva accettato che con me questo non se lo poteva permettere, ma me lo aveva fatto pagare, a suo modo, spostando la partita su un tavolo da ristorante. Negli ultimi anni aveva preso la consuetudine di invitarmi a cena. Era l’unico modo per avermi dal vivo, per trovarsi faccia a faccia, senza contentarsi delle sole voci al telefono che pure erano sempre molto eloquenti. Preferiva guardarmi dritto negli occhi, studiare le mie reazioni, arrivare subito al punto, stringere all’osso i discorsi. Il resto non aveva alcun senso, non ci badava nemmeno, consultava il menù con svogliatezza e ordinava sempre la solita pizza. Poi la lasciava freddare nel piatto, quasi se ne fosse dimenticato, infine la divorava in pochi minuti, tanto per togliersela di mezzo. Mangiare insieme era un fastidioso accidente, non gliene importava nulla della tavola, si dimenticava di ordinare il vino e non mi chiedeva se volevo il dessert. Eppure era un ottimo cuoco, un grande amante della cucina, a casa sua faceva ottime cene e non si risparmiava mai coi suoi ospiti. Ma in quelle occasioni il cibo era solo un pretesto, contava soltanto quello di cui parlavamo, che alla fine erano sempre questioni filosofiche che ci spingevano su territori anche molto complessi, oppure commenti sulle storie che stavo scrivendo e che a Mario divertivano tanto.
Chi scrive sa che è sempre molto difficile parlare di ciò che si sta elaborando, a volte può essere utile far leggere qualche pagina, ma in genere è un viaggio oscuro e solitario che semmai solo alla fine può trovare uno sbocco. Mario invece voleva sapere tutto, era curioso come un bambino, mi interrogava su vicende, sviluppi, finali, dava consigli, suggeriva idee. Gli aspetti creativi lo stimolavano, diventava un vulcano, si appassionava a intrecci, tensioni, rovesci, parlava dei miei personaggi come fossero persone reali, era un giudice attento e un arguto consigliere. Apprezzava molto che inventassi storie e non si dispensava dall’elogiarmi. Quando mi invitava a cena e mi dichiaravo onorata, lui mi rispondeva che l’onore era tutto suo ad andare a cena con una scrittrice. Io lo invitavo a farla finita, mi imbarazzavano i suoi complimenti, ma lui insisteva, dicendo che quando sarei stata famosa avrebbe potuto dire di avermi conosciuto che ero solo una ragazzina. Non lo sopportavo, eppure capivo che lo diceva con sincero trasporto; come non aveva misura nel fare le critiche, altrettanto non l’aveva nel tessere elogi.
Non finiva mai col sorprendermi, Mario, a volte lo chiamavo per raccontargli alcune cose, immaginando già le sue reazioni, invece mi spiazzava sempre, con il bisturi della sua intelligenza coglieva tratti insospettati, ribaltava punti di vista, proponeva soluzioni inattese. Anche quando me ne uscivo con frasi apodittiche come: “mi annoia tutto, fuorché scrivere e studiare”, lui rispondeva fulmineo: “perché, che altro c’è?”, ribaltando in un soffio la prospettiva del mio estremismo. Era difficile portarlo sul proprio terreno, piuttosto era lui che ti conduceva sul suo. Aveva vissuto diversi anni a Brescia, trasferitosi per lavoro, ed era riuscito ad amare persino quella brumosa città, ad apprezzarne lo spirito refrattario, l’atmosfera asfittica, trovando spunti di interesse anche negli aspetti più remoti. Quando vi andai la prima volta per presentare un mio libro, Mario mi impartì una serie di precetti per visitare al meglio la città. Tornai dopo una visita sommaria che mi aveva lasciato indifferente e lui mi disse che non avevo capito niente, non ero stata capace di cogliere la vera anima della città, i suoi tesori nascosti, i suoi profondi segreti, e che dovevo assolutamente tornarvi. Vi tornai, stavolta per intervistare Emanuele Severino, e non osai andarmene prima di aver visitato a fondo il museo di Santa Giulia, la pinacoteca Tosio Martinengo, il duomo vecchio e il duomo nuovo, gli scorci più curiosi, gli angoli meno consueti. Al rientro gli riferii ogni cosa con la trepidazione di una scolaretta sottoposta al suo ultimo esame e lui bofonchiò che sì, va bene, ma potevo ancora capirla meglio. Tacqui per timore di una terza missione.
Mario era innamorato dell’intelligenza delle persone. Lì trovava il suo terreno da gioco preferito, gli piaceva analizzare, stimolare, interagire, il resto contava ben poco, detestava frivolezze e smancerie, tendeva a stabilire rapporti virili con tutti, rifuggiva come la peste affettazioni femminee e svenevoli approcci. Forse il complimento più imbarazzante che mi abbia mai fatto fu quando mi disse che avevo un’intelligenza maschile. “Sei essenziale e impudente, non ti perdi in inutili psicologismi, ti sottrai a ogni stupido intimismo, ricerchi nella pura astrazione forme di creatività, affili la tua ironia con buona dose di cinismo, insomma ragioni proprio come un uomo”. Credo di incarnare profondamente la mia femminilità e di non potermi immaginare altrimenti che come donna, ma non mi sono mai sentita tanto commossa come in quel momento. Nella sua ricerca del paradosso come intima verità Mario centrava sempre nel segno.
Ma quello che amo di più ricordare di lui non è tanto la persona ruvida, severa, rigorosa, quanto quella ilare, leggera, evasiva in cui si raccoglieva la sua natura più autentica. A dispetto della sua scientifica serietà Mario aveva una passione sfrenata per l’astrologia. Lo intrigavano i segni zodiacali, sapeva tutto di case e pianeti, influenze e ascendenti, per ognuno dispensava i propri consigli e le indicazioni di compatibilità con gli altri segni. Mi aveva assicurato che il leone poteva andare d’accordo con tutti, fuorché il gemelli, che invece gli avrebbe creato seri problemi. Quando lo misi in croce perché avevo conosciuto un gemelli che mi aveva fatto impazzire, lui accomodante mi disse, che, certo, non c’era letteratura, ma si potevano sempre contemplare eccezioni. Aveva una risposta pronta su tutto, Mario, teneva ferme le sue convinzioni, ma poi trovava il modo di essere conciliante, comunque mai ostile. A un certo punto si era fissato che dovessi accompagnarmi con uomini più giovani. A me non interessavano, ma lui insisteva, dicendo che erano molto più stimolanti delle persone mature. Era appassionato dei giovani, li frequentava molto, ne ammirava entusiasmi e potenzialità, e alla fine si comportava come loro, dimenticava i suoi anni, al ritorno dalle cene mi teneva le ore in macchina, come si fa quando si è adolescenti, continuando a parlare entusiasta, mentre io lo ascoltavo intirizzita sentendomi sempre più vecchia.
In Mario c’era un’affascinante commistione tra approccio razionale e istinto passionale, rigore dell’analisi e slancio delle emozioni, non si curava che potessero creare incongruità, viveva a fondo entrambe le cose, seguendo sempre una propria linea a dispetto di tutte le convenienze. Era capace di assillarmi allo stremo perché richiedessi tutta l’assistenza necessaria per il mio stato di invalidità, ossessionandomi anche con richieste impensate che la legge non contemplava. Poi quando capitava che camminando per strada con il mio passo incerto trovassi un inciampo che mi facesse cadere, lui non perdeva il filo del discorso, mi aiutava distratto a rialzarmi da terra e riprendeva imperterrito, assai infastidito che l’avessi interrotto. A me faceva impazzire questo suo modo di essere così incostante e mutevole. A volte me lo sentivo troppo addosso, altre volte non riuscivo a stargli al passo, invadeva e insieme volava, dovevi stare attento a tenerlo a freno e poi scapicollarti a corrergli appresso. Non c’erano misure, e questa forse era la sua maggiore risorsa. Aveva la statura di un vero personaggio, Mario, con tutte le sue euforie e contraddizioni, le sue intemperanze e zone d’ombra. Chissà se un giorno riuscirò a farlo vivere in qualche mia storia.