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TRA STUDIO E KAMMERSPIEL: TRACCE DI TEATRO

 

 Ettore Scola è forse uno dei registi italiani che ha maggiormente articolato, all’interno del proprio cinema, le molteplici dimensioni del concetto di “teatralità”, in riferimento tanto all’interpretazione e alla messinscena, quanto alla tematizzazione e allo stile di regia.

Nella sua ampia e variegata cinematografia – all’interno della quale ricorrono numerose costanti spesso “teatralizzate” (come lo scorrere del tempo attraverso “quadri”, lo svolgimento dell’azione in uno spazio chiuso, il rapporto dialogico tra i personaggi) – si possono individuare sostanzialmente tre categorie di uso del teatro nel cinema. In prima istanza il teatro in quanto tale nelle sue diverse forme sceniche (la lanterna magica con i siparietti, il palcoscenico ambulante con le maschere) per raccontare gli eventi storici, oppure le vicissitudini di una compagnia, nell’ambito di un viaggio (Il mondo nuovo, Il viaggio di Capitan Fracassa); in secondo luogo il Kammerspiel ambientato in un palazzo, in una strada, oppure in una piccola città, nel quale si trovano a fronteggiarsi due personalità differenti che instaurano tra loro una sorta di incontro-scontro-confronto (Una giornata particolare, Splendor, Che ora è, Concorrenza sleale); infine, ancora una sorta di Kammerspiel, ma in circostanze che impiegano una coralità di personaggi, sia nella staticità di un evento (La terrazza, La cena), sia nello scorrere della Storia (La famiglia, Ballando, ballando), dal cui sfondo prendono corpo i profili individuali.

Non è un caso che gli unici due film che fanno uso del teatro in termini metalinguistici (la messinscena teatrale come cornice drammatica), oppure narratologici (le rappresentazioni ambulanti della compagnia di attori), siano entrambi ambientati in due precise epoche storiche – la fine del settecento e il primo seicento – e sviluppino in due modi diversi il tema del viaggio sulla terra di Francia.

Il prologo e l’epilogo de Il mondo nuovo (1982) sono costituiti da uno spettacolo di lanterna magica che rappresenta i diversi momenti della Rivoluzione francese, attraverso l’uso di pannelli disegnati o persino di pupazzi che vengono decapitati. L’attenzione dei passanti lungo le rive della Senna viene catturata da un commediante italiano che indossa la maschera di Arlecchino e che “illustra” al pubblico, aiutandosi con un improbabile francese, gli “spettacolari” avvenimenti di quegli anni. Al di fuori di questa cornice storica relativa all’anno 1793, il teatro come evento o come performance non compare più nel film, sebbene nel corso del viaggio intrapreso da un gruppo di eterogenei personaggi (lo scrittore che narra la storia, un’aristocratica intima dei reali, una ricca vedova, una cantante italiana, uno scrittore rivoluzionario americano, uno studente giacobino) sulle orme dei reali in fuga nel giugno del 1971, si evidenziano alcuni aspetti che appartengono a un codice propriamente teatrale. Innanzi tutto l’inserimento di tre “quadri” esplicativi che presentano eventi o personaggi in maniera didascalica: Restif de la Bretonne che predice la rivoluzione, Giacomo Casanova che parla della sua fama (entrambi con lo sguardo rivolto in macchina), e una voce fuori campo che commenta un dipinto raffigurante l’inaugurazione del porto di guerra di Cherbourg, richiamando i siparietti della lanterna magica. In secondo luogo, le scene girate a bordo della diligenza durante il tragitto (inevitabile il richiamo ad Ombre rosse), rappresentano un microcosmo quanto mai concentrato di storie e personalità, ritratto attraverso un tipo di ripresa che ruota su se stessa, inquadrando i singoli volti secondo un percorso circolare che evidenzia uno spazio estremamente raccolto. Infine, nel corso del viaggio, ricorrono diverse sequenze che propongono situazioni di carattere squisitamente teatrale: ovvero le serate nelle locande, le passeggiate in campagna, i momenti di sosta e di ristoro, durante i quali i personaggi si confrontano sulle questioni politiche e si confidano riguardo le faccende private, secondo serrati rapporti dialogici che rendono quanto mai verbosa e assai poco dinamica l’azione del film. Ci sono da ricordare, inoltre, due elementi significativi che rinviano alla dimensione rappresentativa: uno è l’osservazione in récadrage dell’ambigua aristocratica che, sbucata da una botola del pavimento, vede, incorniciati da una panca, i piedi dei reali, come se si trovasse nella buca del suggeritore; l’altro è la vestizione di un manichino con gli abiti del re, di fronte al quale la stessa aristocratica si inginocchia in segno di riverenza, riconoscendone il simulacro della monarchia ormai definitivamente sconfitta.

Dalla struttura ancor più teatrale risulta Il viaggio del Capitan Fracassa (1990), tratto dal romanzo di Théophile Gautier, laddove il teatro non compare come cornice storica o come canone stilistico, ma costituisce il tema del film, nelle vicende di una compagnia viaggiante d’arte scenica intenta a raggiungere Parigi, con il sogno di esibirsi a corte. Qui i personaggi rappresentano delle vere e proprie maschere da commedia dell’arte, con un malinconico e lungimirante Pulcinella che cerca di “educare” il suo padrone, con lo spaccone Matamoro dal cuore tenero che si lascia morire di tristezza, con le due “morose” Serafina ed Isabella che si contendono le attenzioni di Sigognac, persino con il brigante e la “brigantina” che prima assalgono e poi soccorrono la miserabile compagnia di commedianti. In questo film sembra proprio che sia il cinema ad entrare nel teatro e poi a uscirne, attraverso un carrello in avanti iniziale che avanza verso il palcoscenico dove prende forma l’azione teatrale raccontata in flashback da Pulcinella, e poi con un carrello all’indietro finale che abbandona il proscenio per inquadrare gli inchini degli attori a spettacolo concluso. Ma a parte gli aspetti formali presenti nel film, tra cui le scenografie dei paesaggi costruite come quinte teatrali, la prospettiva scenica valorizzata dalla profondità di campo, le inquadrature frontali delle rappresentazioni ambulanti e l’osservazione monoculare dei volti delle attrici da parte dei nobili a corte, il teatro viene mostrato non solo nel suo “farsi” (prove, sfide, improvvisazioni, sorprese), ma soprattutto nelle contrastate emozioni che suscita e nelle malinconiche riflessioni che ne scaturiscono. I diversi commedianti, infatti, si confrontano intorno al loro mestiere tanto sul piano emotivo (solo sulla scena vale la pena di provare gioia e dolore, che invece nella vita occorre sempre evitare), quanto su quello riflessivo (il teatro diventa il luogo dove si inverano i sogni, dei quali nella vita non si può fare a meno), con il risultato di delineare un “vissuto” del teatro ricco di sentimenti profondi e di complesse personalità. Non a caso nel corso del film si intreccia l’elemento comico-farsesco (le battute di Pulcinella), con quello tragico-luttuoso (i funerali di Matamoro), oppure la dimensione elegiaca (l’infelicità in amore), con quella drammatica (la malattia di Sigognac), quasi a voler toccare tutti i registri dell’arte teatrale che, nel suo continuo gioco tra realtà e finzione, rappresenta la verità sul mondo più di quanto non possa fare la vita.

Quando, tuttavia, non si celebra direttamente il teatro o non lo si usa per rappresentare la Storia, si sviluppa, in non pochi film di Scola, un processo di “teatralizzazione”, che prende forma all’interno di uno spazio chiuso (dunque l’antitesi del viaggio) e mette a confronto, in una sorta di duetto-duello, una coppia di persone, oppure, in altri casi, un gruppo di individui che agiscono sempre nella medesima unità di luogo, anche quando varia, nell’ordine di diversi decenni, l’unità di tempo. L’esempio di Kammerspiel più emblematico giocato su una coppia di personaggi è senz’altro Una giornata particolare (1977), girato tutto dentro un condominio con un uso frequente di panoramiche circolari, sia all’esterno sulle finestre dei vari appartamenti, sia all’interno sugli oggetti che caratterizzano le singole abitazioni. Il film è costruito, inoltre, secondo una drammaturgia filmica ad andamento parabolico: l’alternanza delle azioni all’interno delle case dei due protagonisti, nelle quali essi iniziano a conoscersi seppur interrotti da elementi di disturbo (la telefonata dell’amico, l’intrusione della portiera), raggiunge l’apice drammatico nella terrazza condominiale (unico spazio aperto in cui si verifica il “cortocircuito” tra l’abbandono della donna e l’impassibilità dell’uomo), per poi rientrare negli appartamenti, dove si consuma prima la trasgressione (in quello di Gabriele) e poi si ritorna nel ruolo (in quello di Antonietta). In questo dramma a porte chiuse, dunque, il punto di “rottura”, in base al quale si imposta la sfida sessuale tra i due, avviene su un territorio neutro, circoscritto ma all’aperto, come se quel momento d’aria innescasse una reazione emotiva che libera i personaggi dalle proprie convenzioni.

Una medesima dinamica relazionale tra due individui, non sul piano della passione, ma su quello dell’amicizia, sempre all’interno di un contesto chiuso, avviene anche in Concorrenza sleale (2001), ambientato, non a caso, nelle stesse unità di tempo e di luogo dell’altro film: ovvero la Roma del 1938, nel pieno del regime fascista. Questa volta l’azione “teatrale” non si svolge all’interno di un condominio, ma di un quartiere per eccellenza chiuso (il Ghetto durante il fascismo) e in particolare lungo una strada, nelle quale si trovano i negozi dei due protagonisti, ricostruita in studio secondo l’atmosfera dell’epoca e ripresa costantemente attraverso due inquadrature che si alternano in campo e controcampo. Diversamente da Una giornata particolare, tuttavia, la relazione tra i due commercianti, che da una dichiarata rivalità si trasforma in una complice (quanto improbabile) amicizia, è movimentata dalla presenza delle rispettive famiglie, all’interno delle quali si sviluppano altri microdrammi (con relative riprese di interni), oppure tra le quali si intrecciano rapporti particolari (come l’amicizia tra i bambini, o l’amore tra i due giovani). A questa doppia dimensione interpersonale e collettiva – in cui semmai il discrimine che separa le due parti non è dato dalle personalità degli individui, quanto piuttosto dalle leggi razziali – si aggiunge una commistione di stili (già incontrata ne Il mondo nuovo), che unisce il comico con il tragico, provocandone spesso un effetto grottesco (come quando Umberto e Leone si mettono a ridere a crepapelle sulle disgrazie altrui). Emblematica, infine, da un punto di vista “teatrale”, è la separazione tra le due famiglie nell’ultima scena, in cui si alternano i primi piani delle diverse “coppie” (i due anziani, i due giovani, le due mogli, i due commercianti e i due bambini), collegati l’un l’altro da raccordi di sguardo, attraverso i quali si crea una dimensione ancor più complice e raccolta, che chiude ancora una volta il film sulla cupezza di un dramma esistenziale.

All’interno del Kammerspiel a due, si può annoverare per lo meno un altro paio di film in cui si gioca il confronto dialogico della coppia Troisi-Mastroianni. Uno è Splendor (1988), la cui ambientazione nel paese di Arpino ripropone un microcosmo fatto di piccoli “quadri” (il bar, la strada, l’ingresso del cinema, la sala di proiezione), dove i personaggi si muovono nella routine dei loro ruoli, stabilendo rapporti di complicità, tensione e solidarietà in nome della comune passione per il cinema, così come i commedianti del Capitan Fracassa condividevano gioia e dolori in virtù di un indiscusso amore per il teatro. Ma il vero contrasto di coppia viene “rappresentato” in Che ora è (1989), dove lo scontro generazionale tra padre e figlio si consuma nell’arco di una giornata in vari luoghi, sempre molto circoscritti, di Civitavecchia (il porto, il ristorante, le giostre, la strada, il locale), attraverso un confronto serrato quasi tutto verbale – per quanto non privo di sguardi significativi ed eloquenti silenzi – durante il quale i personaggi sono costantemente ripresi all’interno delle stesse inquadrature, come se si trattasse di una mimesi teatrale che mette in risalto la condensata dinamica del loro rapporto.

Tutt’altra dimensione di “teatralità” si ha, invece, quando al confronto dialogico tra due personaggi si sostituisce una coralità di voci o di ritratti che interagiscono tra loro all’interno di un comune contesto situazionale, fotografato nell’unicità dell’evento, oppure nello scorrere per periodi di un ampio arco di tempo.

Nella messinscena de La terrazza (1980) viene riproposta in cinque sequenze diverse la medesima festa, ripresa da angolazioni ogni volta differenti che mettono via via in evidenza il profilo di ciascun convitato, del quale si mostra la personalità nelle sequenze che seguono. Questo tipo di rappresentazione innesta lo sviluppo delle singole storie nella staticità dell’evento, che nelle sue ripetute versioni si ripropone sempre uguale, attraverso l’occhio della m. d. p. che “scivola” da una situazione all’altra, mettendo a fuoco tensioni, ipocrisie e conflitti tra i vari personaggi. I quali, per altro, nel bozzettismo dei loro caratteri, agiscono secondo due modalità specificamente teatrali: o “fingono” un ostentato benessere, negando qualsiasi disagio, oppure “drammatizzano” facendo le vittime e mostrando tutta la loro impotenza.

Dal canto suo, il set de La cena (1999) è allestito come un vero e proprio palcoscenico, con la cucina del ristorante sullo sfondo, i tavoli dove siedono i vari clienti ai lati come fossero quinte teatrali, la veranda dove si trovano i giovani in festa “alla ribalta” (in controcampo alla cucina), tanto che la panoramica finale che ruota a 360° durante il piccolo concerto di arpa e flauto, inquadra l’intera scena scorrendo da un tavolo all’altro e cogliendo le espressioni assorte nell’ascolto dei singoli personaggi, in una sintesi che dà l’idea di uno spazio scenico concluso, in cui nell’arco di una serata si svolge tutta l’azione. Qui torna il tema della convivialità, ma non nell’ordine sparso di una festa, bensì nella dislocazione per gruppi, in cui si consumano frammenti di esistenza con vari tipi di performance: degli assolo, dei confronti a due o a tre, delle interazioni a più persone, che spesso si sovrappongono nella stessa inquadratura, quando in primo piano si svolge un dialogo e sullo sfondo se ne percepisce un altro, in una contemporaneità d’azione valorizzata dalla ripresa prospettica e dalla profondità di campo.

Diverso respiro hanno, infine, quei Kammerspiel “corali” che mostrano la trasformazione di un gruppo (una famiglia, una comunità) con l’evolversi degli avvenimenti storici. Le otto decadi che scandiscono le sequenze de La famiglia (1987) determinano uno scarto tra le variazioni della Storia, che avvengono fuori dalle mura domestiche, e le iterazioni delle dinamiche familiari consumate nella casa. Mentre scorre il tempo di quasi un secolo, la vita si ripete con i suoi conflitti e le sue passioni, in una “normalità” del quotidiano fatta di conversazioni a tavola o in salotto, di silenziose connivenze e dolorosi abbandoni, di svogliate leggerezze e sottili sensi di colpa, in cui la casa rimane l’unica costante che si svuota e si anima a seconda delle circostanze, come un teatro multiforme e polifonico dell’esistenza. Costanti sono anche i passaggi di tempo segnati da una dissolvenza incrociata e da un carrello in avanti lungo il corridoio, nonché le scene “corali” riprese attraverso lente panoramiche sui volti dei personaggi, quasi ad evidenziarne la composizione d’insieme.

Le tracce degli eventi di cinquant’anni di storia francese entrano invece nella sala da ballo di Ballando, ballando (1983), attraverso i costumi, gli atteggiamenti e le caricature dei diversi ballerini, non più dalle personalità “ordinarie”, ma dai profili fortemente tipizzati, che si muovono all’interno dello spazio chiuso del locale, mutando ruoli e relazioni, rivestendo più maschere ed evocando con balli e canzoni le diverse atmosfere della Storia. Il vero spettacolo del film consiste in questa messinscena che imita il musical ma evita la staticità del “teatro filmato”, tratteggia le diverse epoche ma non rischia mai di frantumare l’azione, con il risultato di raccontare il vissuto attraverso la metafora del ballo, inteso come vitalità, amicizia, desiderio e seduzione. Cosicché la m. d. p., seguendo il ritmo della musica, non mette a fuoco soltanto i singoli volti, ma si muove costantemente dai particolari (fatti anche di minimi dettagli) alle scene totali, in un continuo andirivieni che “commenta” la rappresentazione attraverso i tagli, le angolazioni e le prospettive con cui viene ritratta.

Pur non avendo mai adottato specifiche “tecniche” teatrali per realizzare i propri film (come il backstage, il work-in-progress, ecc.), Scola mostra, in definitiva, non solo una grande “sensibilità” teatrale, che lo porta a pensare il cinema secondo stilemi spesso performativi (gli spazi chiusi, i dialoghi serrati, le messinscene corali), ma esprime anche una raffinata perizia nell’innestare i due codici formali tra loro, senza “snaturarne” la specificità, ma al contrario valorizzandone le reciproche contaminazioni: come l’ampio respiro della Storia ricondotto al dramma esistenziale, oppure la dimensione cinematografica del viaggio riportata in contesti da palcoscenico.