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VISIONI E SIMBOLI DELLA SESSUALITÀ NELLA POETICA DI PIER PAOLO PASOLINI

 

1) L’ambivalenza simbolica del corpo

 Parlare dell’idea di corpo nell’opera di Pier Paolo Pasolini significa abbracciare un universo di codici, valori, significati e implicazioni estremamente complesso e articolato. Si può dire che l’intera opera pasoliniana – poesie, racconti, romanzi, testi teatrali, sceneggiature, film, saggi, articoli, critiche – orbiti intorno al tema del corpo concepito in tutte le sue sfaccettature (fisiologiche, psicologiche, antropologiche, simboliche, sociali, culturali) e considerato nelle molteplici relazioni con altri ambiti dell’esistenza (quali il sesso, la morte, il sacro, la natura, la storia, il sacrificio). Lo stesso autore entra con il suo corpo nell’opera che prende forma insieme alla sua vita, producendo spesso un’osmosi – quando non una simbiosi – tra il suo fare critico-artistico e il suo vissuto biografico, in un continuo intreccio tra la responsabilità delle proprie scelte politico-ideologiche e la sofferta consapevolezza della propria diversità, tra la partecipazione alla vita pubblica, artistica, culturale del paese e la regressione in un mondo distante e remoto, completamente fuori dalla storia. Solo due settimane prima della morte Pasolini compie un connubio simbolico-concreto tra opera e corpo. A Chia, si fa fotografare nudo da Gino Pedriali nel chiaroscuro della sua stanza, semisdraiato sul letto o in piedi con un libro in mano, velatamente protetto da una parete di vetro. Le foto del proprio corpo avrebbero dovuto integrare i lacerati appunti di Petrolio, l’ultima opera cui stava lavorando. Come acutamente osserva Luciano Mariti:

 Il punctum della foto compone l’allegoria vivente del legame tra corpo e libro, o meglio tra la Forza del corpo e la Forma. É come se Pasolini si mettesse in posa perché, caduto tutto l’insignificante, restasse l’essenziale della sua vita: un corpo nudo e indifeso, fuori dal tempo, protetto dalla membrana-placenta del vetro; e insieme ad esso, in stretta continuità e intercambiabilità, l’opera.

Nel momento in cui Pasolini compie, per così dire, l’ultima riflessione su di sé non trova la propria interiorità; ma, nel corpo trova la sua originaria, non mediata, esposizione al mondo, e insieme la sua postuma, mediata, esposizione nell’opera.[1]

 Ma a parte questa singolare equazione tra corpo e opera che Pasolini compie poco prima di morire, quasi a voler emblematizzare la sua decisione di rappresentare un autore-attore in carne e ossa all’interno della sua opera-vita, l’idea di corpo che emerge – sia diacronicamente nel corso della sua produzione, sia sincronicamente attraverso i diversi generi da lui adoperati – sembra avvicinarsi a quella espressa da Umberto Galimberti nel suo saggio[2], laddove egli parla della concezione del corpo presso le comunità primitive, intesa non come una realtà naturale che si esprime attraverso un organismo biologico, ma come un rapporto sociale che si attua grazie a uno scambio simbolico. Il corpo primitivo infatti non vive diviso tra natura e cultura, in quanto viene investito da un insieme di simboli che traducono gli eventi naturali (nascite, morti, fenomeni meteorologici) in significati culturali (riti, pratiche magiche, ludiche, religiose) e lo mettono in circolazione come oggetto privilegiato di comunicazione tra i gruppi. Solo con l’inizio della filosofia greca, che in seguito, passando attraverso il pensiero di Cartesio, aprirà la strada ai nuovi saperi della scienza, della medicina e dell’economia, quell’ambivalenza simbolica che il corpo possedeva senza distinzioni polarizzate in positivo o in negativo si traduce in un’equivalenza generale in cui il concetto di valore determina il parametro di riferimento cui si riconducono tutti gli altri valori. Così Galimberti:

 All’ambivalenza simbolica, che non conosce valori e disvalori, subentra l’equivalenza generale che tutti li misura. Qui l’Occidente ha il tracciato fondamentale di tutti i suoi successivi percorsi, dove le cose che si incontrano hanno perso il loro nome perché costrette a recitare indefinitamente il nome del Valore che le esprime, dopo che la loro ambivalenza simbolica è stata risolta in un’equivalenza generale che consente, nonostante le loro differenze naturali, di significarle in quell’identità astratta che è l’Oro per le merci, il Fallo per le pulsioni, il Padre per i figli, il Senso per le parole, l’Anima per i corpi, il Dio per gli dei. Private del loro corpo, le cose non si rispecchiano più l’una nell’altra, non si scambiano tra loro, ma tutte si “speculano” in quello schermo trascendente che è l’equivalente generale che tutte le esprime, perché lì è il loro Valore e la loro trascendente Verità.[3]

 Le molteplici valenze che l’idea di corpo esprime nell’opera di Pasolini sembrano, allora, rifarsi proprio a questa concezione ambivalente di assoluta indistinzione tra natura e cultura, se solo si pensa al corpo contadino o proletario attraverso cui si rivela il sentimento del sacro (nei paesaggi friulani come nelle borgate romane), oppure al corpo come unità emblematica attraverso cui si esprimono i paradigmi del mito (nel caso dell’incesto, del sacrificio, dell’omicidio-suicidio), o ancora al corpo primitivo e innocente che si confonde con una natura ancestrale del tutto estranea alla storia (come nei popoli ancora incontaminati del Terzo Mondo), o infine al corpo assunto come puro simbolo che rinvia ad altre forme di realtà (si veda l’erotismo come irruzione del sacro, oppure il sesso come metafora del potere).

Tutti questi aspetti attraverso i quali il corpo acquista significato fanno pensare ancora a un’idea pre-logica in cui il corpo non è contrapposto all’anima, né la vita alla morte, né lo spirito alla materia, ma al contrario esso si perde nel cosmo nell’anelito di ricerca del sacro, oppure regredisce nel mito nel tentativo di recupero dell’archetipo, o ancora si trasfigura nella metafora nella valenza di allusione simbolica. L’idea di corpo nell’opera di Pasolini non cerca dunque di stabilire delle equivalenze di valori basate sulle iscrizioni a determinati codici (come accade nella psicanalisi, nella sociologia o nella semiologia, con le loro conseguenti trasgressioni)[4], ma al contrario tenta di esprimersi attraverso forme molto elementari come quelle primitive e indistinte, oppure assai più sofisticate come quelle simboliche o analogiche, perseguendo proprio quella sfida che lo stesso Galimberti lancia alla fine del suo studio, nel recupero di uno scambio simbolico che rimetta in gioco non soltanto i valori ma anche gli stessi codici:

 (…) Alla metafisica dell’equivalenza, con cui in Occidente si sono fatti circolare i corpi secondo quel preciso registro di iscrizioni che di volta in volta li determinavano, e sulle cui determinazioni sono nati i vari campi del sapere, il corpo può sostituire il gioco dell’ambivalenza con cui far circolare i codici col corredo delle loro iscrizioni, in un’organizzazione simbolica in cui il potere perde la sua presa, perché la delimitazione dei campi, in cui da sempre si è esercitato, si è simbolicamente con-fusa.[5]

 Comunque si intenda il corpo in Pasolini, non si può trascurare il fatto che esso è soprattutto caratterizzato dalle sue pulsioni fisiche primarie (l’appetito alimentare e quello sessuale formano un binomio costante in gran parte della produzione pasoliniana, insieme, naturalmente, ai loro eccessi: l’indigestione o il cannibalismo da una parte e la prostituzione o l’anomia dall’altra), che ne fanno innanzi tutto un organismo biologico sottoposto alle sue leggi naturali prima ancora che uno strumento simbolico a sostegno di un’ideologia. Per questo la dimensione della sessualità – connessa a quella della fisicità in generale, che può andare dall’assunzione del cibo all’espulsione delle feci – risulta centrale nella connotazione semantica del corpo all’interno dell’opera, così come lo è nel vissuto stesso di Pasolini che concepiva la propria omosessualità non solo come una differenza di scelta erotica ed umana ma anche come una vera e propria dimensione etico-politica: «… questa omosessualità fu la garanzia esistenziale per l’impegno di Pasolini come intellettuale in grado di analizzare i mutamenti sociali e culturali»,[6] osserva Stefano Casi.

L’articolazione della sessualità nei corpi narrati, mostrati e studiati da Pasolini si sviluppa, tuttavia, attraverso l’intreccio con due sfere essenziali: quella del sacro e quella della morte. Per comprendere a fondo i diversi livelli d’interazione che la dimensione erotica intrattiene con quella mistica e con quella tanatologica è opportuno far riferimento al saggio di Georges Bataille, L’erotismo,[7] in cui si afferma che:

 (…) l’erotismo è l’approvazione della vita fin dentro la morte. In effetti, sebbene l’attività sessuale sia all’inizio un’esuberanza della vita, l’oggetto di quella ricerca psicologica indipendente (…) dal proposito di riproduzione della vita non è affatto estraneo alla morte.[8]

 Eros e Tanathos si trovano dunque accomunati in quanto partecipano entrambi alla continuità dell’essere, poiché in essi è negata la riproduzione, che al contrario presuppone una discontinuità di morte e di rinascita. Il sesso e la morte mettono in atto un processo di violazione del corpo e della vita attraverso una forma di possesso totale e assoluto che elimina ogni forma di frammentarietà. Così come accade nel sacrificio religioso che può essere paragonato all’atto erotico in quanto partecipa anch’esso della totalità dell’essere:

 Nel sacrificio non c’è solo il denudamento, ma c’è anche l’uccisione della vittima (…) La vittima muore e gli spettatori partecipano di un elemento che ne rivela la morte. Questo elemento è ciò che potremmo definire, con gli storici delle religioni, il sacro. Il sacro è esattamente la totalità dell’essere rivelato a coloro che in un rito solenne contemplano la morte di un essere frammentario.[9]

 Il sacro e l’eros trovano quindi la propria comunanza nella morte, non solo nel sacrificio ma anche nella condotta: laddove la vita mistica è una forma di «morire a se stesso» attraverso l’estasi, mentre la vita sessuale è una forma di «morire nell’altro» attraverso l’amplesso. Inoltre la morte, il sacro e la sessualità esprimono quel senso di spreco illimitato che si contrappone al desiderio di sopravvivere, proprio di ogni essere.

Prendendo in considerazione tre diversi tipi di erotismo (quello dei corpi, quello dei cuori e quello del sacro) Bataille approfondisce il suo discorso analizzando il rapporto circolare che si viene a costituire tra il divieto della morte e quello della sessualità, causati dall’angoscia iniziale nei confronti del cadavere e dell’incesto, e le loro conseguenti trasgressioni nell’omicidio e nell’orgia provocate dall’acuirsi del desiderio di infrangere le proibizioni.[10] All’interno di questo gioco, la morte intesa come «opulenza di annientamento» e la sessualità concepita come «orgia di energia vivente», si trovano entrambe a coincidere nella comune dinamica di proibizione e trasgressione, che le “traduce” dalla sfera del profano a quella del sacro.

Se si pensa alle molteplici “figure” che il corpo assume all’interno dell’opera pasoliniana, è inevitabile osservare come la sua caratteristica dominante rappresentata dalla sessualità (in particolare nell’ultima produzione) si intrecci irreversibilmente con le due componenti analizzate da Bataille in rapporto all’erotismo. In primo luogo con il sacro come mistero di presenza-assenza che si rivela attraverso la comunione del corpo con il cosmo, laddove

 (…) attraverso l’atto violento del coito si può ritrovare il senso di quell’originario sacrificio da cui l’intero mondo fu generato. Ogni volta ripetuto e ogni volta diverso dal precedente: in tal modo si può vivere nel corpo l’unità di mito e di rito che consente di permanere in un legame profondamente religioso con il cosmo.[11]

 In secondo luogo con la morte come unico modo per esprimere la “sacralità” del proprio corpo, che nella vita manifesta tutta la caducità dei propri bisogni e desideri:

 Se nei romanzi e nei film di Pasolini i protagonisti sottoproletari muoiono e la morte rimane un elemento che accompagna lo svolgimento del racconto, pervadendolo costantemente di un’aura funebre, di un oscuro e funesto destino, è perché, non potendosi esprimere nel corrispondere alla chiamata del sacro in una storia che non li riconosce per tale disposizione, non hanno altra alternativa che quella di enunciarlo attraverso la loro stessa morte.[12]

 Secondo l’interpretazione di Conti Calabrese, dunque, nell’opera di Pasolini il sacro e la morte risultano strettamente connessi e in un certo senso “mediati” dal corpo, che attraverso la propria sessualità esprime un’ambivalenza generativa e distruttiva insieme, rispecchiando così la duplice componente insita nel sacro (benefica e malefica), che trova una sua unità soltanto nella morte.[13]

  

2) I romanzi: sensualità e sacralità dei corpi

 Uno degli ambiti più significativi attraverso cui si esprime maggiormente la dimensione del corpo in Pasolini e rappresentato dai romanzi romani, nei quali la borgata diventa una dimensione culturale, una filosofia di vita, un mondo chiuso di squallore e miseria, separato dal centro della città dove albergano ricchezza e potere. È quella dialettica tra natura e storia già impostata nelle liriche pasoliniane ad un livello etico e politico e ora protratta nei romanzi su un piano sociologico e culturale. La separatezza “esistenziale” che si viene a creare tra il centro e la periferia attraversa tutte le storie di Ragazzi di vita (1955), in cui si distinguono personaggi non più vinti od oppressi, come quelli di altri racconti precedenti, ma assai più furbi e maturi, ormai diventati dei veri e propri malviventi, la cui rassegnazione originaria si è tramutata in sfida, furore e violenza. Lo stesso linguaggio gergale e fisico è cambiato, si è fatto più allusivo e reticente, grazie alle qualità del romanesco e del fare malandrino:

 Così carico, barocco, artefatto il linguaggio malandrino è quello frenetico, violento dell’urbanizzazione ed è poi molto simile a quello della poesia. Per Pasolini questo linguaggio malavitoso si nutre come la lirica di una commistione di realismo e di deformazione intenzionale della realtà, si alimenta di immagini forti, prorompenti, della capacità di ammiccare, di mettere in mezzo qualcuno, di esasperare le tinte, di usare i toni forti. È poi un linguaggio soprattutto del corpo, dove il lessico ha una valenza gestuale, fisica.[14]

 Qui, però, il corpo non è solo il mezzo privilegiato dell’espressione ma è anche il motore centrale della catena di truffe, furti, soprusi e violenze che anima le storie di vita dei ragazzi. Il tema di fondo è infatti la ricerca disperata della “grana” per soddisfare sia i bisogni che i piaceri legati alla fisicità: il cibo, il sesso, il gioco, i vestiti. Ma la continuità di truffe e di furti porta a un paradossale circuito tra il rubare e l’essere derubati, in cui il recupero della grana avviene ogni volta attraverso un “patteggiamento” tra delinquenti e prostitute, solidali e rivali al tempo stesso. Tuttavia, il vero circuito perverso in cui il corpo si trova ad essere soggetto attivo e passivo di scambio è quello legato all’amore mercenario, laddove (come accade ad Alduccio e al Begalone) ci si prostituisce agli omosessuali per guadagnare la “grana” da spendere poi con le prostitute. Il sesso allora è venduto per poter comprare altro sesso, in un commercio puramente autoreferenziale.

La fisicità del corpo, inoltre, esplode non solo nelle situazioni di libidine o violenza, ma soprattutto in quelle di promiscuità e ignoranza che emergono all’interno dei drammatici contesti familiari vissuti dai protagonisti e costituiti da padri ubriachi e madri insensibili, da ambienti opprimenti e rapporti distruttivi, che acuiscono ancor più quel senso di impotenza e quella volontà di fuga verso esperienze più eccitanti, vitali e liberatorie. Ma quel contraltare del sesso (inteso come esuberanza e spavalderia) che è la morte si ripropone puntualmente in tutte le sue forme: sia come richiamo del destino (nel caso di Marcello sepolto sotto le macerie), sia come tentativo di suicidio (nel caso di Amerigo morto dopo una drammatica agonia), sia come eccesso di bravata (nel caso di Genesio annegato nel fiume). È il prezzo da pagare, come ricorda bene Ferretti,[15] per salvare quella purezza del «peccato innocente», ancora integro nei ragazzi di vita e incontaminato rispetto alla “corruzione” della città.

Il contorto intreccio di avventure che si profila ne I ragazzi di vita diventa un itinerario programmatico in Una vita violenta (1959), contrassegnato da tappe progressive ed esemplari che scandiscono il processo di maturazione del protagonista. Per quanto qui esista un personaggio principale che si rende gradualmente consapevole e responsabile delle proprie scelte politiche per potersi riscattare da una degradata condizione sociale, si conserva comunque, nella tessitura della narrazione, una coralità di voci, di gesti e di modi “borgatari” che alimentano una serie di storie secondarie e parallele, in cui i diversi personaggi si esprimono sempre con la lingua del corpo ed emanano sensualità non solo attraverso gli umori della pelle, ma soprattutto attraverso la volgarità del gesto e l’oscenità della parola, come fa notare ancora Mirella Serri:

 Nell’esuberanza del gesto, della spavalderia il linguaggio malandrino alimenta l’arroganza e l’insensibilità dei borgatari. Il senso profondo dell’eros emanato dai corpi poco lavati dei giovani romani, che nei primi racconti era concentrato nelle percezioni olfattive, trapela non solo dal corpo ma anche dalla lingua. La lingua malandrina è erotica, riflette le violente sensazioni, è una lingua fisica fatta di toni, di alterazioni, di sghignazzi, di singhiozzi, di oscenità.[16]

 Rispetto al romanzo precedente non solo le espressioni fisiche e quelle verbali ma anche gli stessi eventi risultano più caricati ed esasperati, fortemente centrati su una “corporeità” dell’azione che complica e aggrava il meccanismo di crimini e punizioni dispiegato attraverso una catena ininterrotta di aggressioni, pestaggi, risse, sfide che portano ad arresti e poi ad altri scontri, disordini e fughe. I motivi della ricerca della “grana” sono gli stessi (mangiare, bere, svagarsi, fare sesso), ma le modalità per ottenerla sono più violente e in un certo senso più velleitarie (come nel tentativo fallito di fare il “colpo grosso”). Qui però la dimensione “corporea” dell’esistenza non è segnata soltanto dalla delinquenza e dalla prostituzione (laddove situazioni drammatiche di miseria, promiscuità, ignoranza e degrado scatenano inevitabilmente reazioni di odio, violenza, cinismo e teppismo), ma soprattutto dalla malattia fisica e dalla lotta disperata contro la morte.

Accanto a una “fisiologia” del corpo (dettata dai bisogni e dagli istinti) si inserisce, allora, una “patologia” del corpo governata da reazioni imprevedibili e devastanti: come nei casi dell’infezione intestinale del Cagone soggiogato e umiliato dal disordine delle sue viscere e, ancora più grave, della tubercolosi di Tommaso, che lo costringe a fare un’esperienza assai più dura – ma senz’altro più formativa – di quella del carcere, ovvero il ricovero in ospedale. Il corpo, quindi, continua a parlare non solo attraverso la sua vitalità di bisogni primari, di urgenze istintive e di pratiche mercenarie, ma si esprime soprattutto attraverso i sintomi e i disturbi più gravi, manifestando tutta la sua caducità di organismo infetto, malato, perituro. Fino, appunto, ad incontrare la morte – qui sopraggiunta come catarsi finale – a compimento di un percorso parabolico, che ancora una volta si inserisce in quella logica di fatale ineluttabilità della condizione sottoproletaria, sacra e dannata, pura e maledetta, dalla quale è possibile emanciparsi solo con il sacrificio del corpo e della vita.

  

3) I film della borgata romana: corpi e luoghi

 Nel primo cinema di Pasolini si ripropone la dimensione esistenziale (astorica, incosciente, vitalistica, sacrale) della borgata romana, già immortalata nei racconti e nei romanzi precedenti e ora “documentata” attraverso il cinema, in tutti i suoi aspetti di degrado, miseria, violenza e ignoranza che avevano caratterizzato i diversi moduli di comportamento del “corpo proletario” nella narrativa. Quella separatezza strutturale che divideva il centro della città (luogo della storia e insieme fonte di morte) dalla periferia emarginata e depressa in Ragazzi di vita si ripropone con identica forza in Accattone (1961), laddove la necessità disperata di sopravvivere (per non morire letteralmente di fame) si scontra, paradossalmente, con l’assoluta resistenza verso qualsiasi soluzione lavorativa, tanto da provocare una sorta di cortocircuito (ancora una volta “a carico” del corpo) tra la miseria di una vita che toglie ogni dignità e rispetto umani e l’inerzia della volontà che annulla qualsiasi tipo di riscatto sociale. La forza fisica del corpo come organismo da “mettere alla prova”, in contrasto con quello da “mantenere” oppure con quello da “sfruttare”, emerge fin dalla prime sequenze, quando Accattone scommette con Giorgio il Secco di fare il bagno nel Tevere dopo una bella mangiata, ripetendo l’impresa che era costata la morte al Barberone, e che inevitabilmente rinvia a quella di Genesio in Ragazzi di vita. Il tema della sfida con lo sprezzo della morte si presenta, dunque, su un piano corporale come prova di coraggio di fronte al gruppo dei pari, così come la resistenza “simulata” alla fame nell’episodio della «pastasciuttata» si propone come una truffa beffarda ai danni degli altri affamati, concludendosi, tuttavia, senza “soddisfazione” dei bisogni corporei.

A parte il tema della fame che sostanzia l’intero percorso di Accattone – dai primi risentiti rifiuti di rubare, ai miseri tentativi di svolgere un lavoro, alla resa finale di darsi ai piccoli furti – la vera dimensione della fisicità nel film è data dai diversi profili del corpo femminile: da quello “mantenuto” e improduttivo della madre-chioccia Nannina con cinque pargoli attaccati alle sottane, a quello discinto e “navigato” della prostituta Maddalena che viene pestato per vendetta presso una discarica, da quello umile ma risoluto della moglie Ascenza che nega il figlio al padre, a quello sprovveduto ed impacciato di Stella che non riesce a prostituirsi. Corpi, dunque, di donne mantenute, sfruttate, offese, umiliate da parte di un “pappone” sempre più affamato, insoddisfatto e depresso, ma mai realmente cosciente del proprio stato di prostrazione. Diversamente dai Ragazzi di vita nel film manca quella coralità di furti, truffe e bravate compiute con «disperata vitalità» per soddisfare i bisogni primari del cibo e del sesso; Accattone è un personaggio triste, inerte, fondamentalmente demotivato e incapace di dare un assetto alla sua vita se non “servendosi” degli altri, ma soprattutto è attraversato da un profondo senso della morte che lo porta a sognare il proprio funerale:

 É la fondamentale sequenza del sogno, o per meglio dire dell’incubo, dove in qualche modo Vittorio vede la fine di Accattone, cioè l’uscita dalla propria condizione e, al tempo stesso, e anzi più che mai, ha il presagio della propria morte. Impossibile distinguere le due linee: poiché per Pasolini la sola uscita possibile dalla condizione sottoproletaria e dal suo preistorico e felice biologismo è, appunto, l’ingresso nella Città, ovvero nella Storia, ossia nel Principio di Realtà, come dire la Morte.[17]

 Ed è proprio incontro alla morte che va Accattone nel momento in cui, falliti i tentativi di sfruttamento e prostituzione relativi al proprio stile di vita, cerca di violare, rubando, il mondo storico, razionale, cosciente della città, che invece di rigettarlo dentro i confini miserabili della borgata, lo “libera” definitivamente dall’impaccio di quel corpo che non sapeva più come mantenere: «Aaaah! Mo’ sto bene!» sono le ultime parole di sollievo con cui Accattone saluta la morte che lo sottrae da una vita di stenti, dentro la quale non era più in grado di stare. Una morte, dunque, come «salvezza» che lo ricongiunge al sacro, a quel richiamo dell’assoluto cui, secondo Pasolini, sono sensibili solo i sottoproletari nel loro biologismo innocente e primitivo, non ancora contaminato dalla corruzione della società borghese, razionale e refrattaria a qualsiasi epifania della “natura”.[18]

Il tentativo di riscatto da uno status di profondo degrado fisico e morale attuato da Tommaso Puzzilli in Una vita violenta, attraverso una graduale e costante presa di coscienza, si ripresenta in Mamma Roma (1962) privo, però, di una reale consapevolezza verso quell’indifferenza razzista della classe borghese che emargina e disprezza i “diseredati”, consacrando così l’impossibilità di emanciparsi dalla miseria. Il personaggio di Mamma Roma è infatti permeato da un ideale di emancipazione piccolo-borghese (la casa «de gente per bene» in un quartiere «de ‘n altro rango», un lavoro per il figlio «che je possa dà ‘n avvenire»), al punto di nutrire un profondo disgusto nei confronti della propria classe, verso «quei morti de fame» dai quali con rabbia e dolore tenta in tutti i modi di riscattarsi. Ma il piglio, l’energia e la determinazione di Mamma Roma non sono sufficienti a realizzare il proprio ideale, soprattutto perché la donna si scontra con due “nature” – quella quasi diabolica del “pappone” Carmine, sempre pronto a riscuotere prestazioni mercenarie dall’ex-prostituta e quella dell’”angelo caduto” Ettore, la cui indole passiva lo rende ancora più sprovveduto e vulnerabile – che si rivelano assolutamente incompatibili con qualsiasi sogno di riscatto.

Anche qui, come nel film precedente, è il corpo materno e protettivo, ma al contempo umiliato e sfruttato della protagonista a costituire l’asse portante di una “fisicità” proletaria allegra e leggera nell’animo, ma insieme sottomessa al peso di un corpo che è anche merce per guadagnarsi da vivere e incubo di un destino da cui non ci si riesce a liberare. Così Mamma Roma è costretta per due volte a tornare a “battere” per la strada, proprio dopo due importanti “successi” (l’acquisto della nuova casa a Cecafumo e la “conquista” di un buon lavoro per il figlio), che rendono ancora più amara la rabbia per la propria sconfitta.[19] Al corpo energico e non remissivo della madre-coraggio fa da contraltare quello fragile e ingenuo di Bruna, madre smarrita di un «poro angioletto» che «forse more» e smaliziata ragazza che è lo spasso sessuale di tutti i ragazzi del quartiere. Un’altra figura di madre-prostituta, dunque, per quanto più “spontanea” e non esercitante il “mestiere”, che inizia il timido Ettore alla sessualità tra gli squallidi campi di periferia. Ma Bruna è donna di tutti e la velleità di Ettore di averla “tutta per sé” viene punita con un pestaggio da parte degli altri ragazzi, che si riprendono il loro “sollazzo” con la rassegnata complicità della stessa ragazza.

Il corpo tuttavia più vulnerabile e cagionevole di salute (un po’ come nel caso di Tommaso quando si ammala di tubercolosi) è quello di Ettore, segnato fin dall’inizio da un senso di distacco e di ignoranza verso il mondo, ma capace di tradurre il suo «dissimulato amore», per la madre in «rabbioso rancore» quando viene a sapere proprio da Bruna che Mamma Roma “batte” la strada. Quella è la molla che lo fa reagire (comunque in modo incosciente), portandolo a lasciare il lavoro sicuro e a commettere piccoli furti insieme alla banda di amici, finché, febbricitante e maldestro, viene arrestato e poi legato al letto di contenzione, sul quale, solo e in preda al delirio, trova anch’egli la morte che, come nota Lino Micciché, possiede la stessa valenza “ideologica” di quella di Tommaso in Una vita violenta:

 Così infatti, come la morte di Tommaso Puzzilli conferma che per il romanziere Pasolini l’uscita dalla Natura verso la Storia ha come premio la coscienza e come prezzo la morte, la morte di Ettore sul letto di contenzione attesta che per il cineasta Pasolini il tentativo di superare l’inferno della condizione sottoproletaria, sia pure per giungere soltanto al grigiore della condizione piccolo-borghese (…), è anche esso letale. Con la differenza semmai che, mentre per Accattone la morte è in fondo una dolce liberazione, per Ettore la morte è un terribile, atroce, doloroso supplizio.[20]

 Ettore muore dunque come un martire, tra invocazioni e patimenti – diversamente da Accattone che muore “sollevato” e in fondo contento – senza che ci sia alcuna catarsi come nel caso di Tommaso (in cui non si salva il singolo, ma perlomeno la classe), e senza che si verifichi una reale “apparizione” del sacro come nel caso di Accattone, dal momento che la disperazione di una madre che ha perso il figlio – per il quale ha «buttato er sangue» e ha combattuto contro «tutta la cattiveria del mondo» – è così immensa da sovrastare ogni altra forma di “rivelazione” che possa distoglierla dal senso di caducità della vita.

 


[1] Luciano Mariti, Pasolini: Il corpo, L’attore, Il dramma, in T. De Mauro e F. Ferri (a cura di), Lezioni su Pasolini, Ripatransone (AP), Edizioni Sestante, 1997, p. 230. Si ricorda, inoltre, che Pasolini si fece proiettare sul torace da Fabio Mauri alcune sequenze del film Il Vangelo secondo Matteo, facendosi egli stesso superficie di proiezione delle immagini che aveva girato intorno a un Cristo fortemente autobiografico.

[2] Umberto Galimberti, Il Corpo, Milano, Feltrinelli, 1999.

[3] Umberto Galimberti, Il Corpo, op. cit., pp. 25-26. Nel corso del suo saggio l’autore evidenzia come ogni sapere determina una dicotomia polarizzata tra due termini antitetici caratterizzati in positivo o in negativo. Nella filosofia greca, ad esempio, si crea la disgiunzione tra anima positiva e corpo negativo; nella religione biblica l’opposizione separa la vita come potenza divina dalla morte come carne diabolica; in Cartesio l’antitesi si verifica tra res extensa (estensione e movimento) e res cogitans (intelletto e ragione); la scienza del ‘600 privilegia, invece, l’aspetto naturale e biologico rispetto a quello umano e sociale; attraverso la medicina viene introdotta la nuova opposizione tra salute e malattia; con l’economia, infine, si contrappone il denaro come valore di scambio alle merce come prodotto di consumo.

[4] Galimberti, seguendo un suo percorso fenomenologico-esistenzialista, delinea nel suo saggio come le diverse scienze si siano evolute in base alle loro relative equivalenze, fino a produrre alcune forme trasgressive degli stessi codici, come l’alienazione o lo sdoppiamento nel caso della psicanalisi, oppure il feticismo dei bisogni e quello dei consumi nel caso della sociologia.

[5] Ivi, p. 291.

[6] Stefano Casi, Pasolini. “La coerenza di una cultura”, in S. Casi (a cura di), Desiderio di Pasolini. Omosessualità, arte e impegno intellettuale, Torino, Sonda, 1990, p. 25. Il corsivo è nel testo.

[7] Georges Bataille, L’erotisme, Paris, Les Editions de Minuit, 1957. Trad. It., L’erotismo, Milano, ES Srl, 1991.

[8] Ivi, p. 13.

[9] Ivi, p. 22.

[10] Bataille individua una sorta di complicità tra la proibizione di origine profana (che protegge dalla violenza il mondo del lavoro e della ragione) e la trasgressione di origine sacra (che legittima la violazione di quel mondo all’interno della festa), in base al legame profondo che si crea tra il desiderio e l’angoscia: l’orrore per il possibile contagio dato dal cadavere impone il rituale di sepoltura che separa il morto dai vivi, così come l’orrore per la promiscuità causata dall’incesto impone lo scambio delle donne che consolida le alleanze tra i gruppi. Parallelamente, il desiderio di uccidere conduce a quelle forme ritualizzate di omicidio presenti nella guerra, nella vendetta e nel sacrificio, che possono sfociare anche nel cannibalismo (desiderio di cibarsi delle carni del cadavere), così come il desiderio di accoppiarsi può portare da una parte alla forma ritualizzata dell’orgia espressa dalla sfrenatezza e dalla voluttà sessuali, e dall’altra alla forma istituzionale del matrimonio intesa come una violazione erotica controllata e approvata.

[11] G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro, Milano, Jaka Book, 1994, p. 134.

[12] Ivi, p. 101.

[13] Il saggio di Conti Calabrese analizza la dimensione del sacro in base a molteplici rapporti: quello con il potere borghese che attraverso i processi di omologazione e di conformismo ha perso ogni originario sentimento del sacro, quello con la chiesa cattolica che attraverso la sua strumentalizzazione da parte del capitalismo ha rinnegato la sua religiosità primitiva, quello con il linguaggio della poesia che nella sua purezza e nella sua gratuità risponde alla “chiamata” del sacro, quello con il linguaggio della realtà in cui il cinema esprime il mistero del sacro attraverso la dimensione del mito, infine quello con la propria diversità sessuale (intesa come scandalo, come esperienza interiore, come lotta politica) attraverso la quale lo stesso autore scopre il proprio contatto con il sacro e soprattutto con il sacrificio.

[14] Mirella Serri, Il linguaggio “malandrino” di Pasolini da Storie della città di Dio a Ragazzi di vita e Una vita violenta, in T. De Mauro e F. Ferri (a cura di ), Lezioni su Pasolini, op. cit., p. 364.

[15] Si veda, a proposito, il saggio di Gian Carlo Ferretti, Il mito pasoliniano dell’innocenza dal Friuli a Salò, «Nuovi Argomenti», ottobre-dicembre 1996.

[16] Mirella Serri, Il linguaggio “malandrino” di Pasolini, op. cit., p. 366.

[17] Lino Micciché, Pasolini nella città del cinema, Venezia, Marsilio, 1999. Nel sogno Accattone vive una vera e propria dissociazione in cui si vede spettatore e attore della propria morte, senza acquisire tuttavia una consapevolezza “riflessiva” della propria doppiezza. Il sogno viene percepito con disagio e turbamento, ma rimane radicato nel profondo dell’inconscio.

[18] Anche la tecnica di ripresa utilizzata dal regista nel suo primo film rispecchia un approccio “sacrale” alla realtà, la quale viene “rivelata” e “occultata” attraverso una scrittura filmica essenziale basata su brevi carrelli, lente panoramiche, primi piani frontali, nonché dalla contaminazione della musica sacra (La Passione di Bach) con la realtà profana (il corpo a corpo tra Accattone e il cognato). Come nota Antonio Bertini in Teoria e tecnica del film in Pasolini, Roma, Bulzoni, 1979, p. 56: «Bach, la “musica in assoluto” per un universo assoluto, che è fuori della storia e della coscienza, del bene e del male come valori, della ricchezza e civiltà borghesi, un universo che è puro vitalismo esistenziale e allegria della morte».

[19] [20] Lino Micciché, Pasolini nella città del cinema, op.cit., p. 44. Qui l’autore del saggio ribadisce il parallelismo esistente tra romanzo e film attraverso la contrapposizione che si viene a creare tra «(preistoria)-infanzia-purezza e (storia)-maturità-corruzione», laddove il passaggio dalla vita di borgata a quella di città comporta sempre la morte.