Quell’ultima parola

Quell’ultima parola

“Che cosa possiamo fare se non si può vendere niente,”
ripeté la donna.
“Per allora sarà già il venti gennaio,”
disse il colonnello, 
perfettamente cosciente,
“il venti per cento lo pagano quello stesso pomeriggio.”
“Se il gallo vince,” disse la donna. “Ma se perde.
Non hai pensato che il gallo può perdere”.
“È un gallo che non può perdere.”
“Ma supponi che perda.”
“Mancano ancora quarantacinque giorni
prima di cominciare a pensarci,”
disse il colonnello.
La donna si disperò.
“E nel frattempo che cosa mangiamo,” chiese,
e afferrò il colonnello per il collo della maglia.
Lo scosse energicamente.
“Dimmi, cosa mangiamo.”
Il colonnello ebbe bisogno di settantacinque anni,
i settantacinque anni della sua vita, minuto per minuto,
per giungere a quel momento.
Si sentì puro, esplicito, invincibile, nell’istante in cui rispose:
“Merda.”
Gabriel Garcìa Màrquez, Nessuno scrive al colonnello

 

Battaglia di Waterloo 1Aveva giurato e spergiurato, come Giuda, anzi no, come Pietro, negando a più riprese di aver mai pronunciato quella parola fatidica, e nemmeno frasi di sfida o di tetragona resistenza alla Reale Armata Britannica.
Giammai l’avrebbe potuto ammettere, non solo davanti ai commensali che gli tributavano omaggio con un sontuoso banchetto, ma soprattutto al cospetto della sua austera consorte, di sangue scozzese, che in cambio di un pretenzioso orologio, vacuo cimelio di glorie passate, gli aveva imposto senza riserve quel sacrilego, blasfemo giuramento.
Tanto doveva alla sorte che l’aveva tratto vivo da quell’inferno in cui forse avrebbe voluto morire, almeno per coronare quell’impeto d’orgoglio patriottico che lo aveva spinto a pronunciare l’immondo anatema, unico vero vessillo del suo coraggio; mentre ora per salvare l’onore (quale beffa più immeritata!), doveva negare tutto al cospetto del mondo.
Subendo per giunta anche lo scorno che quella frase grandiosa, destinata a segnare la Storia, almeno di quell’evento, fosse stata inopinatamente attribuita a quel Michel, uno dei tanti generali caduti sul campo, risarcito a suo modo da un riconoscimento postumo che era servito solo ad acquietare gli animi degli eredi. Né era valsa la testimonianza di un reduce del suo reggimento che a pochi metri l’aveva sentito parlare.
Battaglia di Waterloo 2Eppure non c’erano altri che si erano battuti fino in fondo in quel modo, sfidando un destino funesto che fin dagli inizi aveva mostrato tutta la sua avversione, a cominciare da quella pioggia infernale che aveva devastato il campo per tutta la notte, affondando i cannoni in metri di fango e rendendoli inservibili per attaccare all’alba il nemico, come avrebbe voluto l’Imperatore.
Solo verso mezzogiorno l’artiglieria era riuscita a sputare qualche palla sulle teste britanniche, quando però le colonne prussiane già avevano sferrato il loro attacco da destra, in barba al piano di intercettarle prima che arrivassero al campo, col risultato di decimare l’esercito imperiale che invece avrebbe dovuto fronteggiare gli altri avversari, dividendone i fronti.
Fu un massacro reciproco che durò più di otto ore, lasciando in sospeso fino all’ultimo l’esito dello scontro, ma il destino era già scritto nel vaticinio del nubifragio, calamitosa condanna per gli occupanti e segno augurale per gli alleati; tanto che giunti al crepuscolo, dopo un ultimo disperato attacco della Vecchia Guardia, pochi drappelli isolati erano rimasti a fare quadrato sotto il fuoco nemico.
Ma solo uno rimase a resistere a oltranza, quando ormai la legione era ridotta a un manipolo, la loro bandiera non era più che un brandello, i loro fucili ormai scarichi non più che inermi bastoni, al punto che gli stessi generali britannici rimasero esterrefatti nell’osservare tanto incaponimento, quasi atterriti dal fuoco sacro che scuoteva le viscere di quei sublimi moribondi.
Cambronne a WaterlooFu allora che si levò il grido pietoso:
– Granatieri, arrendetevi!
Ma ecco che quel generale di brigata, il più insignificante, una delle ultime pedine che avevano preso parte al conflitto, rispose stizzito:
– La guardia muore, ma non si arrende!
Allora fu fatto fuoco e il quadrato ruppe le righe per poi ricomporsi di nuovo. A quel punto gli inglesi, sempre più stupefatti, gridarono ancora:
– Granatieri, arrendetevi! Sarete trattati come i soldati più valorosi del mondo!
Ma il generale, ancora più indisposto di prima, rispose con maggiore veemenza:
– La guardia muore, ma non si arrende!
Sotto il fuoco nemico le righe si ruppero ancora, ma con quello che rimaneva riapparve di nuovo il quadrato. Allora fu il generale in campo dell’esercito inglese a intimare perentoriamente la resa:
– Per l’ultima volta: granatieri, non avete scampo, arrendetevi! Arrendetevi!
Fu in quel momento che a quell’uomo appiedato, a capo di un manipolo stremato da uno scontro impari, iniquo, emerse come un conato di vomito quella sublime parola, unico vero suggello all’infame proposta di aver salva la vita a fronte dell’onore di morire sul campo. Non fu nulla di meditato, né di prevedibile quando il generale, esasperato da quell’affronto a più riprese intimato, gridò:
– Merde!!!
Grandiosa parola, trascendente quanto liberatoria, che si levò al cielo sotterrando ogni possibile esito e riecheggiò in tutto il campo anche quando l’ultimo fuoco aveva inghiottito nel fumo ogni estremo sussulto di resistenza.

 




Trilogie del conflitto, del viaggio, del destino

Tre volte tre

Riposare nella perfezione è il sogno di chi tende all’eccelso,
e non è forse il nulla una forma di perfezione?
Thomas Mann, La morte a Venezia

In matematica il numero perfetto è un numero uguale alla somma dei suoi divisori propri, compreso il numero uno ed escluso il numero stesso. Il sei è un numero perfetto perché è la somma dei numeri uno, due e tre, per i quali è anche divisibile. Non lo è però il numero tre, che invece è un numero primo perché è divisibile solo per uno e per se stesso. Allora perché è sempre stato considerato un numero perfetto?
Innanzi tutto perché è la sintesi del pari (due) e del dispari (uno), poi perché raffigura la prima superficie attraverso la forma del triangolo, ancora perché gli sono stati attribuiti significati simbolici in varie epoche e da diverse civiltà. Si va ad esempio dalle trinità divine alle tre dimensioni degli oggetti, dalle tre cantiche (con i relativi multipli) della Divina Commedia, alla triade hegeliana che sintetizza i poli opposti della diade.
E la trilogia a sua volta, in quanto insieme di tre opere distinte di uno stesso autore collegate tra loro da una connessione tematica o stilistica, non rappresenta forse una composizione perfetta? Già, tanto da aver affascinato molti autori a comporre trittici di opere teatrali, letterarie, musicali, cinematografiche… persino di videogiochi. E tre trilogie allora, ovvero una trilogia elevata al quadrato, non potrebbero rappresentare una raccolta ancora più perfetta?
Senz’altro, se si rincorresse solo un’idea di forma, simbolica, metafisica, esponenziale… Tutt’altro, se invece si declinano temi assolutamente imperfetti come l’amore, la guerra, il sogno, la crisi, il contrasto, la rivalità, il mistero, l’inganno. Dunque un trittico di trilogie che nel suo anelare a una perfezione estetica celebra l’imperfezione umana nelle sue infinite varianti e attraverso soluzioni molteplici, dal dramma alla satira, dal carteggio al reportage, dal monologo alla ballata.

La prima trilogia parla di corpi. Corpi di avversari, di amanti, di bambini, in conflitto tra loro oppure con il mondo. Il contrappasso racconta l’incrociarsi di due destini opposti, quello di un naufrago e quello di un fuggiasco, su un’isola carceraria. Il primo è scampato alla morte e vuole a tutti i costi restarvi, il secondo è appena evaso da galera e vuole a tutti i costi abbandonarla. Per poterlo fare hanno bisogno l’uno dell’altro, ma tra complicità e diffidenze si incroceranno anche i loro disegni perversi. Chant d’amour à deux voix è una passione d’amore raccontata a ritroso, di pinteriana memoria, ma a voci alternate che restituiscono due prospettive diverse della medesima storia, in cui ognuno si riflette nella visione dell’altro. Una città d’arte, una costa rocciosa e un’isola seducente fanno da triangolo fatale a due anime destinate a intrecciare i loro corpi in un viluppo di desideri, incognite, slanci, cadute. I bambini di Dio consiste in un montaggio parallelo di quattro storie di bambini – uno che diventa boia, una che si trasforma in kamikaze, una che scampa al gas sarin e uno che sopravvive alle stragi di Boko Haram – attraverso cui si declinano i molteplici orrori della Jihad. Un montaggio che alla fine diventa alternato e tutto declinato al presente nell’inseguire una convergenza possibile e un’altra impossibile.

I bambini di Dio

La seconda trilogia parla di luoghi. Tutte metropoli vissute attraverso viaggi e restituite attraverso intuizioni, metafore, paradossi. New York City, New York Grid è il monologo di un ipotetico visitatore che percorre l’isola di Manhattan da sud verso nord, rimanendo irretito da un sistema reticolare che trascende la specificità dei luoghi e assume una valenza universale in cui si riflettono interrogativi, dubbi, ossessioni, paure. Un itinerario labirintico tra gigantismo architettonico e senso del vuoto, magnificenza e irreparabilità. L’altra Istanbul è una sorta di reportage in otto quadri decisamente anticonformista e anticonvenzionale. Come grani di una collana si inanellano sguardi incrociati e gatti divini, tornelli all’aperto e richiami strazianti, isole di inabilità e tram spericolati, clacson orchestrali e giardini impeccabili. Il tutto secondo una perfetta interazione tra ordine e caos, delirio e armonia, evidenza e mistero. Fuga dall’Ucraina si snoda attraverso un carteggio tra due profughi ucraini, che si ritrovano su sponde opposte della Storia. Un ribelle filorusso e una Femen anti-Putin si rifugiano l’uno a Mosca e l’altra a San Pietroburgo per confrontarsi attraverso lettere appassionate sul loro modo di concepire il mondo e di avvertire le due città, lasciando intravedere tutte le contraddizioni della Russia odierna.

Fuga dall’Ucraina

La terza trilogia parla di eventi. Eventi futuribili, onirici, reali, tutti legati da un senso di destino inalienabile. La fine della storia narra la sorte dell’Italia, all’epoca del suo 150° anniversario, interpretata da un professore americano di crittologia protoclassica vivente cinque secoli e mezzo dopo. Nella sua ultima lectio magistralis egli narra le inquietanti scoperte che lo portarono a ricostruire la sorte italica come nessuno mai l’avrebbe immaginata, senza tuttavia riuscire a svelare l’ultimo arcano. Gravitazione è un metaracconto. I personaggi di un romanzo si rivoltano contro l’autrice incapace di concludere la propria storia e di liberarli da un viluppo che è diventato sempre più ossessivo. La perseguitano nel sogno fino a farle rivedere non solo la sua fiction ma anche la sua vita, che ripercorre a grandi passi nell’intento di trovare un senso autentico da traghettare fin dentro l’invenzione. Ballata pop ai tempi della crisi prende le mosse dalla mafia più nobile de Il Padrino, giunge a quella più degenerata di Roma Capitale, si insinua nei risvolti contorti della crisi, tesse un caustico apologo del Bel Paese, attraversa la memoria della Shoah, fa richiamo alla fantasia per risollevarsi dallo squallore, ricorre all’ingegno per vedere nel tracollo una rinascita e sprofonda nella bellezza dei bagliori riflessi da un fiume.

Ballata pop ai tempi della crisi

Infine l’epilogo, che farebbe da pendant a questo prologo, non è altro che un omaggio a una grandiosa parola, celebrata anche da Victor Hugo ne I miserabili, attribuita a Cambronne nel finale della battaglia di Waterloo. In un crescendo solenne si rievoca il giuramento che questi dovette fare alla sua integerrima moglie scozzese, lo scorno che subì nel vedere attribuita la celebre frase al generale Michel, l’epica battaglia combattuta contro tutte le avversità, la resistenza finale elevata fino al motto sublime. Un’ultima parola così memorabile da essere stata contesa tra storia, letteratura e leggenda.