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IL CIMITERO DI PRAGA

O DEL COMPLOTTO PERFETTO

 

Gran parte della letteratura postmoderna americana riposa sul paradigma della cospirazione. Autori come Thomas Pynchon, Don De Lillo, Paul Auster hanno orientato le loro poetiche intorno alla dimensione del complotto e alla relativa paranoia che ne scaturisce, riflettendola anche nella struttura narrativa e nei molteplici rimandi sia a livello extratestuale che intertestuale (si veda a proposito l’interessante monografia di Paolo Simonetti, Paranoia Blues. Trame del postmodern americano, Aracne, Roma, 2009).

In una società egemone e ingerente come quella americana, esposta ad antagonismi e rappresaglie su scala mondiale, prevaricatrice quanto vulnerabile, è giocoforza che nel proprio immaginario si sia formata la convinzione ossessiva di essere perseguitata da agenti ignoti che ordiscono complotti contro la propria incolumità. È come se la strategia di offesa le si fosse rivoltata contro, osteggiando il suo slancio imperialistico attraverso una dinamica cospiratoria. A questo modo però il complotto non appare più come un disegno per conquistare il mondo, ma come un’azione per sovvertirne l’ordine, non emerge più come un piano per affermare i fondamenti, ma come un modo per destabilizzare le certezze, evidenziando così non tanto la sua  ispirazione identitaria quanto la sua finalità eversiva.

Catalizzatore di manie di persecuzione, proiezione di afflati universalistici, motore di rivalità, scontri, ritorsioni tra opposte identità, il complotto ha sempre alimentato un’interpretazione del mondo in chiave visionaria quanto antagonista, intrecciando affabulazione e spionaggio, manipolazione e onnipotenza, in una crescente spirale di intrighi narrativi e misfatti storici in cui la forza del falso ha dimostrato tutta la sua capacità dialettica di attestazione della verità.

Grande interprete della cospirazione, oserei dire complottologo, Umberto Eco aveva già affrontato il tema della paranoia cospiratoria ne Il pendolo di Foucault, quando aveva raccontato la storia di tre redattori editoriali di Milano che, imbattendosi in un testo relativo a una Mappa indicante un percorso da seguire per la rivelazione di una verità ultima, quasi per gioco inventano un Piano che possa condurre a tale conoscenza attraverso l’interpretazione stessa dei movimenti compiuti dai Templari e dai Rosa-Croce nel corso dei secoli per conquistare il mondo. La costruzione immaginifica di un sapere ermetico, scandito dalle dieci Sefirot della Cabala ebraica, porta tuttavia i tre protagonisti a diventare vittime delle loro stesse trame, svelando la fatale infondatezza dl loro Piano e al contempo la sua irresistibile credibilità.

Ma i complotti cosmici attribuiti agli ordini religioso-militari che prendono forma nel Medioevo per propagarsi nell’arco di centenni appartengono, per così dire, all’archeologia della cospirazione. Gli intrecci sempre più avvincenti tra ordini mistici, società occulte e servizi segreti si sviluppano soprattutto nel corso del XIX secolo quando si immagina un fiorire di complotti ovunque: di ebrei contro gesuiti, di gesuiti contro massoni, di massoni contro monarchici, di monarchici contro mazziniani, in una spirale di rimandi religiosi e politici in cui la realtà storica finisce con lo sfumare sempre più per lasciar spazio a ingegnosi interventi di falsificazione e manipolazione.

Così il prodotto finale dei vari innesti di un complotto in un altro, con insospettabili contaminazioni letterarie, in cui la stessa sostanza del complotto cambia matrice ad ogni intervento e da ebraica si fa gesuitica, per poi diventare monarchica e trasformarsi di nuovo in giudaica, diventa per così dire il complotto dei complotti, se non addirittura il complotto perfetto, sintesi di invenzioni, riletture, spostamenti, attribuzioni, con una precisa destinazione finale.

Già nel 1992-93 Umberto Eco vi aveva dedicato la sua sesta e forse più avvincente lezione presso la Harvard University (pubblicata in Sei passeggiate nei boschi narrativi, 1994) con tanto di diagramma esplicativo intorno a influenze, incroci, innesti tra marchesi, abati, capitani, libellisti, diplomatici e spie che prendendo le mosse da alcune fonti letterarie (dallo stesso Eco riconosciute nei romanzi di Dumas e di Sue) sviluppano le loro tesi cospiratorie in base ai propri orientamenti politici e religiosi fino alla stesura definitiva dei Protocolli dei Savi di Sion, che rappresenterà per eccellenza il complotto degli ebrei finalizzato al dominio politico, economico e culturale del mondo. Circa una decina di anni dopo Eco ripropone nel suo saggio Sulla letteratura (2002) la storia dei Protocolli come una delle massime espressioni di falsificazione, laddove, paradossalmente, proprio la denuncia di falso avvenuta nel XX secolo ne ha poi decretato l’autenticità, fino a persuadere Hitler della necessità di una soluzione finale.

La storia per un romanzo dunque c’era già tutta, anche i contesti storici ottocenteschi si rivelavano estremamente avvincenti dal punto di vista narrativo: il Risorgimento italiano con la spedizione dei Mille, i terrificanti giorni della Comune di Parigi, l’affaire Dreyfus con le sue torbide implicazioni, le società occulte animate da furori dinamitardi, le lotte intestine tra i servizi segreti di vari paesi, insomma Il cimitero di Praga era quasi un atto dovuto da parte di chi è un maestro nel romanzare la Storia attraverso articolati piani metanarrativi e ironici giochi intertestuali.

 Non meno dei precedenti romanzi anche quest’ultimo è un saggio di virtuosismo stilistico e sapienza affabulatoria. Per esigenze di continuità narrativa Eco crea un protagonista che assume su di sé l’azione di tanti personaggi, una sorta di falsario modello, unica mente, seppur influenzata dai diversi poteri con cui si confronta, che altera, manipola, traspone i vari testi per giungere alla redazione definitiva del complotto esemplare, tanto più potente quanto più falso. Ma per rendere più articolata la sua personalità l’Autore la sdoppia, attraverso l’ingegnosa trovata di un trauma da messa nera, di modo che un falsario e un abate si trovino sotto lo stesso tetto a condividere le pagine delle stesso diario e a ricostruire oscure vicende nello spiarsi e interrogarsi a vicenda. Ma il doppio piano di narrazione tra due voci (o meglio scritture) che cercano di “interpretarsi” reciprocamente diventa triplo quando a commento e integrazione dei molteplici eventi interviene la voce del Narratore che porta avanti le fila della storia con la visione onnisciente della terza persona.

A dispetto di quanto possa sembrare, il romanzo, pur mettendo in gioco una miriade di personaggi, complessi rimandi narrativi e mutevoli visioni prospettiche, è chiarissimo. Sia perché la triplice narrazione è resa graficamente attraverso tre diversi caratteri tipografici che ne evidenziano le molteplici “mani”, sia perché secondo la migliore tradizione del feuilleton il testo è arricchito da immagini che ne illustrano alcuni passi salienti, sia perché in appendice al libro figura uno schema dei capitoli che distingue il piano dell’intreccio da quello della storia, in modo da orientare anche quei lettori che magari non si erano intrattenuti lungo le “passeggiate nei boschi narrativi” oppure all’interno delle invenzioni esemplari della “forza del falso”.

Ma questa linearità del corso degli eventi, evocati nelle pagine di un diario scritto nell’arco di poco meno di un mese (a parte gli ultimi due interventi sfalsati di un anno) e sviluppatisi lungo circa settant’anni (dal 1830 al 1898), fa senz’altro di quest’opera un suggestivo romanzo storico, scandito dall’intersecarsi delle vicende umane con gli avvenimenti salienti del XIX secolo, senza tuttavia mostrare ulteriori dimensioni narrative, con cui l’Autore aveva arricchito altri suoi romanzi.

 Oltre all’elaborazione di documenti storici e alla ricostruzione di visioni epocali, la narrativa di Eco si è sempre nutrita di altre due dimensioni apparentemente irriducibili: quella esegetico-filosofica che mette in campo teorie, dispute, trattati, eresie con tutto l’ambito di riflessioni che vi orbitano intorno, e quella satirico-visionaria che declina una serie di episodi in chiave ironica, grottesca, parodistica con soluzioni tanto avvincenti quanto inverosimili. Ne Il cimitero di Praga la prima dimensione è sostanzialmente contenuta negli studi intorno all’isteria e all’ipnosi da parte di Freud e Charcot agli albori della psicoanalisi, con le relative interpretazioni che si propagano all’interno della narrazione per motivare il senso di sdoppiamento da parte del protagonista, lasciato in sospeso come un enigma fino alla rivelazione finale. L’altra dimensione si sfilaccia invece in tanti rivoli, mimetizzandosi più con aspetti noir o spionistici o di suspense, con invero alcuni picchi davvero felici come i cadaveri nella fogna o la messa nera, senza tuttavia far mai decollare la storia verso una dimensione immaginifica o surreale.

Ma d’altra parte il falsario Simonini non è l’editore Causabon che fantastica un Piano inesistente, né il naufrago Roberto che si inventa una vita romanzata, né il villico Baudolino che immagina di conquistare il Regno d’Oriente. Anche perché Simonini non è un personaggio, ma la sintesi di tanti personaggi (o meglio di figure storiche) che ne fanno un protagonista più inverosimile che immaginario, capace di scampare a molteplici attentati, di assolvere gli ordini più pericolosi, di sottrarsi alle stragi della Comune parigina, di trovare sempre nuovi spunti di falsificazione, di adattarsi agli infiniti rivolgimenti degli eventi, fino a mostrare forse il suo tallone d’Achille solo in qualità di artificiere, visto che il suo diario si interrompe poco prima di compiere una missione dinamitarda nella metropolitana di Parigi.

Da vero romanzo d’appendice Il cimitero di Praga si legge dunque tutto d’un fiato, è misterioso e intrigante, pieno di tensioni e colpi di scena, con continui rimandi interni e rovesci folgoranti, ma sono lontani i vertiginosi files del computer Abulafia ne Il Pendolo di Foucault, o gli irresistibili duetti tra il naufrago e l’Intruso ne L’isola del giorno prima, o quel capolavoro che è la battaglia contro i mostri di Pndapetzim in Baudolino.

Eppure quest’ultimo romanzo ha un grande pregio, quello di aver raccontato l’apoteosi della cospirazione, con tutta la sua rete di risvolti, segreti, inganni, ricatti, vendette, la cui tessitura drammatica non può che rivelarsi irriducibile e trasversale, linfa vitale di infiniti racconti che si accavallano nel corso del tempo, continuando a rinnovare forme inedite di travolgenti complotti fino a saturare la nostra stessa esistenza quotidiana.

Così anche oggi ci ritroviamo a vivere un grande feuilleton da inizio XXI secolo, con un conflitto radicalizzato tra forze diametralmente opposte, cospiratori contro perseguitati, denunciatori dello scandalo contro gridatori al complotto, moralisti contro degenerati, paladini della giustizia contro guerrieri della libertà, dove tutti si attribuiscono la colpa su tutto in un infinito gioco al rialzo, dove i media rappresentano il deus ex machina che gestisce la fabula con tutti i suoi intrecci, dove il climax finale è costituito da un processo che si invoca quanto si fugge e che probabilmente non sarà mai all’altezza, qualsiasi esito abbia, di sciogliere in catarsi tanta tensione. E allora ci vorrebbe qualcuno che prima o poi riuscisse a narrare, almeno in chiave romanzesca, la fine di una storia che forse la Storia non è più in grado di offrire.

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