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SILENZIO DELLA FEDE E SILENZIO DELLA CONOSCENZA

 RIFLESSIONI SUL VALORE DEL SILENZIO
NE IL NOME DELLA ROSA E IL PENDOLO DI FOUCAULT

  

 “Che io abbia scritto o no, non fa differenza. Cercherebbero sempre un altro senso, anche nel mio silenzio. Sono fatti così. Sono ciechi alla rivelazione. Malkut è Malkut e basta.
Ma vaglielo a dire. Non hanno fede.”[1]

 Con queste parole si chiude l’opera che forse ha più messo a dura prova l’abilità esegetica dell’autore nel confrontarsi con un’immensa mole di testi attraverso i quali tentare una sorta di viaggio funambolico nei meandri più impervi delle dieci sefirot del sapere ermetico e lungo il piano dei Templari e dei Rosacroce per la conquista del mondo.

Sullo sfondo di un intersecarsi di scienze occulte, società segrete e complotti cosmici, tre redattori editoriali di Milano, attraverso la frequentazione di autori piuttosto sospetti e la pubblicazione di opere alquanto insolite, si imbattono involontariamente in un testo che sembra indicare una Mappa da seguire per la rivelazione di un mistero profondo, di un segreto nascosto, che racchiude la verità ultima del mondo.

La ricostruzione del Piano da attuare per il raggiungimento di tale conoscenza avviene attraverso l’interpretazione stessa della Storia, scandita da appuntamenti presso alcuni luoghi deputati in diversi paesi europei, che i vari ordini religioso-militari di natura mistica ed esoterica hanno rispettato nei secoli per scambiarsi i loro frammenti di testimonianze, finalizzati a un disegno universale di riforma del mondo.

Si cerca dunque una verità, la Verità, il senso ultimo dell’esistenza. Si vuole rincorrere un mistero che per secoli ha ammantato il sapere umano. Si tenta di violare un segreto che nasconde in sé l’essenza stessa della conoscenza. Si aspira insomma con tutte le forze diaboliche, sotterranee, magiche e occulte ad appropriarsi di una scienza che significa potere, elargisce dominio e investe di controllo tutti coloro che, possedendola, la esercitano.

È un Piano immenso, potente e fascinoso di appropriazione e dominazione che impaurisce e seduce allo stesso tempo, dal quale non è facile fuggire o salvarsi, soprattutto quando per curiosità indiscreta o per ingenua sprovvedutezza ci si è precipitati dentro, dando forse troppa fede alla sua veridicità.

Ed è ciò che succede ai tre protagonisti, tutti sedotti dal fascino del mistero e dalla passione per l’enigma, e tutti destinati a trovare in diversi modi la loro fine per aver inventato un Piano che non esisteva e per aver fatto credere ad altri che ci fosse una Mappa da conoscere per possedere il mondo.

E invece era tutto un non senso. Un’invenzione ridicola. Una follia che portava alla morte. Una verità inesistente. Il non-essere totale.

 “Ora so qual è la Legge del Regno, della povera, disperata, smandrappata Malkut in cui si è esiliata la Saggezza, andando a tastoni per ritrovare la propria lucidità perduta. La verità di Malkut, l’unica verità che brilla nella notte delle sefirot, è che la Saggezza si scopre nuda in Malkut, e scopre che il proprio mistero sta nel non essere, se non per un momento, che è l’ultimo. Dopo ricominciano gli Altri.
E con gli altri, i diabolici, a cercare abissi dove si celi il segreto che la loro follia è.”[2]

 Ed è follia cercare di scoprire un segreto che per sua natura è totalmente vuoto e per di più falso. È follia credere all’esistenza di un mistero che come tale non potrà mai essere svelato. È follia illudersi che si possa sapere ciò che non è possibile capire.

 “Ho capito. La certezza che non vi era nulla da capire, questo dovrebbe essere la mia pace e il mio trionfo. Ma io sono qui, che tutto ho capito, ed Essi mi cercano, pensando che possegga la rivelazione che sordidamente desiderano. Non basta aver capito, se gli altri si rifiutano e continuano a interrogare. Mi stanno cercando, debbono aver ritrovato le mie tracce a Parigi, sanno che ora sono qui; vogliono ancora la Mappa. E per tanto che io gli dica che mappe non ce ne sono, la vorranno sempre (…)”.[3]

 Questa è l’ultima testimonianza, dopo non rimarrà che il silenzio. L’unica cosa da capire in tutta la Storia è che non c’era nulla da capire. L’unica certezza da raggiungere era che il Piano era inventato e la Mappa non esisteva. Lunico modo di salvarsi dalla morte era quello di stare al gioco dei diabolici e far finta di sapere quello che Essi volevano sapere. La Verità. Ma non c’era nessuna verità. Se non quella che essa non era mai esistita.

Ormai è troppo tardi però. Nessuno può credere che il messaggio di Provins, contenente il senso di tutto il Piano, abbia lo stesso valore di una lista della lavandaia. Nessuno può convincersi che non esista un sapere da possedere, una scienza da trasmettere e un mistero da perpetuare. La Storia deve pure avere un senso e la conoscenza una sua finalità.

Eppure sembra che tutto ciò non si realizzi in nessuna formula del sapere umano e in nessun ordine della realtà esistente, ma finisca invece nel vuoto, nel nulla, nel non senso, dove il commento non ha più ragion d’essere e lascia spazio al silenzio. E nel silenzio finisce la vera conoscenza. Quando ormai si sa già tutto e non ha più senso spiegare, confessare, trasmettere.

Diotallevi aveva capito l’insensatezza anarchica del Piano attraverso la sua malattia. Morendo di cancro aveva raggiunto una luminosa conoscenza attraverso il parallelo tra l’impazzimento delle sue cellule tumorali e quello delle libere analogie che portavano alla decifrazione del Piano. Belbo aveva capito il senso ultimo di tutta l’immensa follia che lo circondava solo nell’istante in cui, oscillando appeso al Pendolo, aveva trovato la sua fine. Una morte nobilissima e cosciente, all’insegna del rifiuto di quell’universo di ridicolo non senso. Casaubon, infine, è l’unico a sopravvivere fino in fondo per trovarsi solo con se stesso, a possedere finalmente l’ultima verità che è quella del non essere, dell’antisapere, della negazione. Non gli rimane che aspettare, attendere che lo raggiungano, per giustiziarlo in nome di un sapere che non esiste, di un messaggio che non ha alcun senso, di una verità che non possederanno mai perché lui ha deciso di tacere.

Ed è questo l’unico modo per essere davvero potenti, quello di non esprimersi per far credere che esista sempre qualcosa da cercare di incognito e di arcano, che tenga impegnati ancora per altri secoli frotte di diabolici attorno a messaggi indecifrabili, a segreti insondabili, a misteri impenetrabili.

Il silenzio, dunque, come più alta forma di conoscenza e come ultimo riscatto. Ma il silenzio anche come inevitabile alternativa all’inesistenza di un sapere sensato.

Non sappiamo quanto Eco abbia voluto dare senso al “suo” silenzio, di quanta importanza abbia voluto investirlo; possiamo solo immaginare una molteplicità di sensi che il silenzio, con la sua eloquenza, esprime: tanto più se si tratta del silenzio della conoscenza, del sapere umano, della possibilità stessa di capire e di spiegare l’ordine del mondo.

Un silenzio quindi potente, più potente dello stesso commento il quale definendosi si limita, un silenzio immenso che sottintende tutto e non dichiara nulla.

Per Eco, tuttavia, il vero silenzio che tace per non dire è quello della Fede, il silenzio che nasconde la realtà per alimentare la paura è quello del timor di Dio: si deve distruggere tutto ciò che crea distacco come il riso, poiché esso uccide la paura e senza la paura non cè Fede.

Questo è ciò che aveva capito Jorge da Burgos, il vegliardo cieco de Il nome della rosa, che attraverso il suo eccessivo amor di Dio aveva incarnato l’Anticristo e nel difendere la sua verità contro l’altrui menzogna aveva fatto morire tutti i suoi fratelli e lui stesso insieme ad essi.

Anche qui, come ne Il pendolo di Foucault, esiste un sapere profondo e misterioso che si cela nella labirintica biblioteca di una sperduta abbazia dell’alta Italia, un sapere non da scoprire ma da nascondere, per il cui possesso muoiono sette uomini in sette giorni secondo una catena di delitti scandita dal suono delle sette trombe dell’Apocalisse.

Non si tratta tuttavia di un sapere mistico, arcano, esoterico, ma di un sapere riconosciuto, autorevole e sommo, niente di meno che la parola del Filosofo:

 “Nel primo libro abbiamo trattato della tragedia e di come essa suscitando pietà e paura produca la purificazione di tali sentimenti. Come avevamo promesso, trattiamo ora della commedia (nonché della satira e del mimo) e di come suscitando il piacere del ridicolo essa pervenga alla purificazione di tale passione.”[4]

 È dunque nel secondo libro della Poetica di Aristotele che si annida l’eresia paventata ed esorcizzata da Jorge; è proprio nel punto in cui si elogia il riso come forma d’arte e di sapienza che si autorizza a deridere la paura della morte e a dissacrare ogni valore della Fede.

Il riso capovolge l’alto con il basso, esalta lo stolto e dileggia il saggio, trova la sua massima espressione nella Festa dei Folli in cui viene rappresentato un mondo alla rovescia, scardinato nei suoi valori cristiani e ricostruito su valori profani, sacrileghi e demistificanti.

Se poi è la massima autorità filosofica che nobilita questa forma oscena e insana di espressione e la innalza a valore di purificazione, allora deve essere distrutta ogni traccia che possa documentare tale eresia legittimando il distacco di Dio, l’infedeltà e la miscredenza.

Per questo Jorge, nel suo misticismo esaltato e perverso decide di sottrarre il prezioso manoscritto a tutte le possibili traduzioni e interpretazioni che i monaci dell’abbazia attraverso la loro ponderata sapienza potevano operare e tramandare; per questo egli avvelena le pagine del libro in modo che chiunque cerchi di sapere la verità racchiusa nel testo trovi la sua morte secondo il disegno della volontà di Dio:

 (…) Jorge temeva il secondo libro di Aristotele perché esso forse insegnava davvero a deformare il volto di ogni verità, affinché non diventassimo schiavi dei nostri fantasmi. Forse il compito di chi ama gli uomini è di far ridere della verità, fare ridere la verità, perché l’unica verità è imparare a liberarci della passione insana per la verità.”[5]

 Questo è ciò che ha capito Guglielmo da Baskerville, il monaco francescano coinvolto nelle indagini sulla serie di delitti presso l’abazia, il quale grazie ad un insieme di indizi, manoscritti e testimonianze riesce a individuare la strada che lo porta fino a Jorge, per capire infine che non c’era nessuna causalità nel suo disegno, ogni cosa era affidata al caso, dal momento che in tutto l’universo non era mai regnato alcun ordine divino:

 “(…) E’ difficile accettare l’idea che non vi può essere un ordine nell’universo, perché offenderebbe la libera volontà di Dio e la sua onnipotenza. Così la libertà di Dio è la nostra condanna, o almeno la condanna della nostra superbia.”[6]

 Se Casaubon, dunque, aveva capito che non esisteva un senso all’interno della Storia e un ordine sotteso alla conoscenza, Guglielmo si convince che non esiste un assetto causale in tutto l’universo e non esiste una verità assoluta su cui poter ironizzare neanche nella Fede.

Ma, ancora una volta, il possesso di tale conoscenza si paga col prezzo del silenzio. Bisogna far tacere la verità perché essa si possa esprimere con tutta la sua forza senza venire più violata.

Casaubon aveva deciso di sacrificarsi alla follia dei diabolici, senza dire loro ciò che aveva capito per poter conservare la sua integrità di uomo di fronte all’insensatezza del mondo e della storia; Jorge decide invece di darsi la morte con le sue stesse mani, inghiottendo le pagine avvelenate dell’opera blasfema per conservare così l’integrità stessa della Fede.

 “(…) Sei tu che attendevi il suono della settima tromba, non è vero? Ascolta ora cosa dice la voce: sigilla quello che han detto i sette tuoni e non lo scrivere, prendilo e divoralo, esso amareggerà il tuo ventre ma alla tua bocca sarà dolce come il miele. Vedi? Ora sigillo ciò che non doveva essere detto, nella tomba che divento.”[7]

 E paradossalmente ridendo Jorge muore. Ma non gli basta fare di se stesso la tomba del sapere di Aristotele ma fa anche della biblioteca la tomba di tutta la scienza ivi racchiusa, scatenando un incendio a catena che devasta tutte le sale e gli scaffali dell’immenso edificio, trasformandolo in un inferno apocalittico in cui tutta la preziosa cultura, conservata e tramandata per secoli dai monaci dotti, si estingue definitivamente senza lasciare più traccia.

A causa dell’eccessivo timor di Dio e dell’insana fede nella Verità, l’inestimabile patrimonio bibliografico viene quindi ridotto in cenere e tutta l’abazia, compresi la chiesa, il chiostro, l’ospedale e i dormitori, vengono distrutti e convertiti in un cumulo di salme e di rovine.

Così finisce il mistero dei molteplici delitti consumatisi all’interno della cinta abaziale, sullo sfondo della disputa ideologico-religiosa tra domenicani e francescani; così si conclude la storia di una verità sempre bramata e mai posseduta, per il rispetto della quale sono state distrutte centinaia di opere somme e ridotti per sempre al silenzio i loro autori.

A distanza di diversi anni l’allora novizio benedettino Adso da Melk, che aveva accompagnato il suo maestro Guglielmo nell’avventuroso e catartico viaggio presso quell’abazia dannata da Dio, si ritrova a scrivere nel gelido scriptorium le ultime parole del suo manoscritto, concludendo ancora una volta nel silenzio le sue riflessioni; così come Casaubon nella casa di campagna dello zio Carlo, di fronte alla verità rivelatagli dal computer di Belbo, Abulafia, aveva concluso di non scrivere niente e di aspettare senza inutili ed equivoche testimonianze la sua fine nel silenzio.

Anche Adso come Casaubon attende quindi la morte, l’ultima incognita che lo separa dalla “tenebra divina”, dal “silenzio muto” e dall’unione ineffabile” dell’oltretomba, e che lo riconduce a quel “fondamento semplice” e a quel “deserto silenzioso” che è l’essenza di Dio.

 “(…) La terra danza la danza di Macabré, mi sembra a tratti che il Danubio sia percorso da battelli carichi di folli che vanno verso un luogo oscuro.
Non mi rimane che tacere… Cadrò nella divinità silenziosa e disabitata dove non c’è opera né immagine.”[8]

 E’ del silenzio, dunque, l’ultima parola cui Eco dà un valore ancora più pregnante proprio perché è indicibile, impronunciabile, silenziosa.

La parola silenziosa è potente perché è “ossimorica”, è unica perché si commenta da sola, è superiore perché non lascia spazio ad altro commento.

Per questo ogni Sapere, ogni Fede, ogni Verità finisce nel silenzio, per ricongiungersi a quel mistero abissale che è la Morte, che è la fine di ogni conoscenza e di ogni comprensione, è l’ultimo atto attraverso il quale si può ancora dare un senso umano, mortale e finito al silenzio.

 


[1] Umberto Eco, Il pendolo di Foucault, Milano, Bompiani, 1988, p. 509.

[2] ivi, p. 508.

[3] Ibidem.

[4] Umberto Eco, Il nome della rosa, Milano, Bompiani, 1980, pp. 471- 472.

[5] ivi, p. 494.

[6] ivi, p. 495.

[7] ivi, p.  483.

[8] ivi, p. 503.

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