Ma perché la verità?

Ma perché la verità?

La colpa deve essere stata di tutta questa montagna di menzogne. Per forza. Altrimenti non si spiega. In un mondo infestato da narrazioni assurde, fallaci, inverosimili, di tutti contro tutti, di colpe sempre più grandi, di capri espiatori esponenziali, di notizie false e contronotizie ancora più false, di spropositi e smentite, di credenze contraffatte e di inganni all’algoritmo non ci si poteva aspettare qualcosa di diverso. D’altra parte dopo che si è creduto a tutto alla fine non si crede più a nulla. A eccezion fatta di una sola cosa: la verità, la pura, assoluta verità.
Per essere creduti, quando tutti mentono, occorre certificare che ciò che si dice sia accaduto veramente. Così la storia vera diventa un marchio di fabbrica, un attestato doveroso, la condizione imprescindibile per narrare qualsiasi cosa. Se è accaduto davvero, per quanto incredibile sia, non si può mettere in discussione.
Raccontare la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità ha legittimato però non solo di restituire storie accadute a terzi o in altri tempi da questi, ma anche di riferire storie accadute a sé stessi, ai propri congiunti, nel tempo delle proprie vite.
Così si è andato a scoperchiare quel vaso di Pandora che conteneva tutti gli orrori scaturiti dalla crisi della famiglia borghese. Madri tiranne, padri perversi, mogli agitate, mariti indolenti, figlie neglette, figli traviati, amanti confusi, bambini saccenti. In un tortuoso groviglio di dolore, morte, abbandono, perdita, lutto, malattia, disperazione. Storie di fatti reali, esperienze comuni, azioni condivise, vissuti personali. Come fossero le uniche cose al mondo meritevoli di narrazione: immediate, letterali, dirette.
Non più romanzi né racconti, dunque, ma biografie, autobiografie, memoriali, resoconti, faction, nonfiction, diari. Perlopiù canti funebri che si levano intorno alle rovine del paesaggio, alle miserie della vita, alla deriva dei rapporti, alla vertiginosa prevedibilità degli eventi più scontati. Con l’unica consolazione che alla fine la letteratura possa rivelarsi una medicina per lenire gli strazi del vivere e alimentare irrimediabilmente lo scrivere di sé, per sé, a sé.
Ma perché? Perché parlare delle proprie faccende presumendo che possano interessare agli altri? Perché credere che il personale possa essere universale? Perché narrare il concreto senza tradurlo in simbolico? Perché drammatizzare la sofferenza come unica dimensione reale? Perché esemplificare in dinamiche sentimentali complessi avvenimenti storici? Ma soprattutto perché fare il torto più grande alla letteratura ritenendola una medicina? Quale vero autore scriveva per curarsi? Quale scrittore usava la narrativa per dare sfogo ai propri accidenti e poi trovare in essa una riparazione? Piuttosto ci sono autori che si sono suicidati dopo aver scritto capolavori e giammai vi hanno trovato un conforto o una cura.
Insomma la scrittura del fatto privato (proprio o altrui) è pretenziosa, irrilevante; quella sullo sfondo di un fatto collettivo (sociale o storico) spesso è riduttiva, banalizzante; quella poi con l’obiettivo di lenire un danno (con funzione terapeutica) non è proprio letteratura. È sfogo, confessione, diario, testimonianza, pratica autoriferita, ovvero nulla di più antiletterario.
Perché la letteratura è rappresentazione del mondo, non copia; è metafora, allegoria, simbolo, non documentazione; è levità, distacco, ironia, non drammaticità; è intuizione, sintesi, digressione, non autoanalisi.
Non se ne può più di personaggi reali e private sofferenze, di fatti concreti e ordinarie vicende, di strazi banali e intime esperienze, ma sopra ogni cosa non se ne può più di donne che scrivono di madri e di figlie, di vittime e di eroine, di dolore e sacrificio, di abnegazione e martirio.
Quando vedremo autrici distaccate che scrivono di donne cattive? O autrici ironiche che scrivono di donne ingegnose? Perché i personaggi femminili non possono avere le stesse peculiarità di quelli maschili? Perché non possono essere assassine, ambiziose, argute, malvagie alla loro stessa stregua? Perché non possono essere frutto di fantasia, di varianti bizzarre o di esperimenti audaci?
Ci vorrebbero autrici che scrivessero di donne che non le rispecchiano, di donne consapevoli di un destino che non hanno subito ma che si sono scelte, oppure che gli è capitato e hanno saputo giocarselo secondo le proprie abilità, di donne lucide, ironiche, terribili (come quelle che seguono a breve), uniche responsabili dei propri misfatti.
Quando ci libereremo dalla dannazione delle menzogne, dalla disgrazia delle storie vere, dall’ossessione del privato e del personale, dalla smania dell’indennizzo e della riparazione, allora forse si potrà riscoprire l’autenticità dell’invenzione, il gusto del gioco letterario, la felicità dell’ingegno creativo, l’estro della sperimentazione, per narrare davvero qualcosa che tenga conto di chi legge assai più di chi scrive.




Propaganda bellica. La terza Erinni

Propaganda bellica. La terza Erinni

La propaganda, finora, io l’avevo letta solo sui libri di scuola. Sì, quella che si studia nei manuali di storia quando parlano di guerre, ad esempio, di come si manipolavano le informazioni per esercitare pressioni su stati d’animo e opinioni. Facendo ricorso alla paura, all’autorità, al senso di appartenenza, screditando avversari e colpevolizzando innocenti, ostentando banalità, vaghezze, operando semplificazioni, sfruttando stereotipi e slogan, additando sempre un capro espiatorio.
Non che esistesse solo la propaganda bellica, s’intende, se vogliamo risalire proprio indietro la troviamo già nella Bibbia, poi nell’Eneide, ancora nel Medioevo durante le Crociate, per non dire durante la Controriforma per contrastare il Protestantesimo.
Pare che anche la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America sia un capolavoro di propaganda nazionale, ma altrettanto Karl Marx nel Capitale non c’è andato leggero in termini di declinazioni propagandistiche del proprio pensiero.
Insomma c’è stata una propaganda religiosa, culturale, filosofica, politica, economica, persino letteraria, essendo un fenomeno squisitamente comunicativo. Certo l’apoteosi l’ha raggiunta durante i totalitarismi e i loro catastrofici conflitti… i cui spasimi pensavo si fossero estinti con l’ultima guerra mondiale.
E invece no. Avevo sottovalutato l’evoluzione tecnologica della comunicazione massmediale. E soprattutto la ridondanza cosmica delle piattaforme connettive. Tanto da manifestarsi un fenomeno inedito nella storia umana: non una, ma più propagande degne della terza guerra mondiale… senza però la terza guerra mondiale!
Non che le propagande si riescano a tollerare meglio se associate alla fine del mondo, ma risultano davvero insopportabili, per non dire farsesche, se questa fine la danno per acquisita quando ancora non c’è. E già una guerra nel cuore dell’Europa a XXI secolo bell’avviato è qualcosa di indicibile, se poi si esercitano violenze propagandistiche da conflitto atomico globale è ancora più inaccettabile.
Putin minaccia che la risposta della Russia a eventuali contrattacchi alla sua “operazione speciale” porterà a conseguenze che non si sono mai viste nella Storia. Biden dichiara che strozzerà l’accesso della Russia alla tecnologia, stroncherà il suo apparato industriale e spezzerà la sua capacità di competere. Zelensky afferma che la terza guerra mondiale è già in atto e se non fanno la no fly zone sull’Ucraina e non la sommergono di armi non ci sarà scampo per nessuno.
Minacce sentenziose, dichiarazioni spropositate, anatemi marchiani, parole più violente delle stesse armi di sterminio che nella loro ipertrofica prosopopea appaiono persino stucchevoli. Direi che se proprio hanno un valore è che nell’ostentare un apparato da belligeranza termonucleare alla fine la esorcizzano.
Pensavo che con il rilancio delle teorie del complotto avessimo toccato il fondo. Le scie chimiche degli aerei che liberano sostanze misteriose per inquinare il pianeta, la frode lunare di uno sbarco messo in scena per millantare primati planetari, l’attacco alle Torri Gemelle organizzato dalla Cia per invadere l’Afghanistan sono ormai antichi deliri soppiantati da una nuova generazione di complotti molto più folkloristici.
Con la pandemia ormai si sono aperti scenari vertiginosi: virus scappati dai laboratori, tecnologie distruttive per gli anticorpi, guerre pandemiche per il dominio del mondo, vaccini manipolati per alterare il genoma. Deliri floridi ai quali neanche la guerra attuale si è saputa sottrarre: da Biden che ha spinto Zelenski a farsi attaccare per rinforzare la presenza della Nato in Europa, a Putin che nel suo grande disegno pan russo ha deciso di spingersi fino a occupare Lisbona.
Certo anche il negazionismo non è stato da meno. Non dico quello storico, come la negazione dell’Olocausto o di altri genocidi, dall’ucraino, all’armeno, fino all’assiro. Ma quelli più attuali come la negazione del cambiamento climatico o peggio della pandemia da Covid 19, con tutto lo sfinimento paranoico, ossessivo, pretestuoso, strumentale dei No Mask, No Vax, No Pass: paladini visionari di libertà irriducibili concepite per individui monadici, avulsi da qualsiasi dimensione collettiva.
Ma la punta di diamante delle narrazioni mistificanti l’ha raggiunta solo la guerra tra propagande (più che la propaganda di guerra), l’escalation di maledizioni incrociate, il gioco di anatemi al rialzo… fuori scala e fuori senno. Quella è davvero la terza Erinni.
Non Aletto, l’indicibile, colei che non riposa e non dà requie, che castiga i peccati morali come la collera, l’accidia, la superbia. Non Tisifone, guardiana dei cancelli del Tartaro, che castiga i delitti di assassinio come il parricidio, il fratricidio, il matricidio. Ma Megera, la strega, preposta all’invidia e alla gelosia, che induce a commettere delitti come l’infedeltà coniugale.
Quella non è fustigatrice come le altre due, ma istigatrice, non punisce ma incita, non mortifica ma spinge alla perdizione. Se poi arriva a ruota dopo complotti e negazioni suggella definitivamente la catastrofe.




Vaccini assassini

Vaccini assassini

Una mansarda arredata a incastro. Un letto matrimoniale collocato sotto le travi, scaffali incastonati nel sottoscala, mobiletti bassi spinti negli angoli, un televisore a terra con cuscini davanti, due lucernari appaiati sovrastanti una panca. Una giovane coppia è raccolta in silenzio nel monolocale. Lui fa zapping seduto a gambe incrociate di fronte al televisore, lei sfoglia annoiata delle riviste distesa sulla panca.

– Hai finito di smanettare con quel telecomando? Non ti dai mai pace!
– Perché non trovo più nulla da vedere, le serie ormai me le sono sparate tutte.
– E allora usciamo, pure io mi sono stancata di rigirarmi sempre gli stessi giornaletti!
– E dove vuoi andare? Ancora a camminare nel parco? Io mi sono stufato.
– No, mi piacerebbe andare a un cinema, a un concerto, persino a una mostra, to’!
– Non possiamo, lo sai benissimo, quei bastardi non ci fanno entrare!
– E tutto questo per colpa tua.
– Per colpa mia?
– Certo, io il vaccino me lo volevo fare, sei tu che non me lo hai permesso!
– No cocca, io te lo avrei fatto pure fare, ma non volevo ritrovarmi vedovo appena sposato.
– Il solito esagerato! Invece così rischiamo di morire per il virus appena usciamo.
– Sempre che il virus esista. E poi almeno è naturale. Invece nei vaccini ci mettono un sacco di schifezze.
– Ma figurati, saranno finti, tanto per farci credere che servano a qualcosa.
– Stai scherzando? Sai come li fanno i vaccini? Dentro quello per il vaiolo c’è veleno di vipera, sangue, interiora, escrementi di pipistrelli, rospi e cuccioli lattanti.
– Me che schifo! Io sapevo che il virus del morbillo era stato trovato dentro l’intestino dei bambini autistici, al punto che i vaccini possono causare l’autismo…
– Tra l’altro. Ma ciò che è peggio è che adesso ci infilano pure feti abortiti, metalli pesanti e soprattutto microchip! Così possono controllare tutti i nostri comportamenti, ovunque ci ficchiamo!
– Ma tanto se non ci vacciniamo non possiamo andare da nessuna parte.
– Ma almeno non ti cambiano il Dna! Perché c’è pure questo rischio! Che ti curi per una malattia e poi te ne vengono delle altre.
– E no eh? Il mio Dna non voglio che me lo tocchi nessuno! E soprattutto non voglio che mi venga una trombosi! Che a quanto pare capita soprattutto alle donne!
– Ti ho detto che non volevo rimanere vedovo. I vaccini uccidono più del virus.
– Ma io non voglio nemmeno diventare pazza! Dobbiamo fare qualcosa.
– E cosa?
– Uscire, protestare, combattere! – schizza in piedi la giovane, sbattendo la testa contro l’abbaino.
– Tu mi sembri già pazza. Non serve a nulla ribellarsi. Questi ci hanno già fregato. Imponendoci il carcere duro a casa nostra.
– Ma non sai nulla tu! Sei solo strafatto di serie trash. Mentre fuori c’è un mondo che si batte per la libertà, per poter circolare come tutti gli altri anche se non vaccinati, per abolire il green pass o meglio per darlo a tutti!
– Ma sei fuori di testa? Il green pass è un altro strumento di controllo! Serve a schedare dove vai, cosa fai, che gusti hai! Io non mi sogno proprio di prenderlo, rischiando pure di essere manipolato, se non addirittura eterodiretto!
– Etero che?
– No, lascia perdere.
– Invece non lascio perdere il fatto che mi si impedisca di fare quello che mi pare solo perché si crede che sono contagiosa. Tanto hanno dimostrato che i contagi li trasmettono molto più i vaccinati che non quelli come noi.
– Appunto, lasciali contagiare tutti tra di loro, così si estinguono o si fanno gli anticorpi e poi noi, puliti, sani, integri, potremo finalmente uscire.
– Ma non mi va di marcire qua dentro!
– Vatti a fare una corsa sui prati, allora.
– No, ho bisogno di stare in compagnia, andare nei locali, divertirmi un po’! Non sono mica un orso come te!
– Male, perché in queste circostanze è utilissimo.
– E non sono nemmeno una persona imbelle! Me le voglio conquistare le cose! E ora è tempo di lottare per rivendicare i propri diritti! Qui c’è di mezzo qualcosa più grande di noi che ci vuole togliere la libertà… ogni via di fuga!
– Vabbè, quando ne hai trovata una mi fai un fischio?
– Sei il solito cinico. Ti caghi sotto solo perché hai paura di morire col vaccino, o peggio ancora di essere pilotato o trasmutato, ma non fai nulla per cambiare le cose! Mentre ora è tempo di prendere in mano la situazione! – scatta di nuovo in piedi la giovane, abbassando questa volta la testa.
– Ma se ci buttassimo un po’ a letto tutte e due, invece? La rivoluzione la possiamo fare pure più tardi.
Lei lo osserva dall’alto in basso un po’ interdetta. Poi getta lo sguardo sul letto, lo alza verso il lucernario e sospira.
– Perché mi poni sempre queste scelte difficili?
– Tra il mio corpo e il cielo?
– Tra le tue paranoie e il buon senso. Era meglio che ci vaccinavamo.
– Così saremo morti nel giro di due anni, come lo saranno tutti i vaccinati.
– Ma almeno in questi due anni avremmo vissuto da sballo.
– Vedrai come ci sballeremo nei prossimi anni, sopravvissuti all’epidemia da vaccinazione. Vieni piccola mia – il giovane allarga le braccia.
Lei per sfinimento si lascia cadere sulle ginocchia davanti a lui. Poi gli si
abbandona.
– Se però i vaccini debellano il virus ti ammazzo io.




Favola nera d’Europa

Favola nera d’Europa – Illustrata con dipinti di Otto Dix

C’era un tempo la piccola Europa,
che poi tanto piccola non era perché era l’unica al mondo.
Nel senso che a Ponente aveva solo mare a perdita d’occhio
e a Levante aveva solo terra illimitata e desertica.

Così cominciò ad allargarsi,
prima stringendo in una morsa tutto il Mediterraneo,
poi inoltrandosi nell’entroterra
verso altri mari del nord e altri monti dell’est.

Ma la piccola Europa, che intanto era diventata grande,
si era divisa in tanti piccoli stati
che gareggiavano a chi diventava più grande per mare e per terra.

Così si scatenarono guerre furibonde
per motivi politici, dinastici, religiosi
tra regni, nazioni, imperi che diedero vita
alla guerra degli hussiti e a quella dei boeri,
alla guerra dei cent’anni e a quella dei trent’anni,
alla guerra di devoluzione e a quella di successione,
alle guerre di religione e a quelle d’indipendenza,
alle guerre civili e a quelle dinastiche
alle guerre napoleoniche e a quelle jugoslave.

Ma la piccola Europa voleva diventare sempre più grande
e allora non si espanse solo nel proprio continente
ma si estese nel vicino Oriente e poi in quello medio e infine in quello estremo.

Poi puntò verso sud e si prese tutti i paesi sotto di sé,
dall’Angola alla Somalia, dall’Algeria al Congo,
dal Mozambico al Camerun, dalla Namibia alla Tanzania.

Ma il colpo grosso lo fece quando scoprì che dopo tanto mare verso ovest
c’era una terra lunga lunga che andava dal polo sud al polo nord,
così la occupò, la depredò, la colonizzò,
infliggendo schiavitù, stermini e distruzione.

Non contenta però la grande Europa arrivò a fare grandi guerre,
una più grande dell’altra, tanto che il grande paese dell’est
e il grande paese dell’ovest che ora aveva ai suoi lati
dovettero intervenire per liberarla da devastanti dittature.

E dopo due grandi sfracelli, con annessi orrori e genocidi,
il grande paese dell’est e il grande paese dell’ovest
non si fidarono di lasciare la povera Europa riprendere la carneficina
e allora la spaccarono in due metà e se ne presero una per ciascuno.

Ma in breve il grande paese dell’ovest
inglobò sempre più paesi sotto la sua protezione
e il grande paese dell’est sfondò i propri confini
per riprendersi le terre vicine.

Così la grande Europa, che intanto era tornata piccola piccola,
invece di difendere la pace per la quale si era unita
alimentò la guerra contro il grande paese dell’est,
contando di essere difesa dal grande paese dell’ovest.
Ma quello si era stufato, non aveva più mire espansionistiche
in altri continenti, ma solo nel proprio.

Tant’è che la piccola Europa,
terrorizzata che il grande paese dell’est la volesse invadere tutta
e il grande paese dell’ovest la volesse abbandonare a sé stessa
decise di armarsi fino ai denti,
per diventare anche lei un grande paese del mezzo
capace di battere il grande paese dell’est
facendo a meno del grande paese dell’ovest.

Ma per quanto si armasse,
per quanto costruisse missili e bombe,
per quanto si indebitasse per uomini e mezzi,
il grande paese dell’est non la invase
e il grande paese dell’ovest non la abbandonò.
Il primo la teneva sotto scacco con la minaccia dell’invasione territoriale,
il secondo la teneva sotto scacco con il controllo del monopolio economico.

Ma la piccola Europa ormai doveva consumare tutte le armi che aveva pagato
e non potendole usare fuori dai propri confini le rivolse al suo interno.

Così, sempre più piccola e sempre più divisa,
tornò a fare guerre tra nazioni e guerre tra popoli,
guerre tra contrade e guerre tra faide,
guerre di fede e guerre di razza,
guerre di quarantasette, ottantacinque, centodieci anni,
fino a ridursi in un immenso cumulo di macerie
che nessuno aveva più voglia di rimettere in sesto.

Infatti il grande paese dell’est e il grande paese dell’ovest
si misero d’accordo per non ricostruire più nulla.
Fecero della vecchia Europa una sconfinata terra di nessuno,
smilitarizzata e desertica, per evitare ennesimi disastri.

Ormai erano diventati paesi immensi e pacifici:
un continente di mezzo per sempre imbelle e neutrale
era sufficiente a garantire egemonia, prosperità e pace
alle loro incontrastate e impareggiabili autocrazie.

 




Questione di genere

QUESTIONE DI GENERE

Io volevo fare la donna di casa e la madre di famiglia. Non per vocazione, ma proprio per principio. Non mi piacciono le faccende domestiche, al contrario mi fanno venire l’orticaria. Adoro invece abitare la casa, espandermi in tutti i suoi recessi, possedere diversi angoli di rifugio, isolarmi dal resto del mondo e magari ogni tanto trovarvi qualcuno con cui avere a che fare. Non amo nemmeno la confusione, mi irrita l’eccessiva promiscuità, ma decisamente adoro i bambini. So divertirli, raccontargli storie, giocarci per terra. So capire i loro problemi, aiutarli a risolvere, entrarci in empatia. Ma forse perché non sono miei. Temo che se lo fossero non li sopporterei proprio. Ma chi lo sa poi, non ne ho avuti e non mi è mai capitato qualcuno con cui farli.
Perché il problema è proprio questo. Essere finita in una voragine tra due estremi. Da una parte gli impraticabili. Quelli intriganti, diabolici, maledetti, che hanno stoffa da vendere ma non la scuola per rispettarti e si servono di te a piacimento senza alterare alcunché della loro vita. Mariti fedifraghi o amanti indolenti il risultato non cambia: sposati che non si vogliono separare oppure liberi che non si vogliono legare si rimane comunque sospese a fare da riserva o da sollazzo. Dall’altra parte invece gli irrilevanti. Quelli papabili, disponibili, compiacenti che ti fanno il filo ma senza crederci, si aspettano qualcosa ma non si espongono, ostentano scaltrezza ma non hanno sostanza, tanto da farti passare ogni tipo di voglia. Hanno solo l’attenuante di non essere rovinosi, ma la loro inconsistenza li rende insopportabili, al punto da finire con l’evitarli.
Così, dopo essermi dannata con gli impraticabili e astenuta dagli irrilevanti, mi sono ritrovata a stare in casa senza fare la moglie e a intrattenere mocciosi senza esserne la madre. Precipitata in quel baratro tra estremi senza appigli né dislivelli, senza mediazioni né compromessi. Perché io mi sarei pure adattata a qualche sfumatura intermedia, che so, un marito in odore di separazione, un single con inclinazione al legame, un’anima semplice con un guizzo d’arguzia, un carattere eccentrico dotato di spirito critico, insomma un ibrido che potesse stemperare gli estremi canonici che da sempre dividono gli uomini in stronzi o in noiosi.
E invece no, questo non mi è stato dato in natura. Seppure, come diceva Churchill della democrazia, la mia condizione solinga è la peggiore che ci possa essere, eccezion fatta di tutte quelle che mi sono capitate finora. Dunque, dopo tutto, è sempre la migliore di quelle in cui mi sono imbattuta. Per cui di che lamentarsi? Considerando poi che le donne, dal canto loro, possono essere molto più tremende degli uomini. Perché troppe volte mi sono consolata di non essere un uomo proprio per non avere a che fare con una donna. Magari meno eccentrica ma più isterica, forse meno noiosa ma più stupida, senz’altro meno aggressiva ma più evanescente.
Così ho tirato innanzi a fare una vita che non era la mia, ad aspettare qualcosa che non accadeva, a confidare su qualcuno che non arrivava, a sognare una donna che non ero io. Certo, mi sono riuscita a difendere, ho fatto tesoro della mia solitudine, stato di grazia del mio isolamento, beatitudine della mia selvatichezza, senza tuttavia bastare a me stessa. E questo è stato l’intoppo, avvertire la necessità di un interlocutore, un volto, una voce, un corpo, una testa con cui avere a che fare, una testimonianza di esistenza che desse senso alla mia, un’interazione con un essere umano che facesse sentire più umana anche me. E questa irriducibile impellenza mi ha sempre fregato.
In fondo ho guardato ogni volta con stupore donne che prendevano e mollavano uomini come capi di abbigliamento, donne che ne potevano fare del tutto a meno e donne che non potevano staccarsene un attimo, donne che ne raccoglievano uno da piccole e se lo facevano bastare per tutta la vita, donne che ricominciavano ogni volta daccapo seppure deluse, percosse, umiliate.
Io però non sono mai riuscita a trovarmi in nessuno di questi stati, né distaccata né dipendente, né opportunista né subalterna. Ho fatto sempre a mio estro, come mi sentivo e come mi pareva, anche a costo di andare a sbattere il grugno. Ma almeno sapevo che me l’ero cercata da sola e non rischiavo di dare la colpa al malcapitato spacciandomi sempre come vittima o come eroina.
Perché è proprio questo che ho sempre detestato nelle donne. Non darsi mai altra opportunità che non fosse quella di non poter fare alcunché soccombendo al proprio destino, oppure che non fosse quella di reagire a ogni costo credendosi sovrumane. E siccome a me non sono mai piaciute né le disgraziate né le super eroine, sono finita col perdere i punti di riferimento, tanto da smarrirmi in un dedalo di trappole ogni volta che mi innamoravo. Per giunta senza neanche mettere a frutto l’esperienza del momento tanto da non ripetere gli stessi errori, anzi ricadendovi con più virulenza, soggiogata assai più dalle leggi della passione che non da quelle della ragione.
Eppure non nutro rimpianti, né rimorsi, né rancori. Anzi, rifarei tutto se mi capitasse la medesima sorte, se invece me ne capitasse un’altra chissà cosa potrei combinare. Come adesso, ad esempio. Avevo una gran voglia di rimettermi in gioco, una volta smaltite le ultime storie melodrammatiche che come al solito mi avevano ridotto in un’infinità di frantumi, uscendo di nuovo allo scoperto e cogliendo con ringiovanita scaltrezza quello che mi avrebbe offerto la vita. Fiduciosa in un cambio di passo, in un giro di ruota, in un punto di svolta che per destino mi sarebbe spettato. E invece no. Tutto l’opposto. Tra capo e collo è arrivata proditoria la pandemia.
Reclusione, quarantena, distanziamento, protezione, maschera anticontagio e pure antiapproccio, uscite mirate, giretti solitari, panchine proibite… quali condizioni peggiori per un incontro galante? Senza nemmeno più un cinema, un teatro, un concerto, un museo dove per azzardo trovarsi? Ma poi pensi che se non è successo per decenni perché mai dovrebbe capitare proprio adesso? In cui per altro sono tutti in paranoia per la costrizione domestica? Tutti meno me, naturalmente, che invece me la vivo come una pacchia insperata. Senza nessuno che mi rompa le scatole, facendo tutto quello che voglio, godendomi da sola l’intera casa, dando un senso alla vita come mi gira. E forse proprio questo mi ha salvato dall’immensa psicosi che ha contagiato tutti.
Complotti, persecuzioni, autoritarismi, guerre civili, regimi totalitari, colpi di Stato, una visionarietà così virulenta da far impallidire persino la pandemia. Solo perché è stato necessario stare alcune settimane in casa per contrastare il contagio. Roba che questa vita io la faccio da anni. Lo stato di quarantena per me è la routine. Solo che l’ora d’aria invece di farmela in un parco me la sono fatta intorno all’isolato. Per questo forse non sono sprofondata nel buco nero dei deliri collettivi che hanno contagiato tutti con più potenza del virus.
Seppure il vero segreto per salvarsi non era nemmeno nella tanto abusata resilienza, quanto nella insospettata creatività! Perché sarebbe bastato avere un po’ di inventiva per non farsi cogliere dall’ansia di sentirsi ostaggio di un regime assolutista, un po’ di scaltrezza per non sprofondare nell’ossessione di essere preda di complotti assassini, un po’ di fantasia per trovare le giuste strategie di sopravvivenza senza abbandonarsi all’esasperazione, come ho cercato di fare io, nell’inventarmi una vita a misura di quarantena fatta di poesia, musica, pittura, levità, ironia.
Così alla fine ne sono uscita incolume, ma sempre più solitaria e defilata, sociopatica e forastica, con la sensazione di essere una sopravvissuta in un mondo che ha dimenticato l’arte come motore di esistenza, la creatività come soluzione dei problemi, facendosi sommergere dalle paranoie dei nostri tempi che accecano ogni ragionevolezza, mortificano ogni immaginazione.
Mi è rimasta per la verità un’unica speranza. Quella che in tutto questo pandemonio si siano rimescolate un po’ di carte. Il virus è una brutta bestia, disorienta, confonde, sbaraglia, sconquassa. E i risultati possono essere diversi. Ma non mi aspetto grandi epifanie, a volte per spostare il corso di una vita basta un soffio. Tutta sta che spiri, per una buona volta, dalla parte giusta.