Ma di chi è la colpa?

L’interno del salotto di un’abitazione in un quartiere popolare di periferia. Un uomo è seduto in pigiama sul divano a leggere un giornale. Una donna è distesa su un tappetino poco distante a fare stretching. L’arredamento è essenziale, su un lato un tavolo da pranzo con delle sedie, sulla parete in fondo una libreria con più soprammobili che libri, sul lato opposto una parete che divide la sala dalla camera da letto.
– Te lo ricordi la guerra serbo-croata?
Lei si ferma e si mette seduta sul tappeto.
– Senti, già la situazione è difficile, ora cosa c’entra la guerra serbo-croata?
– No, dico. A un certo punto nemmeno gli avversari sapevano più com’era iniziato il conflitto. Ognuno dava la colpa all’altro di averlo iniziato per primo.
– E allora? Non mi sembra che questo abbia fatto una grande differenza.
– No. Però è sempre importante sapere chi ha iniziato per primo. Anche in questo
caso.
– Quale caso?
– Come quale caso? Il nostro!
– Vuoi dire chi ha avuto per primo l’idea di sposarci?
– Non fare la spiritosa. Questa è una cosa seria. Bisogna capire da dove è partito il
tutto.
– Ma dalla Cina, si sa. Tanto da lì parte sempre ogni infezione. Infatti circa ogni decina d’anni devono rompere i coglioni al mondo.
– Ma… non sempre parte tutto dalla Cina. L’influenza suina è partita dal Messico,
ad esempio.
– Già, l’eccezione che conferma la regola. Se è per questo ce la siamo presa pure con quei poveri crucchi per aver trasmesso il virus in Italia.
– Ma il punto è capire quale animale ha trasmesso il virus all’uomo. Ne hanno fatte tante di ipotesi. Quella più curiosa sembra che sia stato proprio il pangolino.
– No, senti, il pangolino proprio no!
– Perché no?
– Perché non mi sembra l’animale adatto per scatenare una pandemia del genere! È tutto corazzato di squame, si appallottola come un riccio ed emette pure acidi puzzolenti che lo fanno assomigliare più alle donnole o alle moffette!
– E solo per questo non potrebbe essere virulento?
– No, anche perché sono carucci e fanno tanta tenerezza.
– A beh, allora… peccato che la loro carne sia una prelibatezza per la cucina asiatica e le loro scaglie prodigiose per la medicina cinese.
– Ma che giornali leggi? Guarda che il pangolino è già stato superato da ben altre ipotesi!
– Va bene, va bene, chi te lo tocca il tuo pangolino!
– Prima sembrava che fosse partito tutto da un serpente, poi ormai l’animale più accreditato sembra essere il pipistrello…
– Solo perché è brutto e fa senso?
– Per i cinesi a quanto pare no, visto che ne fanno commercio anche nei mercati rionali.
– Comunque, se ti può consolare, pare che ora vogliano abolire il consumo di tutti gli animali selvatici.
Lei si alza dal tappetino e lo arrotola.
– E meno male, si sono decisi finalmente! Peccato che il virus intanto sia arrivato ai quattro capi del mondo.
– Beh, almeno non ci sarà una prossima volta…
– Senz’altro, anche perché se continua di questo passo mancherà la catena di trasmissione… Su andiamo a letto ora.
Lui esita un po’ sul divano.
– Ma che ci andiamo a fare, ormai non si può nemmeno più fare all’amore.
– Beh, tecnicamente si potrebbe. Sperma e mestruo non trasmettono il virus.
Lui si volta verso di lei con un lampo negli occhi.
– Allora magari.. potremmo anche un po’ darci sotto… che dici?
– No, perché solo sesso senza baci o umori mi fa tanto prostituta.
Lui si lascia andare sul divano, poi si alza a fatica.
– Ti stai proprio imbolsendo, sai? Se non fai un po’ di ginnastica come me diventerai flaccido.
– Detesto la ginnastica. Saprei io come tenermi in forma anche restando a letto…
– Dai su, che un altro giorno di arresto domiciliare è passato.
Entrambi passano nell’altra stanza e si mettono sotto le coperte.
– Allora buonanotte caro, io spengo subito la luce perché sono sfinita.
– Ma io non ho ancora sonno…
– Certo, non alzi mai le chiappe dal divano!
– No, è che ho troppi pensieri…
– Dai, tranquillo, andrà tutto bene.
– Vabbe’, se lo dici tu, andrà tutto bene.
Buio e silenzio totale per qualche minuto. Lei immobile come un sasso. Lui si rigira più volte sotto le coperte.
– Comunque non ci sono pubblicazioni internazionali.
Lei si volta assonnata verso di lui.
– Che cosa?
– No dico, non c’è nessuna letteratura scientifica.
– Ma di che parli?
– Beh… era solo una notazione a margine.
Lei accende la luce e si mette seduta sul letto.
– Ma ora che ti prende?
– Non lo so… forse è solo un mio vago pensiero…
– Ovvero?
– …..
– …..
– Ecco, volevo dire che…
– Che?
– Non c’è ancora nessuna attestazione accreditata a livello mondiale…
– Ma di che cosa???
– …..
– …..
– Che non sia stato il pangolino.

 




In memoria di Tiziana Zalla

METAMORFOSI DI UN PERSONAGGIO

“21-12-1981. Questa lampada un giorno ti illuminerà, e poi tu verrai a illuminare anche me! Infiniti auguri, Tiziana”. Così è scritto in un minuscolo foglietto arrotolato dentro un cannolicchio e infilato nel foro dello stoppino di una piccola lampada di vetro che Tiziana mi aveva regalato per il Natale del nostro ultimo anno di liceo. La conoscevo già da cinque anni, ma erano tutti davanti a noi gli anni migliori della nostra amicizia.

Credo che Tiziana fosse in assoluto la persona più metamorfica che abbia mai conosciuto. Tra tutti i miei amici e le mie amiche non ho visto nessuno che si sia trasformato ed evoluto più di lei, assumendo sembianze quanto mai diverse nel corso degli anni e sempre più sofisticate e interessanti. Al liceo era piuttosto introversa, sempre un po’ defilata e distante, eppure quanto mai attenta a quello che accadeva intorno e soprattutto arguta nelle riflessioni che esprimeva.

Ma è dopo la maturità che è davvero decollata, facendo un percorso piuttosto tortuoso, attraverso cui era partita da scienze politiche, per poi passare a lettere, infine approdare a filosofia della scienza per laurearsi in psicologia cognitiva e in ultimo specializzarsi in neuropsicologia a Parigi. Una vera e propria evoluzione intellettuale che ha compiuto passo dopo passo, ponderando tutti i passaggi, ricercando le migliori soluzioni ai suoi interessi e trovando gli adeguati sbocchi alle sue inclinazioni. Con una determinazione per altro sempre molto costante ma al contempo tutt’altro che semplice, che l’ha portata a lasciare il suo Paese per cercare altrove la sua strada, prima a Londra, poi negli Stati Uniti, infine a Parigi, dove si era posata ma senza mai fermarsi, rinnovando di continuo i propri studi.

Durante l’Università ci eravamo molto frequentate e scoperte assai più che al liceo, sotto i miei occhi emergeva una Tiziana quanto mai diversa e sempre più matura, padrona di un suo viatico che non era mai lo stesso, in cui si rimetteva sempre in discussione e alzava ogni volta la posta in gioco. Ero affascinata dalla sua metamorfosi, tutte le volte che ci parlavo mi sorprendeva. Ma è dopo l’Università che i nostri studi si sono di nuovo incrociati, e proprio sull’autismo: lei lo studiava dal punto di vista psicopatologico, io da quello antropologico, lei ne scriveva in modo scientifico, io in modo narrativo; spesso avevamo visioni diverse delle stesse dinamiche, ma proprio su queste distanze ci piaceva confrontarci, trovavamo molto stimolante lo scambio e non di meno divertenti le posizioni complementari in cui ci trovavamo.

Ma a Tiziana non bastava nemmeno lo studio, le interessava anche l’impegno nel sociale. Si era interrogata anche sulla sua situazione di ricercatrice italiana in Francia. E ha fatto anche di quello un suo scopo, occupandosi della collettività italiana a Parigi e diventando presidente del Comitato degli italiani all’estero nella sede parigina. Anche quella era una dimensione che le apparteneva e motivava molto il suo approccio alla realtà e le sue scelte di vita. Infaticabile, inafferrabile, Tiziana continuava per la sua strada senza mai contentarsi di quello che aveva, aggiungendo piuttosto nuovi traguardi al suo cammino.

Ricordo che quando mi annunciò che si trasferiva definitivamente a Parigi tra il serio e il faceto le dissi: “va bene te lo concedo, ma a una sola condizione, che tu debba tornare. Vai pure, ma presto o tardi torna! Mi raccomando torna!” La verità è che non volevo perdere un’interlocutrice preziosa come lei e che la distanza mi avrebbe imposto di frequentare assai meno. Ma Tiziana non è tornata, al contrario se ne è andata se si vuole anche più in là, in un altrove remoto che ha sorpreso un po’ tutti e al quale lei stessa non si è potuta sottrarre.

A me è rimasta quella piccola lampada di vetro con dentro il suo augurio natalizio di quasi quarant’anni fa. Non credo di averla mai illuminata di alcunché. Al contrario è stata lei ad avermi troppe volte sorpreso, con i suoi guizzi improvvisi, i suoi arguti pensieri, le sue trovate brillanti, ma anche con la sua profonda inquietudine, il suo turbamento insondabile, la sua imprevedibile suscettibilità. Un vero personaggio Tiziana, dalle infinite sfaccettature, che non era possibile cogliere fino in fondo e che la sua fine ha reso ancor più ineffabile.

A TIZIANA

Vorrei ricordarti così,
come ti ho sempre conosciuta
solare, intuitiva, vulcanica,
padrona delle tue forze e delle tue idee.

Eppure incline al dubbio, alla perplessità
all’incerta parvenza delle cose
che non hai mai smesso di indagare
nella tua indomita sete di ricerca.

Anima curiosa, indole incostante
hai cercato ovunque una tua strada
per soddisfare il tuo anelito a capire
anche l’essenza più profonda della vita

E in un certo senso l’hai trovata
nei tuoi studi, nei tuoi lavori
nondimeno nei rapporti con la gente
che hai saputo alimentare con pari dignità

Mi piace ricordarti dove ti incontravo
tra i banchi di scuola, nelle aule di università
tra le sale della biblioteca nazionale
nelle feste in casa degli amici.

Eri sempre tu, con i tuoi occhietti vispi
il sorriso irriverente, il piglio smaliziato
da cui si intuivano arguzia ed ironia
scaltrezza e intelligenza.

Sapevi donarti e sapevi ascoltare
senza risparmio di bontà e tenerezza,
ma sapevi anche batterti con ardimento
per difendere fino in fondo le tue idee.

E proprio questa mutevole natura
che ti ha sempre accompagnato nella vita
mi ha affascinato e incuriosito al punto
da essere il più bel ricordo che mi resta.

 




Trilogie imperfette – Dell’altrove e dell’essere

DELL’ALTROVE E DELL’ESSERE 

Giovanni I. Giannoli


Di una trilogia, o di una trilogia di trilogie, ciò che interessa ai cacciatori di senso non è la tripartizione, la struttura, quanto piuttosto l’unità. Vorrei dunque provare a dire quale possa essere il senso – ai miei occhi – dell’opera recente di Alessandra Fagioli, Trilogie imperfette; sempre ammesso che un senso principale si dia, in questo lavoro di Alessandra, piuttosto che molti.
Ma devo mettere le mani avanti: di mestiere, io mi occupo di concetti. Mi capita di valutare argomentazioni, di costruirne alcune, di discutere tesi: lo faccio, di norma, nel dominio dell’epistemologia, della logica, della filosofia della scienza. La letteratura non è strettamente il mio campo, se non per il fatto che vivo il mio tempo e cerco di coglierne i segni, negli ambiti in cui ciò mi riesce. Di certo, non padroneggio gli attrezzi della critica letteraria, i suoi canoni (ammesso che ne esistano) e la loro evoluzione. Dunque, non parlerò di questi aspetti.
Però, l’attenzione di chi fa il mio mestiere è continuamente sollecitata, in tutto lo svolgimento di questo lavoro di Alessandra Fagioli, da una costellazione di spunti e di riferimenti che ricadono nel mio ambito specifico di ricerca. Cerco di richiamarne alcuni; anche se, come dirò più avanti, non sta esattamente in questo ordito concettuale (in un confronto – per dirla esplicitamente – col razionalismo scientifico contemporaneo) il tratto caratteristico del libro di Alessandra, a mio parere almeno.
Già nelle prime righe del prologo, in un rapido accenno alla “perfezione” del numero tre (e alla sua – ahimè – “imperfezione”), appare un contrasto interessante: infatti, il numero tre non soddisfa i criteri che i matematici attribuiscono ai “numeri perfetti” (il fatto di essere uguali alla somma dei propri divisori); e, nonostante questo, un’illustre tradizione esoterica attribuisce a quel numero un valore particolare (una “perfezione”, appunto). Qui, dunque, il prologo di Alessandra sembra suggerire che nel lavoro che segue potremmo trovare un’opposizione del genere, più volte riaffiorante, tra le presunzioni del calcolo e la potenza sfuggente dei simboli, del sentire umano e dell’agire dei sapiens.
La prima scena della prima trilogia ricorda invece – nella sua struttura – qualcosa di analogo al “dilemma del prigioniero”: un caso esemplare e molto famoso, proposto e sviluppato da geniali matematici del Novecento, nell’ambito della cosiddetta “teoria dei giochi”. Il nocciolo del “dilemma” sta nel fatto che nella situazione proposta sembra cadere il cosiddetto “assioma di razionalità” (effettuare scelte che comportino il massimo beneficio collettivo, grazie alla mutua collaborazione tra i personaggi) e prevale invece il calcolo personale, con esiti catastrofici.
Nella seconda scena, si legge invece qualcosa che ha in qualche modo a che fare con la tragedia antica: col destino ineluttabile dei processi (e con la loro irreversibilità), anche quando gli eventi sono vissuti a ritroso, con la consapevolezza del presente. E, ancora, è centrale il tema dell’acrasia, cioè dell’agire secondo gli impulsi e gli affetti, piuttosto che secondo ragione.
Dalla terza scena, che conclude la prima trilogia, avverto l’insofferenza di Alessandra per un tema tipicamente post-moderno: la confusione tra il reale e il virtuale, il dominio incontrastato delle opinioni e delle credenze (culturali, politiche, religiose), che sono destinate a generare la morte.
Nella quarta scena (che apre la seconda trilogia), Alessandra assegna un carattere addirittura “diabolico” al pensare geometrico dei grandi architetti americani dell’Otto e del Novecento. Un viaggiatore in scena a questo punto rivela tutto il suo sgomento, di fronte alla maglia regolarissima delle avenue e delle street, nella metropoli americana, o all’elevazione sfacciata degli edifici che “grattano” il cielo, arditi e svettanti. In questa New York (curiosamente svuotata dalla sua vera essenza, cioè dall’incessante andare della gente) rivive il declino di Babele: di una “terra smarrita, piena di paradossi e contrasti […], labile come una chimera”.
Di contro, nella scena successiva, c’è una sorta di elogio del caos, presentato come qualcosa di ragionevole e di familiare; questo, per Alessandra, è ciò che emerge dal labirinto e dalla confusione incessante di una metropoli carica di storia e di confini, come Istanbul. I “paradossi strutturali” e “l’infallibile principio random” che governano quella città sono segni di vita, per Alessandra, e costituiscono un falsificatore evidente del secondo principio della termodinamica; della “morte termica” – più esattamente – che la fisica classica ha cercato di assegnare a tutti sistemi troppo complessi.
Il contrasto tra il peso della storia e l’aspirazione alla libertà (anzi, meglio: tra la tradizione e la creatività) prende invece le forme di un duetto tra Mosca e Leningrado (pardon: Pietroburgo), nella scena successiva. Non che l’autrice si lasci sedurre dalle lusinghe del “nuovo” e da quelle che hanno accompagnato la retorica storia del nostro Occidente: ma, di certo, non sembrano commuoverla affatto le occhiate nostalgiche, rivolte a un passato ormai smarrito (e tragico, pieno di lutti).
La terza trilogia inizia con una Lectio Magistralis grottesca, che è in definitiva una satira della filosofia “analitica” contemporanea, applicata a uno squallido dramma nostrano: il bunga bunga di Arcore. Anche in questo caso, l’esasperazione dell’analisi logica sembra del tutto incapace a cogliere i sensi più evidenti della realtà concreta.
Segue poi una “confutazione della gravitazione” (e delle leggi della genetica), che percorre l’ottava scena. Qui, c’è qualcosa che riguarda la circolarità attiva dell’autocoscienza, la retroazione della produzione mentale (dell’attività cognitiva) sulla mente stessa (sulla cognizione), esposta da Alessandra come una vera e propria rivolta dei suoi personaggi, alla loro stessa autrice.
Infine, nell’ultima scena (una “ballata pop”) c’è una denuncia della cultura corrente e dei nostri italici costumi, a proposito della crisi che morde ormai da molti anni l’Occidente.
Nell’Epilogo – dedicato al carattere “sublime” del proferimento scatologico – l’autrice (suo malgrado?) propone un tema veramente cruciale, che ogni epistemologo si trova ad affrontare, sempre: su quali dati inconfutabili si basano le nostre conoscenze?
Sul punto, che mi riguarda professionalmente, spendo qualche parola in più. Pierre Jacques Étienne, visconte di Cambronne (al quale viene attribuita l’espressione “merde!”, pronunciata come reazione a una richiesta di arrendersi) fu sconfitto con Napoleone a Waterloo. Nonostante la sconfitta, e il suo passato bonapartista, poco tempo dopo fu nominato visconte da Luigi XVIII e sposò Mary Osburn, una lady inglese molto famosa per la sua tempra morale. Dopo la morte di Pierre Jacques, lady Mary permise al Comune di Nantes di esporre un orologio del marito, che lei stessa dichiarò di avergli regalato il giorno in cui il visconte, sotto giuramento, aveva ammesso di non avere mai pronunciato quella parola, così cara ai teatranti. Dunque, il carattere “sublime” dell’espressione “merde!” potrebbe basarsi su una leggenda, su un fatto letterario, più che su un evento documentato e certo.
Però, come ho detto all’inizio, piuttosto che discutere di realtà e di finzione, di sensazioni e di calcolo, di verità e di leggenda, ragionando sul libro di Alessandra voglio dire qui altro.
Nella seconda di copertina, il libro rivendica la “declinazione dell’attualità” e la militanza, nella forma dell’“impegno civile”. Una lettura possibile potrebbe partire allora dalla seguente domanda: di quale contemporaneità ci parla questa raccolta di trilogie? E qual è mai il punto di vista, dal quale l’autrice racconta?
Se dovessi esprimere con una formula breve il carattere del libro, direi che si tratta di un’opera dialettica, il cui tema ricorrente è proprio la contraddizione. Una contraddizione, però, che non trova alcuna sintesi. Oppure, meglio: la sintesi (la pacificazione) è data soltanto dalla fuga. È una “sintesi” (se di sintesi si può mai parlare, quando si è di fronte a un esodo) che non si realizza mai nella fabula; ma – se mai c’è – avviene accanto e al di fuori di essa, in un dominio più rarefatto, di tipo estetico, edonistico, patico; e si tratta – in fin dei conti –di una fuga dagli umani, che ha un carattere (appunto) misantropico. Questa fuga ha anche un nome: un toponimo, che – nel caso in esame, per ragioni biografiche – è “isola d’Elba”.
Attenzione, però: questo locus amœnus non è affatto un tòpos, in senso proprio (cioè un luogo comune, o un tema ricorrente). È piuttosto un’Arcadia, una terra nella quale la natura naturale e quella specie-specifica dell’autrice (il suo essere un animale sociale, cognitivamente evoluta, figlia del proprio tempo) si compongono, fantasticamente.
Questa nostalgia dell’altrove appare, in modo esplicito, in diversi passaggi del libro: nella “ballata pop”, dopo l’evocazione di papa Francesco; nelle righe finali di “fuga dall’Ucraina” (dove la dialettica irrisolta tra Mosca e Pietroburgo, tra stabilità e radicalismo, tra tradizione e rivolta, si compone in una nostalgia dell’abbraccio, caloroso e catartico); nell’incontro degli sguardi (in un centro provvisorio di accoglienza) di due profughi bimbi: l’ipercinetica Maisa e l’autistico Uzochi, entrambi a-polidi, a-topici e a-tipici. E una nostalgia del genere appare perfino in quella soluzione scartata (a prezzo della morte) che sarebbe stata possibile, se i due protagonisti della prima scena fossero stati solidali tra loro, evitando la delazione e il tradimento.
Ma questa Arcadia-utopia cui l’opera rimanda è esattamente l’opposto dell’attualità che il libro esibisce, pagina dopo pagina, implacabilmente. Le dialettiche (o meglio le opposizioni) che Alessandra mette in mostra sono costituite in prevalenza da termini entrambi negativi. Allora, se dovessi qualificare questo punto di vista sotto il profilo filosofico, direi che l’approccio dell’autrice è dichiaratamente scettico. Uno scetticismo che non si compiace di se stesso (anzi, rimane critico, dando il segno della tenuta di presupposti etici), ma che non dà vie d’uscita terrene (a parte l’Arcadia, cioè l’empireo della natura de-storicizzata e delle anime pure): i credenti soccombono; e i non credenti rimangono sospesi o sopraffatti, nella loro fragilità e finitezza.
Un punto di vista radicalmente critico, dunque, che spazza via il post-moderno: tutta la paccottiglia di tesi e ideologie secondo le quali tutto è rivedibile, tutto dipende dai punti di vista, mentre il reale-reale e il reale-inventato si sovrappongono e si confondono. No: il bene e il male, il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, il bello e il brutto rimangono ben solidi, nella trama del libro. E che la prospettiva sia, per dirla in breve, post-post-modernista (o neo-modernista) traspare anche dai riferimenti testuali e dagli autori assunti in esergo: Mann, Conrad, Pirandello, Calvino, Pamuk, Bulgakov, Marquez, insieme a Turing e Einstein.
Ma qui si torna alla letteratura. E quindi, per scarsa competenza, ora mi taccio.




Trilogie imperfette – Il ritmo dell’utopia

TRILOGIE IMPERFETTE – IL RITMO DELL’UTOPIA

Pio Marconi
Sociologo del diritto

1. Trilogie imperfette è il titolo, scelto da Alessandra Fagioli, per il suo ultimo volume. Il titolo descrive l’architettura dei capitoli, con dottissimi riferimenti alla logica matematica, alla codificazione dei sistemi formali, alla teoria dei numeri, al senso della tripartizione. La lettura suggerisce anche un sottotitolo: Tempeste mediterranee. Nei racconti che compongono l’opera ricorre un ambiente di sfondo: onde, coste rocciose, arbusti, fusti resistenti, foglie coriacee, sabbie irregolari. È il Mediterraneo: una fessura di mare tra tre continenti, contornata da una folta boscaglia umida. Nelle pagine di Trilogie imperfette appaiono spesso immagini delle rive che delimitano il quadrilatero dei cetacei, un’area marina che bagna la Provenza, la Liguria, la Toscana, la Corsica, un’area nella quale una ricca varietà di balene vive e si riproduce, viaggia e si esibisce, sulla linea dell’orizzonte, in vanitose sfilate, al riparo da imbarcazioni che ostentano bandiera norvegese o giapponese. La costa è fatta di dirupi, di una sabbia granulare, prodotto di diversi minerali, sminuzzati dalla forza delle onde, mai resi impalpabili. È una sabbia che ospita un numero infinito di quarzi, “punti luce” quasi perfetti, o di dorate sfaldature di mica. Frammenti dotati di diversa luminosità, colore, trasparenza: la limpidezza del cristallo, lo splendore dell’oro. Nelle pagine di Alessandra si può respirare la salsedine mediterranea, quella costiera e quella del mare aperto, così come si può sentire l’asprezza del terreno in prossimità delle onde. Un composto di diverse consistenze nel quale pietraie levigate e blocchi di roccia si alternano con zolle fertili che ospitano una macchia odorosa ma a volte una vigna.

2. La trilogia che apre il libro è dedicata a corpi che vivono e che hanno vissuto la minaccia del Mediterraneo. Il primo racconto descrive i sentimenti di due fuggiaschi che non sono in grado di apprezzare il severo paradiso nel quale sono stati condotti dalle onde e da un’esistenza accompagnata da trasgressioni e sanzioni. Il secondo riproduce a due voci la fine di un amore. Un amore che perisce non per mancanza di affetto ma per sovraccarico di passione. «Non mi voleva né come amante né come amica, ma solo come donna da amare, senza limiti né riserve con tutto il trasporto possibile, a dispetto di problemi e di difficoltà, non importava chi fossimo o come vivessimo, esistevamo solo noi due». «Ma mi era difficile condividere una condizione così apodittica e perentoria». La terza narrazione è dedicata ai «bambini di Dio», bambini che vivono, soffrono, transitano per aree toccate dal Mediterraneo e tormentate da conflitti, ideologie, severità delle fedi. Alessandra ha il coraggio di descrivere, senza le autocensure dettate della correttezza politica, la condizione di ragazzini che non hanno mai potuto giocare per strada, ai quali è stato impedito anche l’andare a scuola. Per essi «non occorreva sapere leggere o scrivere, bastava mandar tutto a memoria ed essere bravi a sparare»; costretti ad uccidere dall’infezione dell’ideologia. Bambini indotti a rinunciare alla vita non solo in nome di un credo ma anche in conseguenza del genere al quale appartengono. Obbligati perché ascritti a un’identità, femminile, condannata da una cultura inumana al silenzio, alla subordinazione, al sacrificio.

3. L’ultima trilogia è dedicata alla descrizione della vita e dei conflitti che fermentano in un’area geografica proiettata sul Mediterraneo. Alessandra ricostruisce l’ipotetica lezione con la quale nel 2561 un illustre studioso prende congedo dalla comunità accademica narrando un’esperienza di ricerca condotta sull’Italia del 2011. John Hiding insegna Crittologia Protoclassica e ha lavorato all’interpretazione di ogni tipo di sistema destinato alla cifratura dei messaggi. Hiding ha già lavorato sull’Italia nello studio dei sistemi, non solo criminali, di comunicazione. Sistemi a volte fatti di frammenti cartacei: pizzini. Hiding riferisce alle autorità accademiche la difficoltà e lo stupore che lo accompagnano nel lavoro di interpretazione di un acronimo che contrassegna alcuni importanti faldoni di archivio relativi alla vita civile del 2011. «Una strana sigla formata da quattro lettere. R.U.B.Y.». Un algoritmo? Un cifrario monoalfabetico? Hiding sviluppa la ricerca, scava nella documentazione, apre polverosi fascicoli, trova tracce. Trascrizioni di intercettazioni. Raccomandazioni. Accordi. Immagini del privato. Dalla decrittazione dei frammenti emerge che capovolgendo lo slogan del ’68 (“il personale è politico!”) la politica si dedica, nel 2011, al disciplinamento del personale, alla codificazione dell’intimo. Ritagli cartacei testimoniano una diffusa indignazione. Grida di scandalo. Urla per oltraggi al comune senso del pudore. Nei materiali esaminati nessuna notizia sugli esiti della vicenda archiviata con la strana etichetta, R.U.B:Y. Hiding conclude con una ruvida informazione al suo uditorio. La sua esperienza di studio è nella sostanza fallita. Si era occupato, affascinato dai frammenti d’archivio, di senso del pudore e di acronimi, ma si era dimenticato della sostanza e della Storia. Non si era accorto di un dato non marginale per il lavoro al quale era votato. Nello stesso anno la penisola (che celebrava i 150 anni dell’unità nazionale) si era sfaldata in tre distinte sovranità: levantina al sud, cardinalizia al centro, efficiente e puntigliosa oltre la linea del Po.

4. Quest’ultima trilogia si chiude con un brusco cambiamento del genere letterario. Dalla prosa che era stata utilizzata nella forma del racconto, del diario, dell’orazione, della relazione accademica, Alessandra passa alla poesia e si misura con una «ballata pop» che descrive «i tempi della crisi», in un’area geografica e in un tempo specifico: l’Italia degli inizi del terzo millennio. Non c’è ironia nella scelta dell’Autrice. La ballata che può accompagnare momenti di gioia, di allegria, di ironia è stato un genere letterario al quale si è fatto ricorso per trasmettere il dramma, lo stupore. Con la scelta della ballata Alessandra suggerisce al lettore che la risposta a una crisi può venire da un movimento collettivo coordinato, ritmico, appassionato. La «ballata pop» descrive una degenerazione delle culture che sembra soffocare ogni speranza. Nella Capitale si è formata una terra di mezzo, un territorio fangoso di relazioni, di illeciti, di minacce che ha prodotto profonde alterazioni nella topografia dei poteri, nella cartografia dei bisogni, nella stratificazione dei ceti e degli interessi. Nella terra di mezzo è difficile distinguere l’osservanza dalla devianza, il sacrificio dal ladrocinio, la carità dalla rapina, il diavolo dall’acquasanta.

5. Alessandra descrive l’Italia e la Capitale del terzo millennio come un mondo capovolto nel quale principi e valori hanno cambiato in radice il significato. La morale è diventata premessa di estorsione. Il diritto precondizione di frode. La solidarietà veicolo d’arricchimento. I diritti delle genti motivo di un sudicio trafficare fra imprese. Questo territorio, per Alessandra è abitato da «gente pronta a tagliare la gola e a vendersi come puttane/sapendo bene che si lucra molto più sui negri che sui tossici». Un quadro terrificante. «Peggio di una piovra che ti attanaglia/di un tifone che ti sconquassa/di un conflitto che ti massacra./ Già perché in guerra cadono le bombe/ mancano i viveri, chiudono le frontiere/ma poi a un certo punto finisce./ La crisi no./ Anzi si dilata, si espande». La «ballata pop» è disperata ma non ha una conclusione disperata. Si chiude con un lampo di fiducia, con una speranza, con una proposta. «Io amo questo fottutissimo paese». «Un vero trauma per l’eccesso della bellezza. Tutta seni e golfi, coppe e valli/ indolente e capricciosa, svogliata e superba». C’è una premessa di riscossa. I «tempi della crisi» possono avere un termine. Il rimedio, se cercato, esiste. Constatata l’impotenza dell’etica, del diritto, dell’economia si può brandire un’altra arma. Quella dell’estetica, della bellezza, della creatività, dell’immaginazione e dell’armonia. Ancora qui il coraggio di Alessandra e il suo rifiuto della correttezza politica. Nel mondo capovolto, perfino accennare al bello sembra a volte vietato. Si preferisce parlare di “così detta” bellezza, di cose “diversamente” brutte. La bellezza per Alessandra va invece giudicata, valorizzata, può diventare arma di riscossa. La bellezza può essere in grado di elaborare un cambiamento, connotare un’utopia. «Meglio immaginare un altro mondo possibile piuttosto che contentarsi di quello che c’è./ Ma per farlo non serve lamentarsi o deprimersi,/ non basta incazzarsi o protestare,/ occorre immaginare, inventare, intuire./ Mai come nei momenti di strazio è indispensabile la fantasia,/ la capacità di osservare con altro sguardo le miserie del mondo,/ l’abilità di trasfigurare la mera realtà in simbolo, metafora, allegoria./ Servono i poeti per salvare il mondo non i banchieri». Alessandra non propone un partito (l’idea del Partito della bellezza è venuto a un bravissimo storico dell’arte che è anche un bravo politico) ma suggerisce di lavorare, in tanti, su di una utopia. Un mondo nuovo, di armonia e di equità, di stupore e di candore, in una terra «tutta seni e golfi, coppe e valli/ indolente e capricciosa, svogliata e superba./Non deve dimostrare niente a nessuno, basta a se stessa».




Quell’ultima parola

Quell’ultima parola

“Che cosa possiamo fare se non si può vendere niente,”
ripeté la donna.
“Per allora sarà già il venti gennaio,”
disse il colonnello, 
perfettamente cosciente,
“il venti per cento lo pagano quello stesso pomeriggio.”
“Se il gallo vince,” disse la donna. “Ma se perde.
Non hai pensato che il gallo può perdere”.
“È un gallo che non può perdere.”
“Ma supponi che perda.”
“Mancano ancora quarantacinque giorni
prima di cominciare a pensarci,”
disse il colonnello.
La donna si disperò.
“E nel frattempo che cosa mangiamo,” chiese,
e afferrò il colonnello per il collo della maglia.
Lo scosse energicamente.
“Dimmi, cosa mangiamo.”
Il colonnello ebbe bisogno di settantacinque anni,
i settantacinque anni della sua vita, minuto per minuto,
per giungere a quel momento.
Si sentì puro, esplicito, invincibile, nell’istante in cui rispose:
“Merda.”
Gabriel Garcìa Màrquez, Nessuno scrive al colonnello

 

Battaglia di Waterloo 1Aveva giurato e spergiurato, come Giuda, anzi no, come Pietro, negando a più riprese di aver mai pronunciato quella parola fatidica, e nemmeno frasi di sfida o di tetragona resistenza alla Reale Armata Britannica.
Giammai l’avrebbe potuto ammettere, non solo davanti ai commensali che gli tributavano omaggio con un sontuoso banchetto, ma soprattutto al cospetto della sua austera consorte, di sangue scozzese, che in cambio di un pretenzioso orologio, vacuo cimelio di glorie passate, gli aveva imposto senza riserve quel sacrilego, blasfemo giuramento.
Tanto doveva alla sorte che l’aveva tratto vivo da quell’inferno in cui forse avrebbe voluto morire, almeno per coronare quell’impeto d’orgoglio patriottico che lo aveva spinto a pronunciare l’immondo anatema, unico vero vessillo del suo coraggio; mentre ora per salvare l’onore (quale beffa più immeritata!), doveva negare tutto al cospetto del mondo.
Subendo per giunta anche lo scorno che quella frase grandiosa, destinata a segnare la Storia, almeno di quell’evento, fosse stata inopinatamente attribuita a quel Michel, uno dei tanti generali caduti sul campo, risarcito a suo modo da un riconoscimento postumo che era servito solo ad acquietare gli animi degli eredi. Né era valsa la testimonianza di un reduce del suo reggimento che a pochi metri l’aveva sentito parlare.
Battaglia di Waterloo 2Eppure non c’erano altri che si erano battuti fino in fondo in quel modo, sfidando un destino funesto che fin dagli inizi aveva mostrato tutta la sua avversione, a cominciare da quella pioggia infernale che aveva devastato il campo per tutta la notte, affondando i cannoni in metri di fango e rendendoli inservibili per attaccare all’alba il nemico, come avrebbe voluto l’Imperatore.
Solo verso mezzogiorno l’artiglieria era riuscita a sputare qualche palla sulle teste britanniche, quando però le colonne prussiane già avevano sferrato il loro attacco da destra, in barba al piano di intercettarle prima che arrivassero al campo, col risultato di decimare l’esercito imperiale che invece avrebbe dovuto fronteggiare gli altri avversari, dividendone i fronti.
Fu un massacro reciproco che durò più di otto ore, lasciando in sospeso fino all’ultimo l’esito dello scontro, ma il destino era già scritto nel vaticinio del nubifragio, calamitosa condanna per gli occupanti e segno augurale per gli alleati; tanto che giunti al crepuscolo, dopo un ultimo disperato attacco della Vecchia Guardia, pochi drappelli isolati erano rimasti a fare quadrato sotto il fuoco nemico.
Ma solo uno rimase a resistere a oltranza, quando ormai la legione era ridotta a un manipolo, la loro bandiera non era più che un brandello, i loro fucili ormai scarichi non più che inermi bastoni, al punto che gli stessi generali britannici rimasero esterrefatti nell’osservare tanto incaponimento, quasi atterriti dal fuoco sacro che scuoteva le viscere di quei sublimi moribondi.
Cambronne a WaterlooFu allora che si levò il grido pietoso:
– Granatieri, arrendetevi!
Ma ecco che quel generale di brigata, il più insignificante, una delle ultime pedine che avevano preso parte al conflitto, rispose stizzito:
– La guardia muore, ma non si arrende!
Allora fu fatto fuoco e il quadrato ruppe le righe per poi ricomporsi di nuovo. A quel punto gli inglesi, sempre più stupefatti, gridarono ancora:
– Granatieri, arrendetevi! Sarete trattati come i soldati più valorosi del mondo!
Ma il generale, ancora più indisposto di prima, rispose con maggiore veemenza:
– La guardia muore, ma non si arrende!
Sotto il fuoco nemico le righe si ruppero ancora, ma con quello che rimaneva riapparve di nuovo il quadrato. Allora fu il generale in campo dell’esercito inglese a intimare perentoriamente la resa:
– Per l’ultima volta: granatieri, non avete scampo, arrendetevi! Arrendetevi!
Fu in quel momento che a quell’uomo appiedato, a capo di un manipolo stremato da uno scontro impari, iniquo, emerse come un conato di vomito quella sublime parola, unico vero suggello all’infame proposta di aver salva la vita a fronte dell’onore di morire sul campo. Non fu nulla di meditato, né di prevedibile quando il generale, esasperato da quell’affronto a più riprese intimato, gridò:
– Merde!!!
Grandiosa parola, trascendente quanto liberatoria, che si levò al cielo sotterrando ogni possibile esito e riecheggiò in tutto il campo anche quando l’ultimo fuoco aveva inghiottito nel fumo ogni estremo sussulto di resistenza.