Prefazione alle memorie di Ivano Cipriani
Prefazione al libro di memorie di Ivano Cipriani, intitolato La gabbietta di Kafka. Memorie di un balilla rispettoso. 1926 – 1943, che attraverso il proprio vissuto affronta il fascismo, la guerra mondiale, fino all’armistizio e alla liberazione di Roma.
MEMORIALE DI UNA FORMAZIONE
Ci sono tanti modi di affrontare un’autobiografia. In genere si procede dalle origini per poi soffermarsi sui passaggi più salienti di una vita e giungere infine a un presente in cui si tende a tirare un po’ le somme di un’intera esistenza. Assai più inconsueto è invece concentrare le proprie memorie in un periodo circoscritto e per così dire “originario” del proprio vissuto, ovvero quello che dalla nascita procede, lungo un percorso di formazione, fino alla soglia della giovinezza, per concludersi proprio quando comunemente si inizia ad avere qualcosa da dire. Insomma quell’infanzia e quell’adolescenza che spesso sono consegnate all’oblio, quando non piuttosto mitizzate o viceversa condannate, a seconda delle “sensazioni” spesso controverse che di queste si conservano. Ivano Cipriani elegge invece i suoi primi diciassette anni di vita a paradigma di una storia degna di essere narrata nei suoi più infinitesimi particolari, iscritta a sua volta nella Storia più grande che si dipana in un arco temporale tra il 1926 e il 1943, attraversando il regime fascista, la guerra mondiale, fino ad arrivare all’Armistizio e da lì a poco alla liberazione di Roma.
Ma forse la dimensione più interessante di questo affondo in un passato remoto che intreccia sapientemente il piano privato dei ricordi personali con quello politico degli avvenimenti storici, lo scenario intimo delle proprie emozioni con quello sociale del destino di un popolo, è proprio la prospettiva attraverso cui viene narrata la storia di un bambino, e poi di un ragazzo, che cresce protetto da una gabbia di affetto e attenzioni familiari, che lo tutela a sua volta da una gabbia assai più efferata, quella costruita dal ventennio fascista, periodo che il protagonista attraversa quasi “ammantato” da un’insperata incolumità, un po’ come quel bimbo de La vita è bella di Benigni che riesce a superare quasi indenne la tragedia del lager grazie alla costruzione ludica e amorosa che il padre gli costruisce intorno.
In questa particolare atmosfera vengono richiamati alla memoria i protagonisti di quella generosa e amorevole famiglia in cui cresce il protagonista, le loro indoli e personalità, i loro aneliti e destini, così come vengono ricordati gli insegnanti e i compagni di scuola, i luoghi d’infanzia nelle colline toscane, gli spostamenti e le peregrinazioni, sempre sulla falsariga di una crescita all’insegna del rispetto di un regime fatto proprio attraverso una latente inconsapevolezza, che verrà violata quasi di colpo proprio dal crollo di quella gabbia storica, grazie a eventi cruciali come la liberazione e la fine della guerra, che spingeranno il ragazzo ormai cresciuto ad appropriarsi di una coscienza critica, assai più profonda e radicata di quanto non sarebbe avvenuto attraverso un processo più graduale.
Uno dei maggiori pregi di questa narrazione riposa inoltre nella lucidità e nell’esattezza con cui è costruita. Proprietà, come si sa, molto care a Italo Calvino, che qui vengono messe a punto non solo attraverso la capacità quasi chirurgica di andare a cogliere tanti particolari personali facendoli rivivere in pagine quanto mai intense, ma soprattutto attraverso l’abilità squisitamente dialettica di argomentare avvenimenti cruciali grazie a un approccio non tanto storiografico, quanto interpretativo, alla luce di una maturità sedimentata nel tempo, che stimola quanto mai alla riflessione e alla consapevolezza. Senza escludere di contro affondi prospettici, anticipazioni del futuro, in rigoroso corsivo, che aprono scorci fulminei su quello che verrà, lasciando intendere evoluzioni possibili in epoche posteriori, quasi un contrappunto sinfonico a una partitura squisitamente memoriale. Il tutto con un tocco puntuale, preciso, si direbbe cartesianamente chiaro e distinto, con una penna che come un bisturi seziona dettagli e particolari senza sbavature, attraverso uno stile adamantino, che non concede zone d’ombra né risvolti sospesi, piuttosto si mette a servizio di una lettura immediata, che va dritta al cuore delle cose, con la stessa urgenza di quel ragazzo che intuisce dentro di sé tutto il peso di una Storia, di cui riuscirà pienamente ad appropriarsi solo nel momento in cui romperà il suo guscio.
E proprio quel ragazzo che iniziò il suo processo di maturazione sullo sfondo delle rovine della guerra e nello slancio della liberazione dalla dittatura, ora è diventato un acutissimo (quasi) novantenne della cui saggezza, maturità e intelligenza ho la fortuna di beneficiare in qualità non solo di nipote (figlia del fratello della moglie), ma soprattutto di interlocutore privilegiato di tanti carteggi appassionati su quelli che ora costituiscono gli snodi cruciali della Storia; altre dittature, altre guerre, altri estremismi forse anche più efferati di quelli del periodo nazi-fascista, che dilacerano in particolare il mondo islamico, e che sono diventati fulcro di tanti nostri confronti, e nondimeno fonte di nutrimento e ispirazione per le mie stesse scritture. A questo anziano signore va dunque tutta la mia gratitudine, la cui matrice di uomo acuto e sensibile, colto e analitico si avverte appieno nella sapienza di queste sue memorie e si intuisce già in nuce in quel ragazzetto timorato e ossequioso, diligente e curioso che attendeva di spiccare il gran volo dalla sua gabbietta.
Mario era un uomo vorace. Artigliava la vita con voluttà, mirando al cuore delle cose, puntando dritto all’essenza. Era quasi infastidito dagli aspetti superflui, dai vani dettagli, gli erano solo d’impaccio e se ne liberava subito, senza pensarci. Era affilato, tagliente, non si preoccupava di poterti ferire, gli interessava solo di centrare il problema, buttartelo addosso, costringerti a una soluzione, qualsiasi prezzo avesse avuto. Non conoscevo nessuno tanto sfacciato da rimproverarti che le tue disgrazie pesassero ancora come macigni, che stentavi a risollevarti e che era ormai tempo di guardare altrove. All’inizio non lo capivo, o meglio facevo fatica ad accettare che qualcuno mi trattasse così, lo trovavo arrogante, presuntuoso, nessuno glielo chiedeva; poi però col tempo cominciai a intuire che dietro quell’apparente ruvidezza c’era un grande desiderio di generosità.
Ogni libro illustrato è un piccolo mondo a se stante, un racconto per immagini e testo chiamato ad evocare suggestioni profonde. Nel migliore dei casi, il risultato soddisfa tanto il pubblico infantile quanto quello adulto, toccando vette d’ironia o di poeticità sorprendenti. A chi vuole conoscerlo, si disvela allora un universo vario e raffinato, un ambito della creatività umana dove bravura e senso del gioco si conciliano e si combinano all’infinito. La sfida, per chi si misura con questo genere, è avere un tratto originale e riconoscibile, una cifra stilistica propria. Non è poco. E’ come acchiappare un gatto per la coda…
La ricerca del pensiero musicale nei labirinti della mente tra insidie e sorprese: motivazioni e necessità estetiche del gesto compositivo di ieri e di oggi. Il difficile percorso del compositore classico contemporaneo tra scelte poetiche, gabbie formali e costante confronto con linguaggi passati e presenti. Un’indagine intorno al ruolo di chi compone a fronte dell’indebolimento della sua funzione sociale e del sempre più arduo rapporto con il pubblico. Un viaggio tortuoso che illumina l’infaticabile ricerca di un linguaggio autonomo e originale in cui possano convivere passato, presente e futuro.
Una voce, un file, una voce di sintesi, un personaggio virtuale chissà?! In un epoca dove i generi a volte sono solo un nickname le avventure e disavventure di una donna che decide di sposarsi su internet e che vive un matrimonio virtuale molto simile a quelli reali sia nel bene sia nel male. Il matrimonio, i regali, il viaggio di nozze e l’amara scoperta che c’era un’altra donna non virtuale ma fatta di quella putrescenza di carne ed ossa. L’unica cosa che resta è la solitudine e un senso teatrale dell’esistenza.
Una ballata pop per narrare mafia capitale e i tempi della crisi, un carteggio tra due profughi ucraini (un ribelle filorusso e una Femen anti-Putin) per raccontare le contraddizioni della Russia odierna, un montaggio parallelo di storie di bambini (un boia, una kamikaze, un’altra scampata al gas sarin e un altro alle stragi di Boko Haram) per declinare i molteplici volti della Jihad. I diversi modi di narrare la crisi, la guerra, il terrore inventando storie che possano farsi metafora della realtà.
(…) La sua bellezza è naturalmente un mistero: possiamo pure ricorrere al barocco, all’atmosfera, alla composizione tutta depressione e alture del terreno, che le dà continue inaspettate prospettive, al Tevere che la solca aprendole in cuore stupendi vuoti d’aria, e soprattutto alla stratificazione degli stili che a ogni angolo a cui si svolti offre la vista di una sezione diversa, che è un vero trauma per l’eccesso della bellezza.
Egli, quella sera, era di una bellezza da potersi toccare come un oggetto: una luce dorata e minerale che splendeva all’interno del corpo, accendendo più la sua carne molle e tiepida che i suoi occhi. Sotto la lampada elettrica e contro il biancore delle lenzuola, le sue pupille erano divenute più cupe, trascolorando l’azzurro in un indaco velato di rosa. E splendevano, avide… Infatti io lo accarezzavo senza posa, giocando col suo piccolo corpo perfetto…
Sotto quest’unica parola si raccolgono i quattro volumi di poesie composte da Pasolini e suddivise in più di venti raccolte. Alcune davvero grandissime tanto da persuadermi che Pasolini sia stato soprattutto un sommo poeta (e non solo civile come voleva Moravia). Impossibile selezionare qualche poesia più significativa, anche perché sono perlopiù poemi piuttosto complessi, mi limiterò a citare solo un paio di epigrammi tratti da “La religione del mio tempo”, uno sul
Mi è impossibile non citare Supplica a mia madre, in dittici baciati, nella raccolta “Poesia in forma di rosa”, in cui Pasolini esprime la sua lacerazione interiore tra l’amore assoluto per la madre, che lo condanna alla “solitudine” e alla “schiavitù”, e quello per i “corpi senz’anima”, che gli fa sentire tutto il peso dell’esclusione e della diversità. Conflitto insanabile, che ha portato il poeta a incontrare la sua morte e la madre a sopravvivergli
Profeta e insieme primitivo, capace di intuire sviluppi quasi “futuribili” e al contempo di rifugiarsi in un mondo arcaico fuori dalla Storia, infaticabile sperimentatore di nuovi linguaggi e al contempo accanito ricercatore di una sacralità primordiale, sostenitore illuminato di un progresso sociale e politico e al contempo fustigatore impietoso di uno sviluppo consumistico, di questo e di altro parlerò con Enzo De Camillis nel presentare il suo film “U
Io non so dire quale per me sia il più bel film di Pasolini, ma so dire con certezza quale per me sia la sua più bella sequenza: la strage degli innocenti da Il Vangelo secondo Matteo. Lì dentro c’è tutto il suo cinema. I primi piani sui volti arcaici tanto ricercati da Pasolini nel Terzo Mondo, i campi lunghi sui sassi di Matera dove egli aveva ravvisato una Palestina autentica, assai più che in Terra Santa, le zoomate improvvise sul groviglio di mantelli, pugnali, fantocci nel caos dello scempio, l’esplodere della musica “sacra” di Bach a contrasto con la violenza del massacro, i versetti finali dal Vangelo declamati con solennità sui corpicini esanimi degli infanti. Pasolini era un autodidatta ma ha rifondato un linguaggio anche nel cinema, tanto da considerarlo una vera e propria lingua.
Nel marzo del 1966 a Pasolini venne una bella emorragia per un’ulcera duodenale. Mi direte, ora bisogna commemorare pure l’ulcera? No, l’ulcera nella sua essenza no. Ma nella sua conseguenza assai. Costretto un mese in ospedale buttò giù il progetto di tutte e sei le tragedie che compongono il suo teatro, per poi svilupparle nei mesi successivi. Opere estremamente allegoriche che rappresentano le molteplici coerc
Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo ricordi, frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni.
Dunque: indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione di denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come si usa dire, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono «selvaggio» delle campagne, responsabilità dell’esplosione «selvaggia» della cultura di massa e dei mass-media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre tutto il resto, magari anche distribuzione borbonica di cariche pubbliche di adulatori.
Ma insieme a questi Dei, quasi in sacra combutta per quella nottata, si sentiva anche la presenza di Dei sotterranei, di Demoni: era chiaro; quella notte così profondamente penetrata dall’odore dell’erba secca e del finocchio, così radicata a una luce lunare che sembrava inesauribile, caduta lì dal cielo per fondarvi una notte estiva e eterna, era demoniaca: ma non si trattava affatto di Demoni appartenenti a un Inferno dove si scontano condanne, ma semplicemente appartenenti agli Inferi, là dove si finisce tutti. Insomma, poveri Dei, che se ne andavano in giro lasciando dietro a sé il loro odore di cani, astuti e rozzi, sinistri e camerateschi, usciti dai loro simulacri di tufo, oppure di legno divorato dal sole e dalla pioggia, rendendo funebre l’intero mondo notturno, e il cosmo. Senza però né lutto, né dolore: poiché nell’essere funebre consisteva l’odorosa, silente, bianca, e perdutamente quieta e felice, forma della città notturna, dei prati, del cielo.
Muccino scrive su facebook che Pasolini era un “non” regista, che usava la macchina da presa in modo amatoriale, senza stile, aprendo le porte a quell’illusione che il regista fosse una figura accessibile a chiunque, intercambiabile e improvvisabile, promuovendo così un anti-cinema in senso estetico e narrativo in anni in cui il cinema italiano era cosa altissima e faceva da scuola di poetica e racconto in tutto il 
Il povero Pasolo