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BABEL O DELL’INCOMUNICABILITÁ

 

La trilogia sembra essere una soluzione stilistica assai amata da molti registi che desiderano misurarsi con un modello di componimento corale, a sfondo storico o fantastico, attraverso cui sviluppare una narrazione ad ampio respiro intorno a saghe, guerre, avventure, puntando a mettere a fuoco ambienti e personaggi in un affresco d’insieme. L’operazione tentata da Alejandro González Iñárritu sembra invece porsi su un piano più strutturale e semantico, piuttosto che su un articolato sviluppo di eventi, laddove il filo conduttore non scaturisce da fattori storici o immaginari, ma piuttosto da un gioco di incastri e di prospettive che moltiplicano i piani della narrazione attraverso gli effetti del domino o del mosaico.

Nel suo primo film Amores perros (2000) il regista aveva raccontato tre storie di vita ambientate a Città del Messico, connesse da un incidente stradale intorno al quale si incrociavano i diversi protagonisti. Octavio era uno sfaccendato che cercava di fare i soldi attraverso il combattimento tra cani per scappare con la cognata, ma fuggendo in auto dopo aver ucciso un rivale che aveva sparato al suo cane provocava un incidente. La modella Valeria era appena riuscita a coronare il suo sogno d’amore con un professore, che aveva abbandonato la famiglia per lei, ma veniva travolta dall’auto di Octavio e finiva per sempre su una sedia a rotelle. Il barbone El Chivo era stato incaricato di uccidere il socio di un manager, ma assistendo all’incidente salvava il cane di Octavio e poi decideva di cambiar vita per incontrare la figlia che era stata abbandonata da piccola. Tre diversi episodi, dunque, intrecciati in una struttura a mosaico, attraverso la quale si passava dalla violenza bestiale della lotta tra cani, all’operetta morale sull’infausto destino, alla meditazione filosofica sulle scelte di vita, dove ogni personaggio si trovava ad avere un progetto votato al fallimento.

Nel secondo film 21 grammi (2003) il regista aveva invece voluto raccontare la stessa storia secondo tre diversi punti di vista, rappresentati dai vari personaggi che convergevano sempre intorno a un incidente stradale. Paul era un professore di matematica in attesa di un cuore nuovo, che non sapeva se avrebbe fatto in tempo a ottenere prima di morire, mentre la moglie era decisa a tutti i costi ad avere un figlio da lui. Jack era uno sbandato che aveva messo la testa a posto grazie a un esaltato fanatismo religioso, che la moglie non capiva ma era disposta ad accettare pur di averlo di nuovo in casa e non più in prigione. Christina era una donna che si era realizzata nella famiglia, ma in seguito a un incidente in cui perdeva il marito e le due figlie precipitava di nuovo nell’abisso della droga, da cui era riuscita a fuggire quand’era giovane. Anche in questo caso una struttura a incastro intorno all’incidente provocato da Jack, in cui moriva il marito di Christina, il cui cuore salvava la vita di Paul, dove però la narrazione non veniva scandita in episodi, ma era riflessa da diverse prospettive, in cui confluivano i temi della speranza, della solitudine e del rimorso.

Ma solo nel suo ultimo film, che in un certo senso completa la trilogia sulla casualità intorno alla quale si incrociano destini contrapposti, il regista ha tentato un’operazione ancor più ambiziosa e sofisticata. In Babel (2006) le canoniche unità di tempo, luogo e azione vengono vanificate dal montaggio frenetico di quattro storie di vita, ambientate in Paesi quanto mai diversi e distanti tra loro: Marocco, Messico e Giappone. La scelta di queste location è stata dettata soprattutto dalla volontà di declinare un paradigma cruciale dell’esistenza umana nell’era della globalizzazione, ovvero quello dell’incomunicabilità. Che sia quella tra padri e figli, tra marito e moglie, tra turisti e autoctoni, tra clandestini e forze dell’ordine, tra udenti e sordomuti, l’incapacità di comprendersi viene declinata in tutte le sue forme, per evidenziare come ci si può sentire isolati in un villaggio berbero, sperduti in un deserto polveroso, incompresi in una metropoli caotica.

In questo film, tuttavia, le quattro storie non si intrecciano attraverso una struttura a mosaico, ma si relazionano a distanza in virtù di un effetto domino. Anche qui, se si vuole, il motore di tutta l’azione è un incidente: un colpo di fucile, sparato quasi per gioco, che innesta una serie di reazioni a catena in cui vengono coinvolti una coppia in crisi di turisti americani in viaggio nel Marocco, i loro due bambini condotti dalla bambinaia messicana nella sua terra d’origine, un armatore giapponese che aveva regalato il fucile a una guida marocchina e una famiglia berbera che aveva acquistato l’arma per uccidere i coyote. Con il risultato che in tutte e quattro le storie si sviluppa una fortissima carica drammatica condotta fino ai limiti dell’esasperazione, che tuttavia non arriva mai a tradursi in tragedia, al contrario riesce sempre a risolversi in una forma di riscatto.

La coppia smarrita di americani sottoposta alla durissima prova del ferimento di lei in totale assenza di mezzi di soccorso, in realtà ritrova se stessa proprio nella solitudine e nello stato di emergenza, finché non riesce a scongiurare l’esito fatale della vicenda. I loro bambini rimangono profondamente segnati dall’avventura messicana, ma grazie all’estremo sforzo della bambinaia sopravvivono all’esperienza del deserto e tornano agli agi della loro vita borghese con una maggiore consapevolezza del mondo oltre confine. La sordomuta giapponese, intenta a compensare con approcci sessuali la propria carenza affettiva, sembra perdersi in una deriva di alcol, droga e promiscuità, ma poi riesce a superare la rimozione del lutto della madre e a ristabilire un rapporto con il padre. Infine la coppia di fratelli berberi che nascondono al padre la responsabilità del colpo di fucile, provocano il crollo morale dell’intera famiglia basata su rigidi principi, finché il più piccolo non dà prova di coraggio e di maturità costituendosi alla polizia.

Insomma, laddove ci si aspetta la morte, l’abbandono, l’atto estremo, si trova invece la riconciliazione, la salvezza, la solidarietà. Ogni storia declina a proprio modo l’incapacità di comunicare, di capirsi e di rispettarsi, ma allo stesso tempo offre a ognuno la possibilità di riscattarsi, o comunque di trovare un nuovo equilibrio e un nuovo stato di coscienza. Cosicché un film sullo smarrimento esistenziale di alcuni soggetti che si trovano a lottare in contesti avversi, diventa un film politico che affronta temi di grande impegno civile, come l’arretratezza dei mezzi di sussistenza e l’estrema povertà in cui vivono gli abitanti dei villaggi berberi, la discriminazione razzista perpetrata nei confronti degli immigrati messicani lungo le linee di confine con gli Stati Uniti, l’alienazione esasperante della vita metropolitana giapponese che emargina ancora di più soggetti penalizzati come i sordomuti.

Aldilà degli intenti ideologici, politici e sociali, che rispecchiano le esperienze di viaggio vissute dal regista in quegli stessi Paesi dove ha in seguito deciso di girare il film, questa terza pellicola si distingue comunque dalle altre due proprio in virtù della sua particolare costruzione estetica e semantica. Innanzi tutto la scelta di un montaggio fortemente segmentato ha permesso di costruire un enorme mosaico dai richiami interni assai articolati, che hanno prodotto un incastro perfetto tra le diverse storie con implicazioni e risvolti spesso sorprendenti. Inoltre l’uso particolare della fotografia attraverso sottili differenze nella qualità delle immagini, come la grana della pellicola e la saturazione del colore, ha reso possibile la caratterizzazione dei diversi scenari, con relative ripercussioni sugli aspetti umani ed emotivi. Nondimeno il lavoro di ricerca svolto intorno alla colonna sonora ha portato all’individuazione di uno strumento guida come l’oud, antenato della chitarra spagnola e del koto giapponese, che ha permesso di unire ambienti e personaggi tra loro pur conservando una propria identità.

In questo modo, però, affinità e diversità, paralleli e contrasti, deserti di sabbia e giungle di cemento finiscono con lo svilupparsi attraverso un’intelaiatura visiva e sonora talmente controllata, da risultare a tratti troppo artificiosa, così perfetta da fare in modo che tutti i conti tornino, quando nei casi umani spesso non accade. Cosicché, per paradosso, il limite di questo film si manifesta proprio al culmine della sua riuscita, laddove nell’estrema ricerca espressiva si perde proprio quel senso di fallibilità dell’essere umano, che tanto egregiamente era emerso nel primi due film della trilogia. Come se, nell’estremo sforzo di mettere in connessione mondi paralleli naufragati nell’oceano dell’incomunicabilità, il regista avesse sacrificato l’aspetto più caduco e grottesco della vita a quello più edulcorato e conciliante. Come a dire, non c’è morte, né sconfitta, né condanna in questa umanità assoggettata a troppe incomprensioni, ma solo salvezza e redenzione.

 

 

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