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BIRDMAN O L’IMPREVEDIBILE VIRTU’ DELL’IGNORANZA

     Dal caos della morte alla crisi dell’ego. Il salto è grande e lo compie il regista messicano Alejandro González Iñárritu abbandonando la tematica principale che aveva attraversato tutti i suoi film precedenti – non solo la trilogia sceneggiata da Guillermo Arriaga (Amores perros, 21 grammi, Babel), ma anche Biutiful che della morte aveva fatto il suo paradigma -, per spingersi nel territorio magmatico di una personalità vulnerabile, ossessionata, contraddittoria che si dibatte tra un passato da divo di film blockbuster e un presente da attore caduto in disgrazia.

      Se infatti Uxbal, il protagonista di Biutiful, era un uomo che viveva di manodopera clandestina, con un cancro andato in metastasi, due figli minori a carico e una moglie affetta da bipolarismo (la cui parabola tragica trovava però nella sua forza d’animo il risvolto di un riscatto umano e sociale), Riggan, l’attore in crisi di Birdman, è un uomo scisso, perseguitato dalla voce del suo alter ego Birdman, che preme perché torni a fare il supereroe, e dalla presenza di familiari e colleghi che gli creano intorno un tale carosello di nevrosi e furori da minare ancor più la sua instabilità.

     Laddove dunque nel film precedente si sprofondava nell’abisso sempre più tragico della malattia, del degrado, della malavita, in quest’ultimo film ci si perde nel labirinto sempre più grottesco della finzione, della paranoia, del fallimento; seppure i due protagonisti si assomiglino assai più di quanto non sembri a cominciare dalle loro doti “paranormali”: Uxbal avverte il pensiero dei morti, Riggan sposta gli oggetti con lo sguardo, ma se il primo giganteggia su un mondo di miserie e disastri, il secondo soccombe sotto il peso di spettri e ossessioni.

     D’altra parte Iñárritu ha voluto fare uno scarto notevole rispetto alle tematiche consuete e al proprio modo di fare cinema; non più virtuosismi narrativi né drammi esistenziali, piuttosto la crisi di un’identità in chiave farsesca, in cui tuttavia viene posto l’accento su questioni estremamente serie, come la differenza tra celebrità e talento, laddove essere famosi non vuol dire per forza essere bravi, ma spesso il contrario, oppure come la differenza tra amore e approvazione, laddove non apprezzare l’operato di una persona non significa non amarla, semmai amarla per quello che è.

      Così la lacerazione interiore del protagonista scaturisce proprio da questo divario, l’aver avuto successo e sentirsi un fallito, l’esser circondato da affetti e non ricevere alcuna considerazione. Per questo cerca di sfidare se stesso nel buttarsi in un’impresa che è l’antitesi esatta di quello che ha sempre fatto: anziché il cinema più popolare basato su avventure fantastiche ed effetti speciali, il teatro d’impegno ispirato ai racconti di Carver Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Ma per dimostrare a se stesso di valere qualcosa deve fare i conti non solo con la vita, in merito alle sue rovinose relazioni familiari, ma anche con la scena, riguardo scontri e tensioni con colleghi e produttore. E il “parco umano” che si assembla intorno a lui è un vero crogiuolo di nevrosi.

      Tra i familiari c’è la figlia ex-tossicomane, sempre in cerca di amore e consolazione, sprezzante e logorroica, ciondola da un balcone e vagheggia il suicidio per noia. Poi c’è la moglie posseduta dal risentimento, sputa livore e spara sentenze, non perdona nulla al marito seppure è vulnerabile alla conciliazione. Ancora c’è l’amante, instabile e bugiarda, si inventa una gravidanza pur di artigliare il protagonista e conquistarsi l’attenzione che non riesce a ottenere sulla scena. Tra i colleghi c’è invece un’attrice frustrata, in costante polemica col mondo, aspira più che mai a calcare la scena di Broadway non essendo riuscita a realizzarsi altrimenti. Ancora c’è un altro attore talmente bravo che nella vita recita sempre mentre sulla scena mai, col risultato di esasperare chiunque col suo infernale carattere. Infine c’è l’amico produttore intento a mandare avanti tutta la baracca, tra furori e deliri, al prezzo però di diventare un mastino rabbioso che si infuria con tutti.

      Eppure la dimensione più interessante del film non è tanto quella psicologica, quanto quella sociale, che ingloba tutte queste derive esistenziali all’interno di un sistema ancora più nevrotico, segnato da quel “genocidio culturale” che ha massificato i consensi e omologato le coscienze grazie alla costante espansione dei social media. Col risultato di alimentare una crescente paranoia di contatti, visioni, consensi, adesioni che danno la misura di un successo tanto contagioso quanto aleatorio, affidato alla pura contingenza degli umori. Al punto che tutto si riduce a una condivisione estemporanea in cui ci si illude di comunicare con gli altri quando invece si sprofonda nel solipsismo più assoluto, articolato solo da universi autoreferenziali fine a se stessi.

      Così la strada finisce col diventare ancora più “finta” della scena, dal momento che se in quella si possono verificare fenomeni da psicodramma, in questa si può arrivare a fare anche sul serio, sparandosi davvero. È quello che infatti fa Riggan, alla prima dello spettacolo, ottenendo un successo insperato dopo tre anteprime da sfacelo. Come se l’incursione della “verità” nella finzione, a fronte di una realtà che si nutre solo di rappresentazione, faccia fare uno scarto allo spettacolo e persuada tutti della sua validità. Ma al protagonista non basta sopravvivere al tentato suicidio, si butta anche dalla finestra nel tentativo di emulare Birdman e dallo sguardo della figlia puntato verso il cielo sembra riuscirvi, ormai affrancato da tutti i suoi fantasmi.

      In questo modo il regista sembra voler inanellare più finali, nel tentativo di moltiplicare le interpretazioni in un gioco di rimandi interni che ribalta in continuazione le aspettative. In fondo il protagonista, sempre dibattuto tra il desiderio di riscattarsi come attore di qualità e la tentazione di emulare i poteri del supereroe, finisce col perseguire entrambe le cose, in un crescendo frenetico in cui si mescolano il mondo del teatro di prosa con quello del cinema di fantasy, il mondo della critica teso a sfatare i miti e a stroncare gli inetti e il mondo dello spettacolo intento a fabbricare divi e a produrre mode. Un audace contrappunto che non lacera solo l’identità dell’attore ma anche quella del sistema, ormai frammentato in un’infinità di opzioni che ne aumentano solo l’entropia.

    Ma aldilà della complessità dei temi che si rincorrono la vera statura di questo film è rappresentata proprio dal linguaggio. E curiosamente più dalla grammatica che non dalla sintassi. Nel senso che di montaggio c’è pochissimo, anzi è quasi negato, come a volersi distanziare il più che possibile dal découpage virtuosistico che aveva caratterizzato i film precedenti del regista, per dare spazio invece a tortuosi piani-sequenza che riprendono i protagonisti in un labirinto fatto da corridoi, scale, camerini, sartoria e backstage del teatro in cui si svolgono le prove dello spettacolo. Gli attori scivolano lungo budelli che sembrano inghiottirli o sputarli fuori, si accapigliano dentro spazi angusti in cui non riescono a stare, si intercettano attraverso frammenti di specchi e spiragli di porte. Il teatro diventa allora il luogo compresso dello scontro tra identità, nonché il setting analitico di conflitti irrisolti, in un’osmosi continua tra finzione e realtà.

      Eppure intorno, come si diceva, c’è anche il contesto sociale e dunque il set della strada, fatta di angoli e anfratti, ma anche il quartiere di Broadway, tempio per eccellenza del teatro musicale, ma anche la città di New York, quintessenza del gigantismo architettonico. E sempre fedele a un “discorso” con pochi stacchi Iñárritu passa dal fuori al dentro assimilando la macchina da presa alla continuità di uno sguardo che scivola sinuoso attraverso gli ostacoli, così come passa dalla notte al giorno salendo con l’obiettivo verso la cima di un grattacielo all’imbrunire e riscendendo verso il basso ai primi chiarori dell’alba, senza mai staccare l’inquadratura. Nondimeno in un unico piano sequenza riesce a seguire il protagonista mentre si fa strada nel labirinto del teatro per raggiungere un’uscita di servizio, poi mentre fa il giro in mutande di tutto l’isolato in mezzo a una folla in visibilio, ancora mentre rientra dal foyer per infilarsi in sala e salire sul palco dove concludere la propria performance, senza mai interrompere la ripresa che passa dall’interno all’esterno e poi ancora all’interno in una sorta di spericolato percorso circolare.

      In merito a questo film è stato più volte ricordato il cinema di Altman. A cominciare dalle storie ispirate a Carver (America oggi), per continuare con l’uso dei piani sequenza (I protagonisti), per finire con la derisione del mondo dello spettacolo (Nashville, Radio America). Ma aldilà di questi richiami senz’altro significativi Birdman non appare un film altmaniano, non intreccia tante storie parallele ma ne segue solo una fino all’ossessione, non frammenta i vissuti mescolandoli tra loro ma compatta le scene ripetendo anche le stesse, non offre una molteplicità di punti di vista ma relaziona i diversi personaggi a un unico protagonista. Insomma Birdman ha un’unità di azione, o se si vuole un tema di fondo, che non ne fa un film corale, ma piuttosto una storia sull’ego o sul doppio semmai, la cui operazione più curiosa rimanda a una forma di metacinema. Perché l’interprete di Riggan/Birdman è Michael Keaton, che ha raggiunto la celebrità proprio con Batman, e l’interprete dell’attore bizzoso è Edward Norton che ha rifiutato la parte di Hulk dopo aver litigato con la produzione. Dunque un gioco di richiami tra ruoli e personalità che allude ad altri film.

    Non a caso anche la recitazione degli attori è altrettanto ardimentosa ed enfatica come i movimenti di macchina e i raccordi spazio-temporali. I personaggi sono spesso sopra le righe seppure molto compresi nel loro ruolo, non di rado i dialoghi sono lunghissimi, animosi quanto pacati, mentre il protagonista è sempre accompagnato da un “tema” di fondo segnato dal rullo convulso della batteria, presente come motivo diegetico nello stesso film, che si rivela essere un contrappunto perfetto alla sua schizzata personalità.

      Nel virtuosismo sperimentale di questo film non mancano infine gli effetti speciali. D’altra parte il gioco costante tra verità della finzione e inganno della realtà non poteva escludere l’incursione del film fantastico, quello del supereroe, nel film realistico, quello dell’uomo in crisi. Così negli “affacci” del protagonista sulla strada, mentre vaga con il suo alter ego che gli soffia sempre sul collo, appare quella “pornografia apocalittica” da blockbaster fatta di esplosioni, mostri, armi, prodezze e levitazioni che esaspera ancor più il contrasto con la dimensione da Kammerspiel consumata dentro il teatro. Ma solo così Riggan può sentirsi Birdman e l’interprete di Carver allo stesso momento, nell’estremo anelito di dare unità alla propria doppiezza.

    Insomma un film molto audace che segna senz’altro la maturità del regista, seppure questo sperimentalismo spinto quasi all’estremo ha indubbiamente un suo prezzo. Innanzi tutto nel rischio di precipitare da quello stretto crinale lungo cui il regista si avventura nello slancio di dire troppe cose, di evocare più finali, di esasperare la maestria tecnica. In secondo luogo nel sacrificio della narrazione in quanto tale, sia filmica che d’intreccio, alla quale Iñárritu sottrae non solo una tessitura articolata di storie ma soprattutto il montaggio come generatore di senso. Ovvero l’esatto opposto di ciò che aveva fatto nel suo sodalizio con Arriaga, rinnovando sempre forme originali, dal racconto di storie diverse intorno a un unico evento, al racconto della stessa storia secondo punti di vista diversi, al racconto di quattro storie indipendenti che si influenzano a distanza. Sembrano passati anni luce da quei momenti, eppure c’è da augurarsi che la sperimentazione del linguaggio non finisca col surclassare la profondità della narrazione e che questo regista così interessante possa recuperare anche quel “pathos” narrativo che ha reso statuari i suoi film.