Questione di genere

Io volevo fare la donna di casa e la madre di famiglia. Non per vocazione, ma proprio per principio. Non mi piacciono le faccende domestiche, al contrario mi fanno venire l’orticaria. Adoro invece abitare la casa, espandermi in tutti i suoi recessi, possedere diversi angoli di rifugio, isolarmi dal resto del mondo e magari ogni tanto trovarvi qualcuno con cui avere a che fare. Non amo nemmeno la confusione, mi irrita l’eccessiva promiscuità, ma decisamente adoro i bambini. So divertirli, raccontargli storie, giocarci per terra. So capire i loro problemi, aiutarli a risolvere, entrarci in empatia. Ma forse perché non sono miei. Temo che se lo fossero non li sopporterei proprio. Ma chi lo sa poi, non ne ho avuti e non mi è mai capitato qualcuno con cui farli.
Perché il problema è proprio questo. Essere finita in una voragine tra due estremi. Da una parte gli impraticabili. Quelli intriganti, diabolici, maledetti, che hanno stoffa da vendere ma non la scuola per rispettarti e si servono di te a piacimento senza alterare alcunché della loro vita. Mariti fedifraghi o amanti indolenti il risultato non cambia: sposati che non si vogliono separare oppure liberi che non si vogliono legare si rimane comunque sospese a fare da riserva o da sollazzo. Dall’altra parte invece gli irrilevanti. Quelli papabili, disponibili, compiacenti che ti fanno il filo ma senza crederci, si aspettano qualcosa ma non si espongono, ostentano scaltrezza ma non hanno sostanza, tanto da farti passare ogni tipo di voglia. Hanno solo l’attenuante di non essere rovinosi, ma la loro inconsistenza li rende insopportabili, al punto da finire con l’evitarli.
Così, dopo essermi dannata con gli impraticabili e astenuta dagli irrilevanti, mi sono ritrovata a stare in casa senza fare la moglie e a intrattenere mocciosi senza esserne la madre. Precipitata in quel baratro tra estremi senza appigli né dislivelli, senza mediazioni né compromessi. Perché io mi sarei pure adattata a qualche sfumatura intermedia, che so, un marito in odore di separazione, un single con inclinazione al legame, un’anima semplice con un guizzo d’arguzia, un carattere eccentrico dotato di spirito critico, insomma un ibrido che potesse stemperare gli estremi canonici che da sempre dividono gli uomini in stronzi o in noiosi.
E invece no, questo non mi è stato dato in natura. Seppure, come diceva Churchill della democrazia, la mia condizione solinga è la peggiore che ci possa essere, eccezion fatta di tutte quelle che mi sono capitate finora. Dunque, dopo tutto, è sempre la migliore di quelle in cui mi sono imbattuta. Per cui di che lamentarsi? Considerando poi che le donne, dal canto loro, possono essere molto più tremende degli uomini. Perché troppe volte mi sono consolata di non essere un uomo proprio per non avere a che fare con una donna. Magari meno eccentrica ma più isterica, forse meno noiosa ma più stupida, senz’altro meno aggressiva ma più evanescente.
Così ho tirato innanzi a fare una vita che non era la mia, ad aspettare qualcosa che non accadeva, a confidare su qualcuno che non arrivava, a sognare una donna che non ero io. Certo, mi sono riuscita a difendere, ho fatto tesoro della mia solitudine, stato di grazia del mio isolamento, beatitudine della mia selvatichezza, senza tuttavia bastare a me stessa. E questo è stato l’intoppo, avvertire la necessità di un interlocutore, un volto, una voce, un corpo, una testa con cui avere a che fare, una testimonianza di esistenza che desse senso alla mia, un’interazione con un essere umano che facesse sentire più umana anche me. E questa irriducibile impellenza mi ha sempre fregato.
In fondo ho guardato ogni volta con stupore donne che prendevano e mollavano uomini come capi di abbigliamento, donne che ne potevano fare del tutto a meno e donne che non potevano staccarsene un attimo, donne che ne raccoglievano uno da piccole e se lo facevano bastare per tutta la vita, donne che ricominciavano ogni volta daccapo seppure deluse, percosse, umiliate.
Io però non sono mai riuscita a trovarmi in nessuno di questi stati, né distaccata né dipendente, né opportunista né subalterna. Ho fatto sempre a mio estro, come mi sentivo e come mi pareva, anche a costo di andare a sbattere il grugno. Ma almeno sapevo che me l’ero cercata da sola e non rischiavo di dare la colpa al malcapitato spacciandomi sempre come vittima o come eroina.
Perché è proprio questo che ho sempre detestato nelle donne. Non darsi mai altra opportunità che non fosse quella di non poter fare alcunché soccombendo al proprio destino, oppure che non fosse quella di reagire a ogni costo credendosi sovrumane. E siccome a me non sono mai piaciute né le disgraziate né le super eroine, sono finita col perdere i punti di riferimento, tanto da smarrirmi in un dedalo di trappole ogni volta che mi innamoravo. Per giunta senza neanche mettere a frutto l’esperienza del momento tanto da non ripetere gli stessi errori, anzi ricadendovi con più virulenza, soggiogata assai più dalle leggi della passione che non da quelle della ragione.
Eppure non nutro rimpianti, né rimorsi, né rancori. Anzi, rifarei tutto se mi capitasse la medesima sorte, se invece me ne capitasse un’altra chissà cosa potrei combinare. Come adesso, ad esempio. Avevo una gran voglia di rimettermi in gioco, una volta smaltite le ultime storie melodrammatiche che come al solito mi avevano ridotto in un’infinità di frantumi, uscendo di nuovo allo scoperto e cogliendo con ringiovanita scaltrezza quello che mi avrebbe offerto la vita. Fiduciosa in un cambio di passo, in un giro di ruota, in un punto di svolta che per destino mi sarebbe spettato. E invece no. Tutto l’opposto. Tra capo e collo è arrivata proditoria la pandemia.
Reclusione, quarantena, distanziamento, protezione, maschera anticontagio e pure antiapproccio, uscite mirate, giretti solitari, panchine proibite… quali condizioni peggiori per un incontro galante? Senza nemmeno più un cinema, un teatro, un concerto, un museo dove per azzardo trovarsi? Ma poi pensi che se non è successo per decenni perché mai dovrebbe capitare proprio adesso? In cui per altro sono tutti in paranoia per la costrizione domestica? Tutti meno me, naturalmente, che invece me la vivo come una pacchia insperata. Senza nessuno che mi rompa le scatole, facendo tutto quello che voglio, godendomi da sola l’intera casa, dando un senso alla vita come mi gira. E forse proprio questo mi ha salvato dall’immensa psicosi che ha contagiato tutti.
Complotti, persecuzioni, autoritarismi, guerre civili, regimi totalitari, colpi di Stato, una visionarietà così virulenta da far impallidire persino la pandemia. Solo perché è stato necessario stare alcune settimane in casa per contrastare il contagio. Roba che questa vita io la faccio da anni. Lo stato di quarantena per me è la routine. Solo che l’ora d’aria invece di farmela in un parco me la sono fatta intorno all’isolato. Per questo forse non sono sprofondata nel buco nero dei deliri collettivi che hanno contagiato tutti con più potenza del virus.
Seppure il vero segreto per salvarsi non era nemmeno nella tanto abusata resilienza, quanto nella insospettata creatività! Perché sarebbe bastato avere un po’ di inventiva per non farsi cogliere dall’ansia di sentirsi ostaggio di un regime assolutista, un po’ di scaltrezza per non sprofondare nell’ossessione di essere preda di complotti assassini, un po’ di fantasia per trovare le giuste strategie di sopravvivenza senza abbandonarsi all’esasperazione, come ho cercato di fare io, nell’inventarmi una vita a misura di quarantena fatta di poesia, musica, pittura, levità, ironia.
Così alla fine ne sono uscita incolume, ma sempre più solitaria e defilata, sociopatica e forastica, con la sensazione di essere una sopravvissuta in un mondo che ha dimenticato l’arte come motore di esistenza, la creatività come soluzione dei problemi, facendosi sommergere dalle paranoie dei nostri tempi che accecano ogni ragionevolezza, mortificano ogni immaginazione.
Mi è rimasta per la verità un’unica speranza. Quella che in tutto questo pandemonio si siano rimescolate un po’ di carte. Il virus è una brutta bestia, disorienta, confonde, sbaraglia, sconquassa. E i risultati possono essere diversi. Ma non mi aspetto grandi epifanie, a volte per spostare il corso di una vita basta un soffio. Tutta sta che spiri, per una buona volta, dalla parte giusta.




Le frontiere più estreme dell’autoscatto

COME CI SI PUÒ AMMALARE O MORIRE DI SELFIE

Spiegatemi la grandezza di scalare l’Everest,
ti sforzi, muori dal freddo, arrivi in cima e non c’è niente,
neanche una rete 3G per twittare un selfie.
Anonimo

  1. Dal Selfie Alphabet alla “selfite”

     Non importa dove, non importa quando, non importa come. L’importante è esserci. E per poterlo fare occorre provarlo. L’autoscatto attesta una presenza esclusiva, testimonia un’identità inquivoca, veicola l’unicità del proprio sé nella rete, attribuendone un riconoscimento e determinandone un’appartenenza. Se il selfie ha un senso in quanto postato sui social, il mostrare se stesso non è più una rappresentazione di ciò che si crede di essere o di ciò che si vuole far credere di essere – secondo gli “immaginari” individuati da Roland Barthes[1] – ma diventa altresì una testimonianza di esistenza, quale che sia, che richiede la diffusione in rete per essere certificata (attraverso like, espressioni emotive, commenti verbali, condivisioni).
1Naturalmente i social sono pieni di immagini che riproducono paesaggi, monumenti, animali, persone, oggetti, qualsiasi presenza che possa attestare un proprio esserci nel mondo in qualità di testimone, attribuendo in questo modo alla fotografia quel duplice ruolo di “possesso” e di “consumo” che ne designa la valenza di riproduzione e di immortalità secondo Susan Sontag[2]. Eppure la documentazione di esperienze o avvenimenti – che siano viaggi, azioni, cerimonie, ricorrenze – sembra perdere la propria autorevolezza se il soggetto della “ripresa” non si fa oggetto della stessa, al punto che il proprio sé finisce col surclassare tutto il resto, rendendo spesso irrilevante ogni contesto o occasione che lo giustifichi.
Esserci, dunque, sopra ogni cosa. E naturalmente farsi apprezzare e condividere. Ma il selfie non è solo un modo per attestare se stessi, per richiedere conferma oppure conforto a seconda del proprio grado di autostima. Il selfie è comunque una forma di esibizione che anziché neutralizzare un certo narcisismo, al contrario lo potenzia. È vero, Narciso basta a se stesso, si incanta da solo di fronte alla sua immagine riflessa, non ha bisogno di mostrarsi, né tantomeno offrirsi ai giudizi degli altri, la sua contemplazione è solitaria, si consuma nel suo sguardo e si spegne nello stesso riflesso che non riesce a catturare. Ma anche nel selfie c’è auto-contemplazione. L’immagine del sé viene catturata (riprodotta) e diffusa (immortalata) non solo per esibirsi al mondo, con i relativi riscontri amplificati nella rete, ma anche per continuare a specchiarvisi nelle sue molteplici risoluzioni senza struggersi perché svanisce nell’acqua. Così anche una scarsa autostima può generare compiacimento, anche un’insicurezza profonda può provocare l’innamoramento del sé, perché il social non è solo condivisione, ma anche archivio, non è solo una vetrina collettiva, ma anche un album singolare, cosicché ci si può sempre ammirare nella memoria infinita dei propri selfie.
2Solo che la storia non finisce qui. Se la presenza virtuale nel web attraverso l’autoscatto – per esserci, per mostrarsi, per esibirsi, per contemplarsi – attesta comunque una dimensione identitaria, sia pure fittizia o truccata o alterata, la sua evoluzione porta alla frantumazione di tale identità, messa a servizio di particolari, situazioni, animali che ne determinano il significato.
È possibile così declinare quasi tutto l’alfabeto per definire i vari hashtag dedicati ai selfie, a cominciare dalle parti di corpo. Non più allora il volto intero, semmai il profilo migliore (#helfie, da half selfie), o solo le gambe, di solito sdraiate in bikini (#lelfie, da leg selfie), o le unghie delle mani dopo una manicure perfetta (#nelfie, da nail selfie), o le acconciature dei capelli quanto mai eccentriche (#helfie, da hair selfie), o ancora il fondoschiena, tonico o flaccido che sia (#belfie, da b-side selfie). Ma ci sono anche i torsi nudi maschili, non per forza muscolosi (#shirtless selfie, senza maglietta), o i seni di donne intenti ad allattare (#brelfie, da breast selfie), oppure certe espressioni come la lingua di fuori (#tongue-out selfie), o le labbra a becco di papera (#duck selfie). Sempre riguardo il corpo ci sono poi i fashion selfie (#felfie) che mostrano capi di abbigliamento, o i wellness selfie (#welfie) che evidenziano la cura del corpo, o ancora i gym selfie (#gelfie) che esaltano i muscoli fatti in palestra.
Ma la mania dell’autoscatto si estende anche alla presenza di animali, domestici o di fattoria, persino pelouche, e gli hashtag dedicati a loro sono molteplici (#alfie da animal, #delfie da dog, #relfie da reindeer, renna, #pelfie da pet o pelouche, #felfie da farm, animali di campagna). Mentre altre tipologie di autoscatto vengono contraddistinte dai luoghi in cui vengono fatte, eminentemente in bagno (#telfie da toilette e #melfie da mirror), oppure davanti a dipinti o a statue (#museum selfie), o peggio dietro a bare di parenti (#funeral selfie), per non dire alla guida di auto o di moto in corsa (#driving selfie). Non mancano però i selfie a letto dopo aver fatto sesso (#aftersex) oppure appena svegli, o quelli a tavola con il cibo nel piatto prima di mangiarlo, o quelli con smorfie e facce varie in foto tessera, o quelli che riproducono vecchie foto, o quelli in stile nerd, casual, nature, coatto, meditato, sfatto, o ancora i video selfie (#velfie), per non dire dei selfie al selfie in cui l’autoscatto si eleva al quadrato nel riprodurre a sua volta un autoscatto.
Dunque una vera epidemia febbrile, trasmessa per contagio o imitazione, che raggiunge forme ossessive in base alle mode del momento e si organizza secondo un preciso codice di hashtag, tanto da aver fatto parlare di “selfite”, una sorta di affezione articolata in tre fasi – iniziale, acuta e cronica, in base a quanti selfie si fanno e si postano al giorno – che tuttavia non sembra avere alcun fondamento scientifico. In realtà non c’è nessuno studio che attesta una patologia legata al selfie, seppure ci siano diverse forme di abuso che possono condurre a dipendenza, frustrazione, condizionamento, inadeguatezza, autoreferenzialità. Tutto sommato più un disagio che un disturbo, più un eccesso che una malattia… fino a quando però il gioco non si fa duro.

  1. Dal Selfie Olympics al selfie estremo

    Prima si sono formati sui social gruppi pubblici e privati di selfie games. Perlopiù autoscatti di facce buffe, espressioni divertenti, piccoli camuffamenti del volto, con nasi o orecchie da animale, con cappelli o occhiali esagerati, insomma una serie di varianti giocose del selfie che di rado si estendevano a tutto il corpo o a parti di corpo. Poi però sono subentrate le pose curiose e le situazioni azzardate che hanno messo in scena delle vere e proprie gare di esibizioni più o meno acrobatiche, assurde, ridicole, imbarazzanti.
3La condivisione in rete è diventata competizione virale e sono sorti i selfie olympics organizzati anch’essi in pagine e in hashtag di facebook, twitter e instagram. Il luogo privilegiato per queste gare olimpioniche si è rivelato proprio il bagno di casa (soprattutto perché c’è lo specchio che permette anche i selfie riflessi), con le varianti della cucina, della camera da letto o dello sgabuzzino. Nell’ambito delle diverse prestazioni si sono poi evidenziati veri e propri generi: i selfie koala arrampicati sulla porta, in equilibrio sui pomelli, in bilico sull’anta; i selfie nudi sospesi nel vuoto sopra la vasca o sopra il letto; i selfie rannicchiati dentro il forno o il camino o il frigorifero; i selfie acrobatici su tricicli, skateboard, sedie impilate, oppure rovesciati sottosopra, puntellati sulle pareti, a penzoloni dalla finestra; i selfie con oggetti ingombranti in spazi ristretti come una canoa o un tagliaerba o un’automobile a pedali; i selfie in cui si cucina con le piastre sul lavello o vi si mangiano dentro gli spaghetti; i selfie in cui si celebrano messe o funerali in bagno travestiti da monaci o santoni; i selfie con parodie di allenamenti e prestazioni ginniche sempre dentro la toilette; i selfie con effetti ottici di specchi all’infinito e di piani prospettici che rimandano a più scene; i selfie mascherati da supereroi con simulazioni di prodezze ridicolizzate.
Insomma una casistica infinita di posizioni, prestazioni, effetti speciali, combinazioni, simulazioni, messinscena dissacranti, sfide, provocazioni, eccessi, parodie. Il tutto dentro l’intimità della propria abitazione, che si trasforma tuttavia in un habitat surreale in cui ogni cosa è possibile, proprio nell’intento non solo di esibirsi per quello che si è ma soprattutto di stupire per quello che si è in grado di fare attraverso soluzioni sempre più audaci, ridicole, assurde.
Così da un piano di autoreferenzialità realistica, che rimanda appunto a una propria identità “corretta” semmai da apposite applicazioni per risultare ancora più “ideale” secondo determinati modelli, si passa a un piano di performance esibizionistica che rinvia a un’identità alterata da una serie di prove che piuttosto dissacrano la realtà, ne rovesciano le funzioni, la spingono verso una deriva di nonsenso e paradosso.
Cosicché il riprodursi e il diffondersi in rete attraverso competizioni “olimpioniche” non è più un atto per cercare conferme del proprio sé o per compiacersi dei propri ritratti, non è nemmeno una smania di imitazione che porta a emulare altri modelli, o un’ossessione compulsiva che induce a rappresentarsi in varie forme; diventa piuttosto una spirale contagiosa che porta a sfidare nuove frontiere performative, in cui non conta tanto l’esserci ma il fare, non la propria identità ma la propria prestanza, non il proprio volto anonimo ma la propria prodezza personalizzata.
Eppure ci si può spingere ancora più oltre. Basta fare un salto dall’interno all’esterno, lasciando gli spazi asfittici delle toilette o quelli ancora più restrittivi dei forni per quelli vertiginosi dei grattacieli o per quelli adrenalinici delle rotaie e il gioco è fatto: si approda all’universo pericolosissimo del selfie estremo.
4I pionieri sono stati gli scalatori di grattacieli, torri, ponti, statue, tralicci e quant’altro potesse dare il senso di verticalità vertiginosa che si era raggiunto. Tutti autoscatti con lo sfondo del vuoto che si ha sotto i piedi per siglare una prodezza che non appaga per la vista che si può godere dall’alto, ma per la vista di sé che si può dare sull’orlo del nulla. Le varianti dei selfie “aerei” sono poi quelle scattate in caduta libera col paracadute, o da diversi velivoli sporgendosi fuori dalla cabina, o sospesi nel vuoto attaccati a funi o a cavi, o quando non addirittura nello spazio.
Ma non c’è solo il cielo da sfidare, anche in mare si possono fare selfie estremi con balene e pescecani, o quando si è travolti da un’onda con il surf, o buttandosi a precipizio da una cascata o semplicemente stringendosi addosso un coccodrillo. Seppure le fiere predilette da abbracciare per un wild selfie rimangono i leoni, le tigri, gli elefanti come fossero animali domestici, quando invece non ci si vuole immortalare mentre si scappa rincorsi da tori o da orsi inferociti.
Eppure la vera sfida del pericolo nel ritrarsi in situazioni temerarie si misura soprattutto attraverso atti sconsiderati, come restare sulle rotaie fino a poco prima che il treno sopraggiunga, o arrampicarsi sui piloni dei cavi ad alta tensione, o usare per scherzo armi da fuoco o bombe a mano, o semplicemente mettersi in posa quando si corre alla guida di auto o di moto, o ancora in circostanze catastrofiche come incendi, esplosioni, naufragi, attentati, ecc.
Quando però il mostrarsi per esistere si fa anche a rischio della vita allora i tratti comportamentali di oggettificazione del sé possono assumere tendenze psicotiche, laddove non si ha più la percezione di un reale pericolo e si è posseduti dal bisogno di superare se stessi. Nel suo testo La vita quotidiana come rappresentazione[3] Erving Goffman mette ben in luce la tesi secondo cui si diventa se stessi solo mettendosi in scena per gli altri, tanto che per potersi affermare occorre mostrarsi a un pubblico che valuti cosa si è capaci di fare. E il selfie estremo sembra proprio avvalorare questa necessità di certificazione a qualsiasi costo, anche a quello della vita. Nell’inalienabile dimensione virtuale del social in cui tutto si può simulare, morire davvero appare così l’unico modo autentico per rendere reale la propria rappresentazione, perché nulla come la morte può attestare la propria esistenza.

  1. Dal “selficidio” al Safe Selfie

     In India tre ventenni di Nuova Delhi sono morti tra le rotaie mentre cercavano di farsi un selfie sui binari con un treno in arrivo, senza riuscire a salvarsi in tempo per via della velocità del convoglio. In Russia un adolescente è morto nella regione del Ryazan per aver toccato i fili dell’alta tensione mentre cercava di farsi un selfie arrampicandosi sul ponte di una ferrovia. Altri due ragazzi russi sono saltati in aria sui monti Urali mentre si facevano un selfie tenendo in mano una granata nell’atto di innescarla. Una ragazza moscovita si è sparata un colpo in testa per errore mentre si faceva un selfie puntandosi la pistola alla tempia. In una stazione di Barcellona un quindicenne è morto per una scossa elettrica alla testa dopo essersi fatto un selfie con l’asticella sul tetto di un treno merci. Un altro cittadino spagnolo è morto brutalmente incornato mentre tentava di farsi un selfie rincorso dai tori. Un turista giapponese è precipitato mentre era intento a scattarsi un selfie in cima al tempio indiano Taj Mahal. Una sedicenne italiana è scivolata per lo stesso motivo dalla rotonda di Taranto schiantandosi sulla scogliera sottostante. Anche una coppia di turisti polacchi è volata giù da un dirupo per farsi un selfie panoramico in Portogallo.
6Alle decine e decine di morti fulminati, travolti, esplosi, precipitati, sempre nell’intento di immortalarsi in condizioni estreme, si aggiungono poi le numerose vittime dei driving selfie, scattati alla guida di veicoli in corsa non badando alla strada. Gli incidenti provocati per sbandamento di auto e di moto a seguito di distrazioni da selfie hanno raggiunto anche in Italia, soprattutto nella zona del napoletano, un’incidenza tale da annoverare il selfie alla guida come un pericolo stradale alla stessa stregua della droga e dell’alcol.
Naturalmente considerare questi episodi di decesso per selfie estremo solo come un risultato di prodezze avventate significa banalizzare il fenomeno. Anche perché non si tratta di casi isolati, negli ultimi anni si parla di più di un centinaio di morti e feriti per la pratica dell’autoscatto in condizioni pericolose e la cosa non può essere ascrivibile solo ad atteggiamenti comportamentali. Non rendersi conto di correre il rischio di morire, o peggio ancora sfidare volutamente quel rischio anche solo per rendere “straordinaria” un’esperienza banale come una vacanza denuncia una pulsione psicotica ad andare oltre se stessi, facendo qualcosa di eccezionale che possa diventare memorabile, proprio per evadere dalla finzione o dalla routine. Insomma una tendenza inconscia di superare l’alienazione quotidiana o di infrangere la dimensione virtuale anche a costo della propria vita che alcuni psicologi hanno definito col termine di “selficidio”.
Al punto che in Russia, dove il fenomeno ha raggiunto una rilevanza statistica data la pratica particolarmente diffusa di performance pericolose per autocelebrarsi, il Ministero dell’Interno ha lanciato una campagna contro i selfie temerari, divulgando una guida intitolata Safe Selfies per orientare all’autoscatto sicuro. Oltre a moniti come “un selfie con un’arma può uccidere” o “una foto estrema rischia di essere l’ultima” o “un selfie figo può costarvi la vita”, la campagna di sensibilizzazione si basa anche su volantini, video, suggerimenti, cartelloni ispirati alla segnaletica stradale che raffigurano divieti di autoscatto con arma da fuoco, in prossimità dei binari, vicino a belve feroci, arrampicati su ponti o tralicci, alla guida di autoveicoli, ecc.[4]
5Anche in Italia la Polstrada insieme alle Asl Napoli 1 e Napoli 2 ha tenuto una serie di seminari per sensibilizzare i giovani a non fare selfie mentre si guida tanto quanto non far uso di droga o di alcol, con una campagna “no selfie – no drink – no drug” che mette appunto sullo stesso piano di pericolosità l’autoscatto con le sostanze psicotrope, soprattutto dopo la diffusione del «Periscope», l’applicazione di video-live collegata a twitter che permette di mandare in diretta tramite cellulare qualsiasi filmato ovunque ci si trovi.
Insomma il selfie trattato come una sostanza che può dare dipendenza, tolleranza o assuefazione, che può alterare l’attività mentale, lo stato di coscienza o il comportamento, che può spingere a simulare atti estremi (come puntarsi addosso una pistola o fingere di innescare una bomba) o a affrontare prove rischiosissime (come scalare tralicci di cavi ad alta tensione o sostare sui binari al sopraggiungere di un treno), tanto da essere combattuto attraverso politiche di controllo e di sicurezza a livello nazionale.
Ma il risvolto più paradossale di tutti, in questo gioco di messinscena con la morte, è che per contrastare incidenti e decessi sono state studiate anche nuove applicazioni per simulare la condizione da selfie estremo, in modo da effettuarlo senza viverlo, attraverso sfondi fittizi o circostanze ricostruite che possano restituire l’audace impresa senza aver corso alcun rischio. Così la situazione estrema che si cercava per rendere ancora più “vera” la propria rappresentazione viene risolta in modo “virtuale”, tornando a quella finzione di partenza che si voleva tanto scongiurare.
È il circolo vizioso del selfie perfetto: più si cerca di farlo veritiero più diventa innaturale, più si cerca di rappresentare se stessi più ci si mostra altro da sé. E forse è proprio in questo gioco di rimandi interni che si annida la vera ossessione per l’autoscatto: Narciso muore struggendosi perché non riesce a riconoscere che l’immagine riflessa di cui si è innamorato è la propria (non essendosi mai visto), il “selfista” invece si danna, quando non muore, perché non riesce a far riconoscere agli altri l’immagine ideale di sé (pur essendosi mostrato all’infinito).

[1] R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino, 2003.
[2] S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino, 2004.
[3] E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 1970.
[4] Si vedano i siti www.travelblog.it o www.blitzquotidiano.it, campagna russa e guida contro il selfie estremo.

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O l’Elba o morte. Non solo mare.

O l’Elba o morte. Perché l’isola non sia solo natura ma anche cultura e possa valorizzare tutte le sue ricchezze, anche quelle meno immaginabili. Non solo Cavoli e la Biodola ma anche il Volterraio e Forte Falcone. Non solo rocce a picco e acqua cristallina, ma anche festival, corsi e avvenimenti.

1“O Roma o morte”, diceva Garibaldi in occasione della partenza dei garibaldini dalla Sicilia per risalire la penisola fino a raggiungere Roma e liberarla dal potere temporale della Chiesa, solo due anni dopo la spedizione dei Mille. Perché all’epoca combattere per la libertà di un popolo e per l’unità del Paese era una questione di vita o di morte.
Così quando penso all’isola delle mie origini, cui sono legata da un sentimento ancestrale, mi viene da dire “O l’Elba o morte”, tanta è la mia dipendenza fisica e la mia affezione morale che mi rende quel luogo inalienabile. La mia stessa identità appartiene all’isola, non saprei immaginarmi senza di lei, al punto che non vivendoci vi ho lasciato la parte più profonda di me, l’anima. Cosicché le appartengo come può appartenere un corpo a un’anima. E questo non vuol dire viverci, vuol dire amarla aldilà del proprio vissuto.
3Ma anche l’isola ha un’anima, assolutamente irriducibile. E quell’anima non è rappresentata solo dalla sua intrinseca bellezza. Perché l’Elba non è solo natura. Non è solo gli splendidi paesaggi. Non è solo la mirabile sinfonia tra mare, cielo, spiagge, monti, boschi, paesi. Non è solo l’arte di certi affreschi o l’archeologia di certi ruderi. L’Elba è anche una dimensione esistenziale, fatta di pensiero, sensibilità, passione, umanità e soprattutto cultura. Non solo perché vi hanno vissuto e operato tanti artisti e tanti autori, ma perché vanta tradizioni di festival musicali, eventi teatrali, rassegne cinematografiche, incontri culturali, premi letterari da far invidia a tante metropoli che non soffrono l’isolamento del mare.
Tutti fenomeni che nutrono il tessuto umano e sociale dell’isola e ne alimentano anche il turismo e l’economia. Per questo la cultura dovrebbe essere tanto preziosa all’Elba quanto lo è la sua natura, proprio nell’ottica di caratterizzarne l’identità attraverso l’interazione tra i diversi comuni e non il loro antagonismo competitivo. Una cultura che possa valorizzare l’intero territorio e non sprofondare in ottusi particolarismi o in sterili polemiche. E naturalmente una cultura non fatta solo di eventi ma anche di formazione, condivisione, scambio, apertura.
5Credo nel mio piccolo di aver apportato un contributo allo sviluppo culturale dell’isola conducendo l’anno scorso dei corsi di scrittura creativa a Portoferraio rivolti sia agli isolani che ai villeggianti, così come quest’anno terrò altri incontri sempre sulla scrittura presso le scuole di Marciana Marina in modo da coinvolgere direttamente la popolazione studentesca. Ed è un vero piacere per me portare la mia esperienza qualificata in contesti diversi da quello metropolitano, proprio perché ho potuto constatare che esiste un grande interesse da parte della popolazione isolana nel mettersi in gioco e confrontarsi con altre realtà.
Per questo a mia volta sogno un’Elba in cui rifugiarmi non solo per perdermi nel suo mare, per trovare ristoro al corpo e per ricongiungermi con l’anima. Sogno anche un’isola in cui non veda l’ora di arrivare per partecipare a iniziative, assistere a spettacoli, collaborare a progetti. Sogno un’isola per la quale varrebbe la pena di morire non solo per rivedere il suo mare, che comunque già mi appartiene, ma per conoscere cose che altrove non potrei trovare. Questo è il mio sogno “risorgimentale”, dove un’isola possa prendermi non solo il cuore ma anche la mente.




Gli Orti delle Arti – Percorsi d’Autore


Quattro incontri sulle sperimentazioni artistiche dei linguaggi contemporanei tenutesi a novembre e dicembre 2015 presso gli Orti di Trastevere, per approfondire dei percorsi individuali nell’ambito della musica, del disegno, del teatro e della narrativa, nell’intento di creare possibili dialoghi tra le diverse forme espressive.

Locandina Orti delle Arti

Daniela Tordi, illustratrice – Dentro e fuori l’albo illustrato. Viaggio tra creatività e comunicazione – Mercoledì 18 novembre

Alessandro Murzi, compositore – I treni inerti. Indagine palindroma sul pensiero musicale – Martedì 24 novembre

Vittorio Pavoncello, drammaturgo – Una donna virtuale. Nuovi personaggi per le scene del futuro – Mercoledì 2 dicembre

Alessandra Fagioli, scrittrice – I bambini di Dio. Abissi e visioni del racconto civile nell’era del terrore – Giovedì 10 dicembre

In Via Orti di Trastevere 59, ore 18.00

 

DENTRO E FUORI L’ALBO ILLUSTRATO. VIAGGIO TRA CREATIVITA’ E COMUNICAZIONE

Daniela Tordi, illustratrice

L'albo illustratoOgni libro illustrato è un piccolo mondo a se stante, un racconto per immagini e testo chiamato ad evocare suggestioni profonde. Nel migliore dei casi, il risultato soddisfa tanto il pubblico infantile quanto quello adulto, toccando vette d’ironia o di poeticità sorprendenti. A chi vuole conoscerlo, si disvela allora un universo vario e raffinato, un ambito della creatività umana dove bravura e senso del gioco si conciliano e si combinano all’infinito. La sfida, per chi si misura con questo genere, è avere un tratto originale e riconoscibile, una cifra stilistica propria. Non è poco. E’ come acchiappare un gatto per la coda…

 

I TRENI INERTI. INDAGINE PALINDROMA SUL PENSIERO MUSICALE

Alessandro Murzi, compositore

I treni inertiLa ricerca del pensiero musicale nei labirinti della mente tra insidie e sorprese: motivazioni e necessità estetiche del gesto compositivo di ieri e di oggi. Il difficile percorso del compositore classico contemporaneo tra scelte poetiche, gabbie formali e costante confronto con linguaggi passati e presenti. Un’indagine intorno al ruolo di chi compone a fronte dell’indebolimento della sua funzione sociale e del sempre più arduo rapporto con il pubblico. Un viaggio tortuoso che illumina l’infaticabile ricerca di un linguaggio autonomo e originale in cui possano convivere passato, presente e futuro.

 

UNA DONNA VIRTUALE.  NUOVI PERSONAGGI PER LE SCENE DEL FUTURO

Vittorio Pavoncello, drammaturgo

Una donna virtualeUna voce, un file, una voce di sintesi, un personaggio virtuale chissà?! In un epoca dove i generi a volte sono solo un nickname le avventure e disavventure di una donna che decide di sposarsi su internet e che vive un matrimonio virtuale molto simile a quelli reali sia nel bene sia nel male. Il matrimonio, i regali, il viaggio di nozze e l’amara scoperta che c’era un’altra donna non virtuale ma fatta di quella putrescenza di carne ed ossa. L’unica cosa che resta è la solitudine e un senso teatrale dell’esistenza.

 

I BAMBINI DI DIO. ABISSI E VISIONI DEL RACCONTO CIVILE NELL’ERA DEL TERRORE

Alessandra Fagioli, scrittrice

I bambini di DioUna ballata pop per narrare mafia capitale e i tempi della crisi, un carteggio tra due profughi ucraini (un ribelle filorusso e una Femen anti-Putin) per raccontare le contraddizioni della Russia odierna, un montaggio parallelo di storie di bambini (un boia, una kamikaze, un’altra scampata al gas sarin e un altro alle stragi di Boko Haram) per declinare i molteplici volti della Jihad. I diversi modi di narrare la crisi, la guerra, il terrore inventando storie che possano farsi metafora della realtà.