Il cuore e la voce. Due simboli opposti dello stesso conflitto.

IL CUORE E LA VOCE: DUE SIMBOLI OPPOSTI DELLO STESSO CONFLITTO

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Forse era dalla guerra nel Vietnam che non si vedevano manifestazioni di massa tanto diffuse in diverse città mondiali e tanto persistenti nel sostenere una causa umanitaria e politica. Così come la carovana del mare della Global Sumud Flotilla ha pochi precedenti nella storia del Mediterraneo, soprattutto perché ha avuto un impatto decisivo sulla mobilitazione della coscienza collettiva.
A fronte tuttavia di un totale rovesciamento dei termini della realtà: si è parlato di “diritto internazionale valido fino a un certo punto”, di “acque internazionali violate da parte della flotilla”, si sono tacciati gli attivisti umanitari di essere dei criminali terroristi, non si è condannato Israele per averli arrestati illegalmente ma lo si è ringraziato per averli risparmiati. Soprattutto è stato concepito un piano di pace di matrice colonialista, basato sull’esclusione del popolo oppresso, sullo sfruttamento delle sue terre, sulla limitazione della sua libertà e in particolare sulla speculazione da parte di altre superpotenze. Con il risultato che quello che è successo nella striscia di Gaza, in termini di devastazione, massacro, sterminio, affamamento molto probabilmente non verrà mai perseguito.
Questo il quadro di un conflitto in cui l’organizzazione terroristica di Hamas ha stretto un accordo con il governo genocidario di Israele, sotto il controllo e la gestione dell’impero americano. Nessuna autodeterminazione riconosciuta ai palestinesi, nessun riferimento alle sorti della Cisgiordania, nessuna indipendenza dall’egemonia degli Stati Uniti.
Ma quello che forse resterà più impresso è il valore simbolico che ha assunto Gaza nel mondo. Tanto che i due anni di distruzione totale del territorio, di sterminio sistematico della popolazione, di massacro disumano dei bambini – le cui cifre non si attesterebbero nelle decine di migliaia di vittime ma nelle centinaia di migliaia – hanno totalmente surclassato i tre anni e mezzo di invasione dell’Ucraina da parte della Russia, che ha prodotto una situazione assai più cruciale nel cuore dell’Europa, seppure il numero delle vittime rispetto al Medioriente risulti molto più ridotto.
Gaza dunque è diventata così rappresentativa dell’orrore genocidario contemporaneo che la si può considerare un vero e proprio simbolo da mettere in scena in varie forme.
L’operazione realizzata dalla regista tunisina Kawthar ibn Haniyya nel film La voce di Hind Rajab (2025) è consistita nell’inserire la voce originale di una bambina palestinese di cinque anni – rimasta intrappolata con i cadaveri dei genitori, di tre fratelli e di una cugina in un’auto a Gaza colpita dal fuoco di un carro armato – all’interno di un film di fiction ambientato nel braccio palestinese della Mezzaluna rossa a Ramallah, in Cisgiordania.
La messinscena di quelle tre ore cruciali in cui gli operatori cercano in tutti i modi di capire dove si trovi la bambina, di inviare i mezzi per soccorrerla, di fronteggiare i blocchi imposti da Israele e soprattutto di sostenerla psicologicamente e di non perdere la comunicazione con lei si misura dunque con la voce reale della bambina, registrata dalla centrale, che chiede a più riprese di essere salvata, che i soccorritori vadano da lei e non capisce perché non arrivano, dice che ha paura, che sull’auto sono tutti morti, che sente sparare ancora, che sta arrivando il buio.
Questo cortocircuito tra l’impotenza della centrale operativa e la disperazione della bambina è fortissimo: la rabbia degli operatori che non riescono a intervenire e il terrore della piccola che si sente abbandonata senza capirne il motivo polarizzano la tensione su due estremi inconciliabili che rappresentano la dimensione più oscura dell’orrore. Hind Rajab diventa il simbolo di tutti i bambini che si trovano in una situazione immensamente più grande di loro, da cui nessuno è in grado di tirarli fuori. Perché quell’ambulanza che si trova a soli otto minuti da lei e finalmente riesce a partire superando i blocchi lungo il percorso verrà mitragliata a pochi metri dalla meta e i due paramedici a bordo troveranno la stessa morte che colpirà la bambina.
Dunque la regista tunisina ha avuto l’intuizione di rappresentare attraverso la voce di Hind non solo l’atrocità della guerra, l’imposizione dei blocchi, l’aggressione ai soccorsi, ma soprattutto il dramma umano degli operatori che non riescono a consolare una bambina che ha tutto il diritto di essere salvata, che non riescono a spiegarle perché non vanno a prenderla, che non possono tirarla fuori da quell’orrore perché anche i soccorritori vi soccombono.
Tutt’altro approccio alla tematica ha avuto la regista palestinese-americana Chretien Dabis nel suo film Tutto quel che resta di te (2025), in cui si racconta la storia di tre generazioni di palestinesi attraverso tre linee temporali: si inizia nel 1988 con la prima Intifada durante la quale Noor, un adolescente palestinese, viene colpito da un proiettile sparato dagli israeliani, poi si va indietro al 1948 a Jaffa dove il nonno di Noor viene arrestato perché non vuole abbandonare la propria terra dopo che gli inglesi hanno lasciato la regione, ancora si va avanti al 1978 in un campo di rifugiati della Cisgiordania dove il padre di Noor viene umiliato da un soldato israeliano davanti al figlio, che ne rimane traumatizzato.
Contrariamente al film della regista tunisina, che sfidando gli stessi canoni narrativi gira un’opera anticinematografica, il film della regista palestinese sviluppa per salti temporali una vera e propria saga familiare, attraversata da alcuni momenti cruciali dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi e dalle rivolte del popolo oppresso che ne sono scaturite. Fino ad arrivare ai tempi più recenti attraverso un confronto diretto tra la madre ormai anziana di Noor e un giovane israeliano che ha beneficiato della donazione del cuore del ragazzo mandato in coma dal fuoco israeliano.
La donna racconta, nel lungo flashback rappresentato dal film, la storia della sua famiglia per far capire al ragazzo salvato chi era suo figlio. Dolorose sono state le scelte di portarlo in Israele per cercare di salvarlo e poi di acconsentire all’espianto degli organi sapendo che potevano essere donati a degli israeliani. E anche il cuore di un palestinese che batte nel petto di un israeliano è un altro simbolo. Perché rivela la paura che il cuore di una vittima possa diventare il cuore di un potenziale persecutore. Ma per la regista è anche il pretesto per far dialogare due punti di vista diversi.
Infatti nel dialogo finale emerge una chiave di lettura importante nel rapporto tra ebrei e palestinesi. I primi sono portatori di un danno irreparabile e inarrivabile. I secondi sono i destinatari su cui è ricaduto questo danno attraverso il tempo. Per esistere gli israeliani hanno dovuto sacrificare i palestinesi e il dolore di cui erano portatori è stato trasmesso a chi hanno trovato sulla terra assegnata.
Non è una lettura che assolve e giustifica, ma fa comprendere che un danno ricevuto e mai risolto lo si trasmette fatalmente a terzi, in una sorta di contagio che nemmeno la storia riesce a mondare.
La voce di Hind e il cuore di Noor sono dunque due metafore per esprimere due aspetti diversi e contrari di una irresolutezza ancestrale: la voce si spegne sotto il cieco accanimento di un’occupazione forzata e il cuore continua a battere nella mutua compassione che quel dolore trasferito da un popolo a un altro possa definitivamente estinguersi.
Piacerebbe pensarla così anche nella realtà, ma non bastano la cessazione delle ostilità, la liberazione di ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi, l’arrivo degli aiuti umanitari alla popolazione stremata di Gaza, la ricostruzione economica del territorio e la garanzia dell’autonomia palestinese. Ci sono aspetti molto più complessi e profondi che dovranno essere affrontati, sul piano umano, civile, legale, etico, sanitario. Forse il primo tra tutti è quello di recuperare l’equilibrio mentale, la fiducia nel presente e la speranza nel futuro dei bambini traumatizzati dall’orrore dello sterminio. Ovvero i sopravvissuti che non sono stati “sommersi” come tutti quelli che hanno trovato la morte, ma sono ben lontani dall’essere “salvati” solo perché sulle loro teste, per ora, non piovono più bombe.




La parola e l’immagine. Lo sterminio ai giorni nostri

LA PAROLA E L’IMMAGINE. LO STERMINIO AI GIORNI NOSTRI

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Esiste una parola che è stata universalmente assunta per simboleggiare il massimo dell’orrore che l’umanità abbia potuto raggiungere: Auschwitz. Il nome non del primo lager nazista liberato dall’armata rossa (ne erano stati liberati altri prima di quello) ma del campo di sterminio più complesso e strutturato, nonché con il più elevato tasso di mortalità (sono stati stimati solo in quel lager circa un milione e mezzo di morti).
La stessa data della sua liberazione, 27 gennaio 1945 (seppure preceda di più di tre mesi la capitolazione della Germania nazista), è stata assunta come simbolo per designare il Giorno della Memoria, ricorrenza internazionale che commemora tutte le vittime dell’Olocausto. Data fatidica perché solo allora, quando le truppe sovietiche entrarono nel campo di Auschwitz, le immagini scattate su quello che vi restava in termini di strutture e di prigionieri sopravvissuti – Himmler con l’avanzata dell’armata rossa diede ordine di cessare le esecuzioni nelle camere a gas e di demolirle insieme ai forni crematori, ma i nazisti lo fecero solo per la sezione di Birkenau – si diffusero in tutto il mondo.
Naturalmente molte persone sapevano, oltre agli addetti ai lavori, dell’orrore che si consumava là dentro, come in tanti altri campi disseminati per l’Europa, ma la gran parte del mondo ignorava il complesso apparato industriale che aveva condotto allo sterminio di massa. Talché quelle immagini in bianco e nero di corpi scheletrici che a stento ancora sopravvivevano, di cadaveri nudi gettati a mucchi nelle fosse comuni, di cumuli di capelli, scarpe, indumenti ammassati nei capannoni, di luoghi di gasazione e incenerimento per la soluzione finale furono devastanti perché inimmaginabili. Per non dire di ciò che non era più visibile: non i “salvati” ma i “sommersi”, per dirla con Primo Levi, la cui sorte atroce restava qualcosa di inarrivabile.
Dunque “Auschwitz”, nella sua sostanziale inattingibilità divenne l’emblema di un fenomeno che non si capiva come fosse potuto accadere e che non poteva in alcun modo ripetersi. Termini come genocidio, pulizia etnica, deportazione furono per sempre associati all’Olocausto, seppure in altre parti del mondo si fossero verificate queste operazioni; ma il fatto che lo sterminio di sei milioni di ebrei si fosse compiuto nel cuore dell’evoluto occidente europeo, e non in altri paesi incolti o arretrati del terzo mondo, rappresentava un culmine unico, esclusivo, non equiparabile ad altro.
Così il dibattito odierno su quello che sta accadendo nella striscia di Gaza, ovvero se si tratti di crimini di guerra contemplati dal diritto bellico (omicidi, torture, stupri, deportazioni, armi chimiche) oppure di un vero e proprio genocidio (distruzione intenzionale di un gruppo etnico, razziale o religioso) scaturisce proprio dall’eredità dell’Olocausto. Avvenimento irrisarcibile, per il quale la formazione dello stato di Israele è stato un irrisorio indennizzo, ha reso per sempre il popolo ebraico in credito con la Storia. Sono allora diversi i fattori che costituiscono una sorta di “legittimazione” del comportamento di Israele nei confronti dei palestinesi, non solo nella striscia di Gaza controllata da Hamas, ma anche nei territori della Cisgiordania occupati dall’esercito israeliano.
Innanzi tutto un senso di colpa provato anche a livello di inconscio collettivo (non solo del popolo tedesco ma dell’intera l’Europa) nei confronti degli ebrei perseguitati e sterminati durante la seconda guerra mondiale, per cui ogni forma di antagonismo o disapprovazione nei loro confronti viene subito tacciata di antisemitismo. In secondo luogo la fatalità che i palestinesi siano le vittime delle vittime, dunque “sacrificabili” per la causa di Israele, in base alla quale è giusto annientare l’organizzazione terroristica di Hamas a costo di qualsiasi prezzo: quello di uccidere indiscriminatamente la popolazione palestinese, quello di volerla deportare verso altre nazioni che le sono ostili, quello di ridurla in condizioni catastrofiche impedendo l’accesso agli aiuti umanitari. In ultimo l’alleanza di Israele con il mondo occidentale che lo difende e lo tutela anziché sanzionarlo, senza opporsi a una controffensiva smisurata e disumana che ormai ha travalicato ogni legittima reazione all’attacco terroristico del 7 ottobre 2023.
Queste le “ragioni” storiche, politiche, psicologiche per cui Israele oggi è un paese “più uguale degli altri”, per dirla alla Orwell, dato che in passato è stato un popolo meno uguale degli altri. Peccato però che accanto ai concetti, alle definizioni, ai distinguo tra crimine di guerra e genocidio, tra deportazione e pulizia etnica (termini che per altro hanno affinità lessicali tra loro) ci sono le immagini. Immagini che nella loro innegabile evidenza mostrano realtà assolutamente sovrapponibili. I corpi scheletrici dei bambini moribondi di Gaza sono identici ai corpi scheletrici dei prigionieri di Auschwitz. La condanna all’affamamento fino alla morte praticata a Gaza è similare a quella imposta agli internati nei campi di sterminio. Se mai ci fosse una differenza, come aggravante dello stato attuale delle cose, è che a Gaza c’è una grande componente di bambini – uccisi, mutilati, affamati – che nei lager non c’era (dato che morivano subito o venivano soppressi).
Esiste tuttavia un’immagine, sopra le altre, o meglio un filmato, che appare l’emblema apicale di questo orrore contemporaneo. Durante i bombardamenti a Gaza sono stati distrutti molti ospedali, con il risultato che anche gli apparecchi per tenere in vita le persone non hanno potuto più funzionare. Così i pazienti in terapia intensiva non hanno avuto scampo. Ma non lo hanno avuto nemmeno i neonati nelle incubatrici. Nel parapiglia generale avevano raccolto su un tavolo nudo i corpicini di neonati prematuri di appena uno o due chili di peso, che si contorcevano come animaletti senza il sostentamento necessario alla sopravvivenza. Quella manciata di esserini di pochi giorni, lasciati morire come bestioline insignificanti, ha dato la misura dell’abisso in cui si era precipitati. Anche se questi non avevano la voce per urlare la loro fame.
Perché è proprio la rabbia, la paura, lo smarrimento, l’incredulità dei bambini a sconfessare ogni argomentazione definitoria, contenitiva, giustificante di questa catastrofe. Così innegabile e lampante da non poterla nascondere ai loro occhi. Difficile immaginare una narrazione, anche metaforica, che possa ingannare l’infanzia per distoglierla da questo orrore.
Non c’è simulazione di gioco possibile, come ne La vita è bella di Roberto Benigni (1997), che possa impegnare i bambini di Gaza in altre attività. Non c’è ombra di innocenza credibile, come ne Il bambino col pigiama a righe di Mark Herman (2008), che possa illuderli di potersi aiutare a vicenda. In questo orrore del XXI secolo i bambini sono i consapevoli attori di qualcosa che è più grande di loro ma a cui non si possono sottrarre e noi siamo i colpevoli spettatori di un’atrocità che permea le nostre vite ma a cui non vogliamo porre fine.
Anche la definizione di una possibile soluzione si allontana dalla realtà quanto la definizione del problema. Cavillare se si tratti di un’ecatombe o di uno sterminio è equivalente a discettare su due popoli e due stati. Perché non ci potranno mai essere due stati se ce n’è uno solo – potente, protetto, militarizzato – che vuole eliminare e deportare ciò che resta di un popolo che non ha mai potuto costituirsi in stato e non avrà mai le basi per farlo. “Due popoli due stati” è uno slogan ormai andato in loop come “si tratta di crimini di guerra e non di genocidio”. Sono solo parole vuote che servono a pacificare le nostre coscienze mentre il vero loop di immagini quotidiane – atroce leitmotiv del nostro presente – ci ricorda costantemente che noi non veniamo dopo quell’orrore, ma vi siamo iscritti. Al punto che preferiamo nasconderci dietro alibi storici, piuttosto che ammettere di essere complici dei carnefici.