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DALLA SCENA ALLO SCHERMO: IL NUOVO CINEMA SCESPIRIANO

  

È indiscutibile che William Shakespeare sia stato il primo autore che si possa definire moderno. Sensibile scrutatore dell’animo umano e grandissimo drammaturgo egli ha saputo rappresentare quel “gran teatro del mondo” attraverso la creazione di personaggi, avvenimenti e situazioni che a distanza di secoli risultano ancora immortali.

Si può dire che l’intera opera di Shakespeare si inscriva in una “dimensione esistenziale” le cui implicazioni arrivano a cogliere tutti gli aspetti del vivere umano: da quello ideologico e politico, a quello storico e sociale, da quello estetico e culturale a quello psicologico e morale, in un concerto di azioni e di pensieri che hanno conservato nel tempo una grande attualità.

Ed è proprio per questa coerenza e continuità delle vicende umane che la tradizione interpretativa dei drammi scespiriani (nel teatro prima e nel cinema poi) è andata sempre più aggiornandosi, trovando via via soluzioni diverse per ogni contesto, proposito, passione o sconfitta che venivano variamente celebrate nelle opere del drammaturgo.

La trasposizione della scena teatrale (per lo più basata sulla parola) nella sequenza filmica (concentrata essenzialmente sull’immagine) ha permesso in questo modo la realizzazione di un insieme di varianti delle tragedie e delle commedie scespiriane sia su un piano storico e ambientale, sia su uno etico e individuale. L’universalità e la contemporaneità della condizione esistenziale rappresentata da Shakespeare sono state così rielaborate in tante versioni diverse, attraverso le quali si sono sviluppati generi, stili e linguaggi spesso molto interessanti.

Le interpretazioni di Laurence Olivier, Orson Welles, Peter Brook, Grigorij Kozincev, Franco Zeffirelli e Roman Polanski (tanto per citare quelle più celebri) hanno cercato nelle loro diverse forme di coniugare realismo e antirealismo, in una dialettica che metteva a confronto la potenza evocativa della parola teatrale con l’impatto espressivo dell’immagine filmica. Alcune versioni più recenti – come quelle di Kenneth Branagh, ad esempio – hanno anche affinato l’uso (già sperimentato precedentemente) di alcuni strumenti tecnici propri del cinema – come il movimento della cinepresa, la scelta del punto di vista, il monologo “in macchina” – con l’intento di valorizzare gli aspetti più squisitamente teatrali dei drammi scespiriani.

Tuttavia, nonostante la grande varietà delle interpretazioni cinematografiche operate intorno alle opere di Shakespeare, le versioni finora prodotte hanno sempre cercato di attenersi alla centralità del testo, mantenendo una certa fedeltà alle unità di tempo, luogo e azione di ogni singolo dramma. Nelle ultime sperimentazioni, invece, realizzate in particolare intorno al Riccardo III e al Romeo e Giulietta, l’approccio di analisi del testo e la conseguente trasposizione sulla pellicola risultano profondamente cambiate, tanto da poter dire di essere passati da un cinema classico scespiriano a uno moderno dello stesso autore.

 Il Riccardo III è senz’altro uno dei drammi storici più articolati e complessi sia dal punto di vista della costruzione drammatica, proliferante di caratteri e colpi di scena, sia dal punto di vista dell’introspezione psicologica, ricca di inquietudini e turbamenti. Mai come nel protagonista di questo dramma Shakespeare è riuscito a mettere a fuoco lo stretto legame tra un corpo deforme che soffre nell’essere segregato e schernito dagli altri e una mente perversa che cerca in tutti i modi una sua rivincita sulla natura e sulla società. Già nel 1956 Laurence Olivier nel suo celebre Riccardo III riuscì a coniugare la convenzione teatrale di certi monologhi con il realismo filmico delle scene corali, concentrando l’attenzione sul protagonista, genio del male, ed evidenziandone i momenti di drammatica passione e di disperata solitudine che lo attraversavano.

A distanza di circa quarant’anni dal nuovo continente, ci arriva invece una traduzione cinematografica del dramma storico sotto una forma del tutto inedita: quella del docudrama. Al Pacino tenta l’operazione coraggiosa e pretenziosa allo stesso tempo non di “rappresentare” semplicemente il Riccardo III attraverso gli strumenti e le tecniche del cinema ma di utilizzare queste per sezionarlo, ricostruirlo e spiegarlo in tutti i suoi passaggi più esemplari e significativi. Pacino filma dunque un work in progress che è di fatto un viaggio attraverso le dinamiche sociali della corte e uno scandaglio nei disegni interni del protagonista. Egli alterna alcune scene del dramma interpretate secondo uno stile tradizionale con momenti di riflessione e di lavorazione intorno alla stessa materia drammatica. Ne viene fuori un interessante contrappunto tra azione e commento, tra sequenza e intervento, che nulla toglie all’autenticità dell’opera, ma al contrario permette di penetrarla più a fondo e di coglierne le molteplici sfumature.

Uno dei passaggi più importanti è quello in cui Pacino mostra e spiega le tappe finali del percorso diabolico messo in atto da re Riccardo. Dopo aver ucciso tutti coloro (eredi, familiari e sudditi) che ostacolavano il suo cammino verso il trono, Riccardo mette alla prova i suoi più fedeli collaboratori (Lord Hastings e Lord Buckingham) per verificare fino a che punto sono disposti a spingersi per servire il loro sovrano. L’azione di forza che Riccardo impone su di loro è perversa quanto geniale al punto che egli si compiace non solo di osservare la sua malvagità messa all’opera, ma anche di vederla rispecchiata negli sguardi sgomenti e nelle proteste impotenti delle sue vittime.

Attraverso questo tipo di analisi documentata e rappresentata emerge così un insieme di contrasti, di tensioni e di rotture tra i vari personaggi che permettono di andare ben oltre il rapporto tra realismo filmico e convenzione teatrale, per approdare ad una nuova forma interpretativa che oltre alla componente estetico-stilistica si avvale di un’altra più sperimentale: quella didattico-esplicativa.

 L’amore come assoluto che sfida anche la morte è un tema antichissimo che Shakespeare ha saputo rendere immortale nel Romeo e Giulietta. A distanza di secoli i due giovani amanti che affermano il loro amore a dispetto di ogni ostacolo sociale e familiare anche a costo di morirne entrambi, scatenano ancora interpretazioni di grande intensità lirica e di vivida attualità politica. Nel 1967 Franco Zeffirelli “girò” la sua versione del Romeo e Giulietta rispettando fedelmente il testo e i caratteri dei personaggi, ma attualizzando la vicenda attraverso le tematiche della contestazione giovanile. Egli puntò a evidenziare l’opposizione tra generazioni e in particolare la lotta dei giovani per emanciparsi dalla tirannia degli anziani, ambientando il tutto su uno sfondo stilistico di grande realismo figurativo.

Alla fine degli anni novanta dal regista australiano Baz Luhrmann ci arriva invece una versione della tragedia ancora più attualizzata, dinamica e violenta. Verona diventa una spiaggia della California, Mantova una landa desolata, casa Capuleti una villa con piscina, le famiglie rivali due vere bande che si affrontano con le pistole, tutto sorvolato da elicotteri della polizia in un continuo stato di assedio. Dal semplice contrasto familiare il dramma viene esteso a un più complesso conflitto sociale, in cui gli stessi personaggi assumono caratteri fortemente estremizzati, dando maggior forza alla dinamica della vicenda. Ma ciò che più colpisce di quest’ultima versione è proprio il perfetto connubio che il regista è riuscito a creare tra il testo fedelmente conservato in tutti i suoi passaggi più vibranti e suggestivi e la travolgente ambientazione carica di colori, tensioni e caratteri animati da una grande intensità passionale.

La scena finale, in particolare, mette ancora più in luce quanto attraverso le tecniche del cinema si possa anche forzare un po’ il testo per rendere ancora più esasperata la tragedia. Luhrmann si permette una strategica licenza nell’anticipare di qualche minuto il risveglio di Giulietta sul suicidio di Romeo. Con la ripresa sui dettagli gioca con tutte le sfumature della suspense fino ad arrivare all’apoteosi del dramma: Giulietta si sveglia in tempo per assistere al suicidio di Romeo e Romeo realizza il risveglio di Giulietta prima di morire. E c’è un attimo in cui il pubblico viene attraversato da un brivido di tensione in cui crede che le cose possano finire diversamente da come sono state scritte quattrocento anni fa.

In questo modo si capisce come gli strumenti e le modalità che offre il cinema possano diventare elementi drammatici del testo stesso, fino ad arrivare, se ben diretti, a scoprire nuove frontiere di espressione per il teatro.

 Immenso è questo Amleto di Kenneth Branagh che non finisce mai perché dice tutto e anche qualcosa di più. Superba è l’ambientazione ottocentesca curata egregiamente nelle scene corali come nei dettagli specifici. Interessante è anche l’interpretazione in chiave politica della tragedia, in cui vengono bene evidenziati i rapporti militari tra la Danimarca, la Norvegia e la Polonia. Eccellente infine è la scelta di alcuni celebri attori per i personaggi secondari che, grazie alla versione integrale, acquisiscono spessore e si arricchiscono di senso.

Indubbiamente un’impresa rischiosa ed ambiziosa insieme quella di riprodurre “letteralmente” (parola per parola, senza rinunciare ad alcuna battuta del testo originale, ma piuttosto aggiungendone altre) l’intera tragedia in un prodotto filmico che si avvale di tutte le tecniche del cinema: dalle inquadrature a tutto campo a quelle sui minimi dettagli, dalle dissolvenze ai flashback e così via.

Esistono in questo film delle autentiche perle, presenti soprattutto in due momenti particolari: nella scena degli specchi durante il monologo centrale in cui emerge un continuo scambio dei punti di vista in un gioco sottile di finzione e di inganno e nel duello finale magnificamente orchestrato in contrappunto all’assedio del castello da parte dei soldati di Fortebraccio.

Accanto a queste perle, tuttavia, emergono anche delle pecche. Quando si riadatta un dramma e lo si traduce in film è possibile prendersi una serie di licenze che però non possono contravvenire al senso e allo spirito dell’opera stessa. Nell’ineccepibile messinscena integrale di questa tragedia si notano infatti un paio di imprecisioni piuttosto importanti.

La prima è un’imprecisione di carattere. Gertrude è complice e connivente dell’omicidio del re. Complotta con il cognato per uccidere il marito e dunque porta anch’essa il carico e il rimorso della colpevolezza. Dal film questo non si evince, la regina è turbata dalla pazzia del figlio, che però associa all’amore per Ofelia e non al delitto contro il re. Quest’angolazione finisce con l’appiattire il personaggio, che per giunta è impoverito anche dalla mancanza di un vero rapporto edipico con il principe. La seconda è invece un’imprecisione di concetto. Ofelia è vergine. E il testo riprende più volte questo punto per costruire un profilo di donna onesta, saggia, obbediente ed onorata che viene poi distrutto con maggiore intensità quando lei impazzisce. I flashback che la riproducono a letto con Amleto spezzano quell’incanto di purezza che la circonda e rendono quasi ridicolo l’affanno del principe al suo funerale, quando con rabbia e dolore dimostra di non averla mai posseduta.

Rimane comunque il fatto che forse il maggior pregio di questa versione integrale per il cinema consiste nell’aver finalmente dato un’identità, un volto e un giusto peso a una serie di personaggi secondari e alle situazioni ad essi connesse, che in altre versioni venivano sacrificate o addirittura ignorate.

Finalmente si possono cogliere a tutto tondo i caratteri complementari di Rosencrantz e Guildenstern (immortalati precedentemente soltanto nell’ingegnosa opera di Tom Stoppard) e del loro incongruo rapporto con Amleto; si può apprezzare il pungente sarcasmo dei becchini che filosofeggiano con leggerezza e disinvoltura sull’essere e l’apparire; viene dato un volto persino a Yorik (in uno dei tanti flashback riusciti) mentre fa il buffone a corte con Amleto bambino; ottiene un giusto rilievo anche Osric, il vanesio bizzarro che offre al principe la sfida a duello con Laerte, ben curato nel suo carattere (a dispetto di chi ne ha voluto vedere una caduta di stile).

Senza dubbio la scelta di certi attori è determinante per la riuscita dei diversi personaggi, anche se in alcuni di questi, purtroppo a volte proprio nei principali, l’interpretazione lascia un po’ a desiderare. É pur vero che nella versione italiana acquistano un peso essenziale sia la traduzione che il doppiaggio, al punto che alcune sfumature linguistiche e interpretative vanno perse.

Kenneth Branagh eccelle comunque su tutti, offrendo un Amleto nervoso, elettrico, collerico, meno incline all’introspezione psicologica e più proteso verso lo scherno, la sfida e il confronto dialettico.

Questa versione dell’Amleto ha avuto insigni precedenti. Da quello di Laurence Olivier del 1948 tutto imperniato sul rapporto edipico tra la regina e il principe e sulla lettura strettamente psicanalitica della tragedia, a quello di Grigori Kosintzev del 1964 presentato invece in chiave storica e sociale, in cui il dilemma di Amleto si traduce in un anelito alla libertà e alla giustizia, a quello infine più recente di Franco Zeffirelli in cui vengono dosate di nuovo le varie componenti, cogliendo nell’intimo i conflitti interiori e i contrasti tra i vari personaggi.

Difficile pensare a un’ulteriore versione dell’Amleto dopo quest’ultima. Ogni altro Amleto ridotto potrebbe sembrare al confronto riduttivo. Ma non è mai detto. Questa rimane comunque la tragedia scespiriana più stimolante, feconda e ricca di spunti che nel corso degli anni continua a provocare letture originali e innovative, grazie soprattutto all’arte e alle tecniche del cinema che riescono a offrire soluzioni semantiche e stilistiche sempre più interessanti.

  

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