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LA FOLLIA COME STATUTO SIMBOLICO DEL LIMITE

  

Se si prende in considerazione il valore di limite come punto di sospensione, come fase di rovesciamento e come momento di “torsione” di un’epoca in un altra, laddove il divenire storico non è articolato da grandi unità senza interruzioni e senza rivolgimenti, ma piuttosto è scandito da brevi periodi di rottura e di passaggio, la follia assume allora quella valenza di “liminarità” che le permette per un verso di manifestarsi tramite la creazione di opere rappresentative dei loro stessi contesti culturali, e per altro verso di contrapporsi dialetticamente a tutta la sfera del sapere nei cui confronti assume funzioni oppositive.

Alcune figure simboliche in cui la follia appare come “realtà al limite”, relegata ai margini, sospesa tra due confini, spinta sull’orlo della cultura, scaturiscono in particolare dalla confluenza dell’esperienza cosmica della follia medievale fondata sul coinvolgimento reciproco del medesimo con il diverso, nell’esperienza critica della follia rinascimentale articolata viceversa da una separazione derisoria tra il razionale e l’insensato.

Una delle immagini più significative, tematizzata ampiamente da Michel Foucault nel suo primo testo La storia della follia nell’età classica, si riscontra nell’affascinante costruzione simbolica fatta attorno alla “stultifera navis”: uno strano battello ubriaco, carico di alienati e di insensati che viene abbandonato ai flutti dei fiumi fiamminghi, la cui creazione letteraria viene presa in prestito al vecchio ciclo degli Argonauti.[1]

L’acqua simboleggia la purificazione in cui ognuno è abbandonato al proprio destino e pone la follia in una situazione “liminare”, sospesa nella totale incertezza della navigazione: “È per l’altro mondo che parte il folle a bordo della sua folle navicella; è dall’altro mondo che arriva quando sbarca. Questa navigazione del pazzo è nello stesso tempo la separazione rigorosa e l’assoluto passaggio”.[2]

L’abbandono al destino delle acque porta a una doppia simbologia: la totale libertà di una navigazione senza mete e l’angusta prigionia in un ambiente incognito e ostile: così il folle “() la sua esclusione deve racchiuderlo; se egli non può e non deve avere altra prigione che la soglia stessa, lo si trattiene sul luogo di passaggio. È posto all’interno dell’esterno e viceversa”.[3]

Se dunque questa valenza altamente simbolica rappresentata dalla nave dei folli, si ritrova in tutti i grandi cicli mitici che riprendono il tema di una navigazione fantastica e immaginaria fatta da modelli etici e da tipi sociali, è legittimo riconoscere nella follia lo statuto simbolico del limite stesso della cultura che viene costantemente riproposto perché continuamente oltrepassato?

Ritengo che per trovare una risposta a questo quesito è necessario interrogare i diversi campi del sapere, quali l’arte figurativa, la filosofia, ma soprattutto la letteratura nella quale la follia appare nelle sue rappresentazioni più significative, come in Shakespeare e in Cervantes, di cui lo stesso Foucault ci offre una chiave di interpretazione.

“Nell’opera di Shakespeare troviamo le follie che si imparentano con la morte e con l’assassinio; in quella di Cervantes le forme che si assoggettano alla presunzione e a tutti i compiacimenti dell’immaginazione”.[4]

In entrambi la follia occupa sempre posizioni estreme e assolute per le quali non c’è né un rimedio, un ritorno, ma esiste solo il trionfo dell’alienazione e dell’insensatezza nella drammaticità delle passioni e dei delitti (nel mondo tragico e apocalittico di Shakespeare), oppure nell’assoggettamento all’imitazione e alla presunzione (nell’universo comico e grottesco di Cervantes).

Tuttavia i valori che interagiscono nelle relazioni tra opera e follia si alterano a seconda dei limiti fissati dal libero gioco della ragione con la sragione, i quali da una parte permettono la formazione delle molteplici esperienze della follia che hanno caratterizzato le diverse epoche storiche, e dall’altra legittimano i relativi cambiamenti di coscienza e di sensibilità verso tutte le varie forme di insensatezza e di alienazione.

Per questo motivo considero estremamente significativa la conclusione cui arriva Foucault al termine del suo viaggio intorno alla follia, sebbene essa non si dimostri affatto perentoria o risolutiva, ma piuttosto assai problematica e retrospettiva.

“Non c’è follia se non come istante supremo dell’opera, e quest’ultima la respinge indefinitivamente ai suoi confini; dove c’è opera non c’è follia; e tuttavia la follia è contemporanea dell’opera, poiché inaugura il tempo della sua verità. Listante in cui nascono e si compiono insieme lopera e la follia è l’inizio del tempo in cui il mondo si trova citato in giudizio da quest’opera e responsabile di ciò che è davanti ad essa”.[5]

Così, mentre nell’esperienza classica l’opera e la follia sono legate a vicenda e si limitano l’un l’altra, nell’esperienza moderna la follia è insieme l’abolizione dell’opera e la rifondazione della sua identità; da ciò i rapporti tra il mondo e la follia si ritrovano totalmente rovesciati.

Il mondo, che aveva sempre cercato di misurare e di giustificare la follia sotto tutte le sue forme, ora deve misurarsi con la “smisuratezza” delle opere che essa produce e deve giustificarsi di fronte alla consistenza delle sue critiche e delle sue denunce.

Sebbene la trattazione della follia attraverso l’analisi delle molteplici dimensioni che essa assume nel corso dei secoli, sia essenziale per comprendere i vari livelli di integrazione e di complementarità che essa scambia con la sfera della saggezza, la dimostrazione di come la follia stessa simboleggi le soglie “liminaridella cultura o alcune serie di fratture nella storia, si rivela ancora insufficiente e per certi versi non appieno giustificata.

Paradossalmente, un’indicazione tanto convincente quanto inquietante ci viene fornita proprio da un altro testo foucoltiano come Le parole e le cose, il quale non si occupa affatto di studiare la follia nelle sue forme patologiche e in quelle terapeutiche, che vengono entrambe inscritte in istituzioni mediche o cliniche, ma si concentra piuttosto sull’evoluzione dell’epistemologia nelle scienze empiriche, attraverso la scansione di livelli sempre dialettici e di limiti sempre riproposti.[6]

Il punto più cruciale, a mio giudizio, consiste proprio nel momento in cui l’autore riprende ne Le parole e le cose l’esempio del Don Chisciotte di Cervantes (già utilizzato ne La storia della follia come epigono insieme a Shakespeare di un’esperienza letteraria che celebrava la follia nelle sue forme più estreme), per farne l’esatto reciproco dell’epopea arcaica. Attraverso l’analisi parallela delle due parti che costituiscono il romanzo, viene dimostrato come il Don Chisciotte segni, allo stesso tempo, la fine della somiglianza tra i nomi e le cose e la nascita di un linguaggio rappresentativo di se stesso.

Il gioco delle identità e delle differenze sostituisce, quindi, quello delle similitudini e delle segnature attraverso un’opera che parodiando la tradizione immortale dell’epica cavalleresca, usa la follia come momento di saturazione e come punto di superamento.

Ed è proprio nella rappresentazione del mondo attraverso il linguaggio e nel rovesciamento dei valori tra i nomi e le cose, che Foucault individua la formazione di due esperienze opposte, simboleggiate da due personaggi.

Il folle, inteso non come malato di mente ma come figura culturale, rappresenta l’uomo dalle somiglianze selvagge. Egli “() è colui che si è alienato nell’analogia. È lo sregolato burattinaio del Medesimo e dell’Altro; prende le cose per quelle che non sono e le persone le une per le altre; ignora gli amici, riconosce gli estranei; crede di smascherare e impone una maschera”.[7]

Il poeta, all’altro estremo della cultura, occupa una posizione opposta ma simmetrica a quella del folle. Egli “(…) è colui che, al di sotto delle differenze nominate e quotidianamente previste, ritrova le parentele sepolte delle cose, le loro similitudini disperse. Sotto i segni stabiliti afferra un altro discorso che richiama il tempo in cui le parole scintillavano nella somiglianza universale delle cose (…)”.[8]

In un ordine epistemologico e rappresentativo che separa le similitudini dalle segnature, dunque il folle garantisce la funzione dellomosemantismo, caricando tutti i segni di una somiglianza che finisce col cancellarli; il poeta invece assolve alla funzione dell’allegoria, facendo emergere la somiglianza tra i segni che essi nascondono nelle proprie differenze.

Ma cosa significa, nella cultura occidentale, questo fronteggiarsi della poesia e della follia, inteso come manifestazione di una nuova esperienza cognitiva nei rapporti tra le parole e le cose?

Cosa rappresentano queste due figure che animano un rapporto di reciprocità e di simmetria e si trovano in quella “situazione al limite”, nella quale occupano i punti estremi della nostra cultura e dalla quale traggono il loro potere di estraneità e le loro risorse di contestazione?

E ancora, perché tramite l’inversione meccanica del folle e il disvelamento esegetico del poeta, i limiti del sapere vengono ancora una volta travalicati per essere rifondati in una nuova episteme, basata non più sulle similitudini e sulle segnature ma sulla relazione tra identità e differenze?

Alcune considerazioni, riguardo questi interrogativi, ritengo si possano individuare attraverso l’analisi di un’altra coppia oppositiva come quella dell’uomo di genio e del malato di mente, nella quale si ripropone una medesima struttura sia complementare che ambivalente.

Tutt’altro che figure simboliche, il genio e il malato riproducono, direi specularmente, l’opposizione che il folle e il poeta operano nella cultura, assumendo tuttavia funzioni e fisionomie del tutto differenti a seconda dei ruoli che essi investono nella società.

Il genio, sia artista che scienziato, essendo il catalizzatore dei tratti pertinenti alla propria cultura, attua un superamento degli stessi, portandoli alle estreme conseguenze e rifondandone degli altri in base all’interazione della sua genialità e della sua creatività con le tradizioni e le convenzioni culturali che gli appartengono.

Il malato di mente, al contrario, non si riconosce affatto nei tratti simbolici che gli sono propri e tuttavia non riesce a scardinarli e a rifondarne degli altri: in questo modo non gli rimane che “eludere” il simbolismo convertendolo nella concretezza di atti immediati che lo differenziano subito dalle norme stabilite.

Se dunque da una parte il genio travolge, ricrea, sintetizza attraverso una coscienza più sensibile e potenziata che gli permette di manipolare i simboli, dall’altra il malato traduce, converte e disvela rimanendo tuttavia in uno stato di incoscienza che lo costringe a tradire la realtà concreta contenuta nei valori simbolici.

Loperazione che quindi propongo, consiste proprio nel raffrontare parallelamente queste due coppie oppositive, i cui componenti sostano tutti ai margini o sui confini della cultura, con la quale entrano in relazione senza per altro prenderne parte.

Confrontando per un verso le sintesi culturali attuate dal genio e l’esegesi filologica proposta dal poeta, e per altro verso luso concreto dei simboli adottato dal malato di mente e lo scambio equivoco dei valori operato dal folle come figura culturale, risulta allora quella valenza di “liminarità” che si manifesta attraverso un doppio processo: di superamento dei valori e di violazione delle norme; ma se nel genio, come nel poeta emerge una costante attività sia di critica che di riproposta, nel malato, come nel folle, scaturisce viceversa un meccanismo di distruzione e di derealtà.

 


 

[1] La trattazione storica e teorica della follia attuata in questo testo, percorre un itinerario epistemologico di diversi secoli, attraverso epoche quali il Medioevo, il Classicismo e il Positivismo, nelle quali la follia è vista trionfare nell’immaginazione critica e grottesca del Rinascimento, soggiacere all’istituzione classica dell’internamento correzionario e infine riscattarsi attraverso la liberazione positivista attuata dalle nuove scienze.

[2] M. Foucault, Storia della follia nell’ età classica, Milano, Rizzoli, 1976, pag. 24.

[3] Ibidem, pag. 25.

[4] Ibidem, pag. 59.

[5] Ibidem, pag. 604.

[6] Levoluzione del sapere analizzata in questo testo si articola sulla base di due importanti cambiamenti epistemologici: il passaggio della convenzione arcaica della rassomiglianza tra i nomi e le cose alla concezione classica della rappresentazione secondo un ordine stabilito, e la traduzione della grammatica generale, della storia naturale e dell’analisi delle ricchezze rispettivamente nella filologia, nella biologia nell’economia.

[7] M. Foucault, Le parole e le cose, Milano, Rizzoli, 1978, pag. 64.

[8] Ibidem, pag. 64.

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