Gravitazione

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    GRAVITAZIONE

Ma, a parte la forza di gravitazione,
cos’è che ci trattiene sulla terra?
Stanisław Lem 

    L’ho capito ancora prima di prendere coscienza. Capita a volte che si scopra di stare sognando, allora di colpo si diventa padroni di ciò che accade, al punto di riuscire persino a rovesciare le sorti del sogno, solo che dura poco, perché ormai il risveglio è imminente, pronto a vanificare in un soffio l’inatteso riscatto. Eppure era accaduto e tanto bastava. Stavo cercando di sottrarmi in tutti i modi ai rancori dei miei stessi personaggi, che mi rinfacciavano di averli tirati in mezzo a una storia che non sapevo più come finire, inventando cose sempre più improbabili, in cui non si raccapezzavano più, stanchi delle loro stesse identità, che avevo portato a tali estremi da esasperare ogni loro tolleranza, tanto da perseguitarmi ormai quasi ogni notte, apparendomi in incubi atroci, in cui mi sottoponevano alle più efferate torture nell’intento di essere liberati dai miei intrecci perversi, senza concedermi tregua, né possibilità di evasione.

    Ma quella volta era stato diverso, mi ero accorta di stare sognando e allora avevo preso in pugno la situazione, ora ero io a minacciarli di farli fuori senza pietà, qualora si fossero ribellati anche alle mie pretese più eccentriche, ma furono pochi istanti di imperiosa rivalsa, subito vanificati da un proditorio risveglio, sufficienti però a lasciarmi un’impronta addosso, quasi un contagio, come se quelle creature mi avessero trasmesso una visione del mondo che contemplavo solo nell’invenzione, e che ora invece mi appariva in tutta la sua concretezza.

    Non ho fatto altro che passare la mia vita a riempirla di fantasmi, visioni, stranezze, alterità. Tutto per ingannare il vuoto che mi circondava. Non ho mai trovato qualcuno che mi andasse a genio, pur amando i bambini ho sempre temuto di rimanere incinta, i genitori li ho persi in tempi troppo remoti, ho svolto tanti lavori quanti erano i miei interessi, senza restare più di un paio d’anni nello stesso posto, gli uomini mi hanno sempre visto come un’amante, chissà perché poi non ne avevo nemmeno la vocazione, eppure anche loro erano a tempo determinato e con contratti sempre più saltuari. Finché non ho iniziato a ubriacarmi di stimoli culturali, frequentando cinema, teatri, mostre, concerti, rigorosamente da sola, facendo il pieno di storie senza poterne parlare a nessuno, tanto da sognarmele persino la notte, dentro sogni che non erano miei, con mio gran disappunto perché non c’entravo nulla con quelle faccende e non capivo perché le dovevo smaltire nel sonno solo perché non avevo nessuno con cui confrontarmi di giorno.

    Così per avere un po’ di compagnia ho finito con l’inventarmi dei personaggi, almeno quelli li avevo sottomano e ci potevo fare quel che volevo, solo che ero sempre fissata con tipi ossessivi, maniacali, dominati da qualche paranoia o scollati del tutto dalla realtà, come se proprio nella loro incapacità di trovare una dimensione esistenziale si nascondesse lo slancio che li rendesse statuari, degni di grandezza letteraria e immuni da ogni mediocrità.

    Per qualche volta è andata bene, ha pure funzionato, ho scritto storie di bugiardi, sognatori, visionari alle prese con situazioni assurde, grottesche, surreali che sono pure piaciute, hanno convinto critici e scrittori; poi però forse ho esagerato, mi sono spinta troppo oltre, ho voluto sperimentare altri virtuosismi e mi sono messa in testa di scrivere una storia senza trama, senza sviluppo, senza ambientazione, fatta di soli personaggi che come temi musicali intrecciavano le loro variazioni dando forma a una curiosa rapsodia.

    E questo è stato il risultato. Le mie creature, forgiate con tanto ingegno quasi fossero meccanismi a orologeria, sono diventati i miei persecutori. Forse non hanno retto le mie spericolatezze, si sono stressati per un gioco che si faceva troppo equivoco, hanno temuto di non uscirne più, sta il fatto che si sono ribellati, facendomi sentire tutto il peso della loro personalità, ormai indipendente dal mio arbitrio, anzi antagonista, al punto da mettermi di fronte a una realtà che sconfessava la mia stessa fantasia, imponendosi con una tale urgenza da tirarmi in ballo come fossi fatta della loro stessa pasta.

    Così al risveglio mi è stato tutto chiaro, non avrei più potuto concludere quella storia, come non avrei più potuto intraprenderne altre, se non avessi trovato dentro me stessa quello che tanto cercavo nei miei personaggi, costringendoli a forzature intollerabili, solo per costruire teoremi astratti, contrasti innaturali, esperimenti narrativi su variazioni rapsodiche, quasi che la scrittura fosse un insieme di funzioni algebriche piuttosto che una materia per plasmare mondi immaginari.

    Eppure avevo sempre disdegnato ogni tipo di realismo, non mi ero mai cimentata nello scrivere storie di vita vissuta intorno a cose di tutti i giorni, il solo pensiero mi faceva venire l’orticaria, e poi io non ne sapevo niente, non avevo la più pallida idea di come andasse il mondo, mi ero sempre inventata tutto continuando a divorare storie altrui, tanto da non avere la pazienza di indugiare su infinitesimi dettagli o sfumature evanescenti, per me contavano solo le intuizioni folgoranti o le improvvise epifanie. La scrittura era sfida, lotta, rischio, talvolta incognita o disfatta, mai comunque conforto o appagamento, detestavo ogni forma rassicurante o consolatoria, adoravo invece l’ingegnosa cattiveria o la morbosità sofisticata, insomma avevo fuggito come la peste ogni narrazione intimista, psicologistica, sentimentale, autobiografica.

    E ora proprio i miei personaggi saltavano fuori a dirmi che dovevo fare i conti con me stessa, guardarmi dentro, capire al fondo la mia indole, mettermi nei loro panni, lasciarli liberi di essere persone vere? Ma cosa si erano messi in testa? Che ero qui a raccontare fiabe per infanti o novelle per massaie? Anche a volerlo fare non ne sarei stata capace poi, mi mancava l’improntitudine, se non la svagatezza, io che costruivo sistemi contorti di mondi impossibili cosa avrei mai potuto raccontare alla gente comune, ovvero al mondo, ovvero a quella realtà che avevo tanto snobbato e da cui mi ero sempre sentita esclusa?

    Ma non avevo scelta, ora era tutto diverso, non potevo ignorare quella messa sotto scacco, ne andava della mia stessa scrittura, orfana ormai delle proprie invenzioni, che si erano sottratte a ogni forma di arbitrio, senza concederle nulla, se non l’opportunità di rinnovarsi sotto altra forma. Ma quale forma? Mica potevo raccontare ciò che non sapevo, o che nemmeno immaginavo, o che non intendevo contemplare… non si può scrivere contro natura, è pernicioso e poco salutare… occorre almeno assecondare l’estro e andare incontro alle proprie inclinazioni, altrimenti si rischia di fare solo un gran tonfo, esponendosi al ridicolo o al dileggio, con conseguenze difficili da immaginare.

    Solo allora mi vennero in mente i viaggi. Già, avevo sempre amato viaggiare, nel senso letterale del termine, adoravo percorrere distanze con tutti i mezzi, volare soprattutto e non di meno navigare. Ma le mete erano state quasi sempre città d’arte, avevo una morbosa predilezione per le metropoli in sé, in tutta la loro complessità, e alla fine quelle europee le avevo viste tutte, con un’attenzione quasi maniacale, in particolare nei confronti della gente che ci viveva. Tanto da collezionare diari di viaggio che poi traducevo in apologhi, ritratti, memoriali, a seconda degli aspetti più remoti che colpivano la mia bulimica curiosità. Quella in fondo poteva essere una buona materia per avere una presa sulla realtà, ma se andavo a rivedere i miei scritti erano tutte riflessioni filosofiche oppure digressioni umoristiche o ancora invenzioni grottesche che poco avevano a che fare con l’esperienza del viaggio, vi si ispiravano vagamente per poi prendere quella tangente che mi aveva portato nel sogno a fare a cazzotti con i miei stessi personaggi.

    Dovevo trovare qualcos’altro per esorcizzare quella sorta di deriva cui mi abbandonavo ogni volta che scrivevo, quasi fosse un fuoco sacro che mi sottraeva a ogni piano di realtà, ma avevo bisogno di uno spunto, una chiave, un’intuizione per scuotermi da quell’ipnosi, non bastavano le rappresaglie delle mie creature, le rivendicazioni dei diritti umani e le relative minacce di sommossa. Poteva essere una presa di coscienza, ma non una soluzione letteraria, quella dovevo cercarla altrove, fuori di me e allo stesso tempo nel mio profondo.

    E cosa di più intimo poteva esserci di quell’errore genetico stampato in tutte le mie cellule, almeno in quelle muscolari, che aveva demolito a poco a poco l’architettura di tutte le mie forze, allentando le giunture e irrigidendo i legamenti, fino a rendermi incerto il passo, precario l’equilibrio, debole la spinta, aleatorio il movimento? Tanto che una figura canonica della mia vita era diventata la caduta. Crollavo di botto, come un burattino senza fili, per un semplice inciampo, o un passo falso, o una stupida storta, sentendo tutta la forza di gravità che mi tirava giù, senza poterle offrire alcuna resistenza. Al punto che mi ero specializzata nelle cadute, alla stessa stregua di una cascatrice di film d’azione, andavo in spaccata, o mi chiudevo a libro, o rotolavo sulle spalle, talvolta ricevevo anche i complimenti, più spesso invece mi toccava rialzarmi e rassicurare gli astanti che ero rimasta tutta intera.

    Ma non sempre andava bene, proprio quando stavo in casa o facevo pochi passi mi capitavano le cadute più rovinose,   bastava allentassi la guardia che quella dannata forza mi tirava giù di colpo, senza lasciarmi il tempo di pararmi, e allora erano colpi, non sempre in posti idonei a sopportarli. Ginocchia e glutei erano già stati messi a dura prova, ma quando cominciai ad atterrare con la faccia era più difficile persuadere gli altri che non si trattava di un marito geloso.

    E fu proprio in una di queste cadute, particolarmente funambolesca, che mi tornò in mente l’ineluttabile legge di gravitazione, che faceva precipitare ogni cosa verso il suolo e allo stesso tempo la teneva ancorata a terra, con una determinazione incontrastata, che rifletteva la caduta dei gravi e il moto degli astri, con tutte le interpretazioni poetiche, metaforiche, simboliche che ne scaturivano, facendo della cosa più naturale del mondo un fascinoso elemento di interrogazione.

    Capii allora che per me quella poteva essere una trappola ma allo stesso tempo una riscossa, come se quel precipitare a terra con il corpo non fosse che un contrasto al mio decollare con la mente, un giusto contrappasso che richiamava la tendenza all’astrazione su un piano di spietata concretezza. Volavo con la testa ma non mi reggevo sulle gambe, chissà se per qualche equilibrio astrale proprio la caduta non mi avrebbe riportato con la forza in una realtà che cercavo in tutti i modi di ovviare con la fantasia.

    Infatti come fantasmi nella notte a un tratto cominciarono ad apparirmi in sogno tutte le persone che avevo fino allora conosciuto, per presentarmi il conto delle relazioni avute con me; prima chi non avevo amato, poi chi avevo amato troppo, amici che avevo perso per strada, altri cui non avevo dato scampo, allievi troppo pretenziosi e colleghi troppo indifferenti, per non dire di familiari sparsi dagli improbabili legami che accampavano diritti e ignoravano doveri, insieme ad altri conoscenti, avventurieri, opportunisti che ostentavano discredito o possesso, quando non addirittura rivincita o vendetta. Mi sentivo un po’ come re Riccardo, la notte prima dell’ultima battaglia, quando gli apparivano gli spettri di tutte le sue vittime a rinfacciargli i molteplici misfatti, seppure spesso io mi ritrovassi a essere la vittima piuttosto che il tiranno. Tuttavia le botte in terra mi avevano ravvivato la percezione dell’umanità che avevo avuto intorno nella vita e più spesso nella fantasia, un immenso bacino d’esistenze che si squadernava al mio cospetto implorando in realtà una cosa sola, quella di essere raccontato.

    E a un tale appello non potevo sottrarmi. In fondo tutto prendeva le mosse da un errore di sistema, da cui scaturiva la caducità della salute, che provocava poi l’intoppo, il volo, la caduta, da cui emergeva il richiamo alla legge di natura, alla dimensione dell’ineluttabile, al particolare della gravitazione e all’universale dell’invenzione, dove l’accidente di un urto portava dritto all’intuizione di una storia. I cui personaggi poi erano le mie stesse ossessioni, che liberavano tutte le energie compresse dall’apnea forzata di una vita, slittata su un piano di irrealtà per ovviare ai buchi neri, e riportata infine a terra grazie a quella gravità, mai così leggera e illuminante.

    Così proprio da una caduta sarei potuta decollare, con l’idea che dopo una schiacciata c’è sempre un rimbalzo, e invece che dall’alto delle mie fantasmagorie avrei osservato le cose dal basso del mio crollo, cogliendo il dettaglio dell’impatto per raccontare l’anelito alla levità, la realtà della rovina per inventare una possibile riuscita. Perché in fondo la vita era fatta di impronte, non di abbagli, era segnata da solchi non da ombre, nella polvere c’era più verità che nel vento… tanto che non riuscivo più a stare nella pelle e morivo dalla voglia di riprendere sonno per andarlo a dire subito ai miei personaggi… mi immaginavo già le loro facce.

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