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I SOLITI IGNOTI: L’INADEGUATEZZA DELL’ESSERE

  

Nell’ambito della cinematografia monicelliana I soliti ignoti (1958) segnano un punto di svolta su più versanti: innanzi tutto perché a questo film si fa risalire l’inizio della «commedia all’italiana» che nel decennio successivo darà i suoi migliori frutti, tra cui diversi firmati dallo stesso Monicelli; inoltre, il grosso successo di pubblico e di critica riscosso dal film modificò radicalmente sia l’immagine del regista che quella degli sceneggiatori Age e Scarpelli, fino allora considerati autori di film di «serie inferiore»; infine, fu l’occasione decisiva per Vittorio Gassman di interpretare il suo primo ruolo comico – dopo una serie di ruoli soltanto avventurosi o drammatici – che gli permise in seguito di dare vita a una galleria di personaggi inabili e grotteschi.

I soliti ignoti si presentano come una commedia “matura”, con una struttura composita e un intreccio articolato, popolata da personaggi “a tutto tondo” (privi di un’impronta bozzettistica o caricaturale), ma soprattutto caratterizzata da una doppia natura tragicomica, ricca di tinte satiriche ed esilaranti e al contempo attraversata da toni sconsolati e malinconici. Possiede, in sintesi, quella dimensione chiaroscurale di cui parla Maurizio Grande a proposito delle modalità di “scrittura” da parte di Age e Scarpelli:

 É sul piano della composizione che riscontriamo i tratti caratteristici della scrittura cinematografica di Age e Scarpelli, la modulazione del drammatico e del comico, l’intonazione epica della commedia. Ci troviamo dinnanzi ad una orchestrazione polifonica di temi e motivi, situazioni e personaggi, sfondi e primi piani (nel senso drammaturgico del termine) diversamente graduati e sfumati secondo angolazioni, voci, ambienti e azioni che costituiscono l’individualità stilistica degli autori. Un’individualità di stile e di contenuto che, con una formula, si potrebbe chiamare il chiaroscuro della commedia epica. (1)

 La nozione di «chiaroscuro» possiede dunque una duplice valenza: si riferisce sia alle diverse tonalità della commedia (il tragico, qui rappresentato dalla morte di Cosimo, e il comico, offerto dalle avventure per realizzare il “colpo grosso”), sia all’alternanza di prospettive adottate nella scrittura (la «focalizzazione» sull’individuo, con il suo “malessere” comico-drammatico, e la «focalizzazione» sul gruppo sociale, posto su uno sfondo epico-moderno). E proprio dal conflitto generato per un verso dalle pulsioni primarie dell’individuo e per l’altro dagli ostacoli imposti dalla società, scaturisce, come fa notare Grande, quella «crisi della soggettività post-tragica» che rappresenta il tratto costitutivo della commedia moderna. (2)

L’idea de I soliti ignoti nasce dalla volontà, come spiega lo stesso regista, di fare una parodia del genere poliziesco-gangsteristico (pensando a film come The Asphalt Jungle o Du Rififi chez les hommes), attraverso una sorta di contrappunto paradossale: «Mentre in Rififì c’era un colpo attuato in maniera magistrale, con grande precisione, noi volevamo mostrare una banda di cialtronelli che tentava un colpo più grosso di loro e che poi falliva.» (3) La dimensione parodistica, dunque, non scaturisce soltanto dal fallimento grottesco del “colpo grosso”, ma è alimentata soprattutto da quell’umanità umile, spicciola e meschina che si confronta con un’impresa spropositata rispetto alle proprie risorse e abilità. Questo “scarto” – tra l’obiettivo proposto e le effettive possibilità di raggiungerlo – crea una sorta di “cortocircuito” tragicomico, in cui l’inettitudine dei protagonisti smaschera la loro semplicità d’animo e povertà di spirito, proprie di una vita fatta di espedienti, inganni e piccoli furti che non lascia grandi opportunità per riscattarsi dal proprio status sociale. La stessa ambientazione, «in una Roma di borgata, tutta grigia ed anonima» come precisa il regista, costituisce un’importante novità nel panorama della commedia italiana anni ’50, dal momento che offre uno spaccato della città alquanto drammatico e tutt’altro che “brillante”, laddove si celebra una Roma degradata e stracciona, fatta di catapecchie di periferia, case-roulotte, panni stesi, immondizia e squallore. (4)

Oltre alla composizione “chiaroscurale” della sceneggiatura e all’ambientazione “sottoproletaria” della storia, l’elemento più innovativo e originale del film è tuttavia costituito dall’articolata caratterizzazione dei personaggi, ormai non più ritratti secondo i moduli del bozzettismo o della caricatura ma arricchiti da un proprio spessore umano ed affettivo. Come fa notare Stefano della Casa, la costruzione delle fisionomie caratteriali si basano, paradossalmente, su

 (…) una precisa de-strutturazione dei ruoli che accomuna tutti i partecipanti dell’improbabile banda. Marcello Mastroianni, fino ad allora seduttore latino, è tiranneggiato dalla temutissima moglie, mentre il “povero ma bello” Renato Salvatori diventa riflessivo dimenticando lo spumeggiante vitalismo che lo aveva fatto emergere nei film diretti da Dino Risi; per non parlare di Carlo Pisacane, caratterista napoletano al quale viene affibiato un vernacolo bolognese che non lo abbandonerà per tutta la carriera successiva. Quanto a Tiberio Murgia, il suo ruolo sembra la parodia dell'”attore preso dalla strada” sul quale era stata costruita tanta letteratura ai tempi del neorealismo (…)» (5)

 Ma l’attore sul quale viene attuata la metamorfosi più “esemplare” è senz’altro Vittorio Gassman che dal ruolo drammatico di “villain raffinato” passa a quello comico di “plebeo inabile” attraverso una serie di trucchi che ne alterano i lineamenti (una parrucca gli riduce la fronte da intellettuale, un po’ di ovatta gli “corregge” il naso aquilino) e soprattutto i toni della dizione (la trovata di farlo zagagliare lo rende ancora più simpatico e “suonato”). Questo passaggio essenziale da un genere all’altro da parte dell’attore sembra tuttavia essere avvenuto ancora prima nel teatro, dal momento che, come afferma Marco Chieffa, questo «sdoppiamento di personalità che si basa sulla trasformazione dell’aspetto fisico, dei lineamenti del viso, della mimica e dei toni di dizione, si collega a una svolta teatrale precedentemente raggiunta a partire dalla rappresentazione del Kean, genio e sregolatezza (1955), rivisitazione fatta da Sartre del Kean di Dumas». (6) In effetti Gassman, confrontandosi con la figura del grande attore inglese, ne aveva interpretato tutte le sue sfaccettature contraddittorie – dall’inimitabile talento istrionico alle irriducibili intemperanze caratteriali – attraverso un piglio velatamente autoironico che metteva in discussione sia il ruolo dell’attore che l’arte del teatro.

All’interno della storia i personaggi vengono presentati secondo un modulo “a catena” in cui l’uno rinvia all’altro, nell’accorato tentativo di trovare una “pecora” per il capo della banda arrestato durante il furto di una macchina, che possa scontare per lui la pena in cambio di un discreto compenso. L’idea è dello stesso Cosimo che tanto è maldestro nei suoi tentativi di furto quanto si rivela esperto di codice più del suo avvocato, al punto di “liquidarlo” e dare disposizioni all’amica Norma di cercare un incensurato che al posto suo possa ottenere subito la condizionale. Ma i ladruncoli che via via vengono fuori dalla ricerca sono uno più “inguaiato” dell’altro: Capannelle (Carlo Pisacane), il vecchietto bolognese vestito da fantino e dilaniato da una fame atavica, ha fatto la “pecora” già tre volte e teme che se si ripresenta «gli danno l’ergastolo»; Mario (Renato Salvatori), un giovanotto ridotto a rubare persino le carrozzine perché sono «l’unico veicolo rimasto senza antifurto», è troppo legato alla madre per dirle che deve andare in prigione; Ferribotte (Tiberio Murgia), un siciliano antiquato e spavaldo che tiene sotto chiave la sorella perché non venga disonorata, non è disposto a lasciarla sola perdendo la faccia con il suo aspirante fidanzato; Tiberio (Marcello Mastroianni), un miserabile fotografo cui hanno arrestato la moglie per spaccio di sigarette, è costretto a badare al suo marmocchio che non vuole (prima del tempo) lasciare in prigione insieme alla madre; infine Peppe «er Pantera» (Vittorio Gassman), inizialmente restio a farsi coinvolgere perché troppo preso dalla sua «carriera pugilistica», accetta “la parte” quando al primo cazzotto dell’avversario viene steso subito al tappeto.

Come si può notare da questi brevi profili, tutti i protagonisti del film – rigorosamente uomini – sono caratterizzati dalle “insolite” relazioni che intrattengono con le figure femminili della loro vita: innanzi tutto Cosimo che promette alla sua “amica” Norma, unico personaggio dai contorni lasciati vaghi e incompiuti, di comprarle una pelliccia se gli riesce il “colpo grosso”, pur non essendo disposto a sposarla perché non vuole prendersi «un’altra condanna». Mario invece sembra affetto da una sindrome di “mammismo”, così attaccato alla “madre” da regalarle sempre tre oggetti uguali (tre ombrelli, tre grembiuli), finché non si scopre che è stato un orfano allevato in un convento da tre suore, che considera tutte sue “mamme”. Ferribotte, dal canto suo, ha un rapporto morboso con la sorella – sorvegliata a vista quando lui è in casa, chiusa sotto chiave quando egli deve uscire – nell’intento tipicamente siciliano di garantirle un adeguato matrimonio, che alla fine – dopo lo “scandalo” – verrà concordato con Mario. Infine Tiberio, nei confronti della moglie, si trova in una situazione addirittura rovesciata: lei è in galera a scontare la pena e lui è rimasto a casa ad accudire il pupo, che solo il giorno del “colpo grosso” decide di portarlo alla madre, promettendo di comprarle un «materasso novo» per quando esce di galera. Ma anche gli altri personaggi non sono meno coinvolti dai rapporti con le donne: lo sdentato vecchietto Capannelle sogna, una volta presi i soldi del bottino, di farsi finalmente un’amante tutta per sé; Mario rinuncia addirittura alla rapina, per riparare l’affronto fatto a Ferribotte e sposarne così la sorella di cui si dichiara innamorato; ma soprattutto Peppe, pugile da strapazzo e impenitente seduttore, corteggia la smaliziata cameriera che lavora nell’appartamento adiacente a quello dello scasso, per poi ritrovarsi incapace di “metterla nei guai”, rinunciando a sottrarle le chiavi per facilitare il colpo.

Per quanto la bontà di fondo di questi semplici ladruncoli non solo li rende incapaci di essere dei veri delinquenti, ma crea tra loro una sorta di solidarietà per le reciproche sventure, la vera occasione che può cambiare le loro vite si origina in realtà da un tradimento. É Peppe «er Pantera» che una volta entrato in galera per far uscire Cosimo, si fa dire da questi qual’è il grande colpo che ha in testa, lasciandogli credere che gli hanno dato addirittura tre anni. Per la verità ha avuto solo un anno con la condizionale, in quanto incensurato, cosicché può uscire subito e andare ad attuare il piano “soffiato” al compagno, lasciandolo beffato a disperarsi dentro la prigione. E proprio questo disonesto stratagemma segnerà la sorte di Cosimo che non accetterà di entrare nella banda per potersi vendicare da solo, andando così incontro al suo tragico destino.

La sequenza della progettazione del colpo è forse una delle più interessanti dal punto di vista della scrittura filmica. Essa si origina all’interno della casa dove Peppe spiega ai compagni il piano di Cosimo. Nel corso dell’esposizione la macchina da presa si muove negli esterni del luogo in questione (il Monte di Pietà di Via delle Madonne), prima con un carrello laterale lungo la strada che scopre l’ingresso e le finestre del locale, poi arrivata all’angolo compie uno zum repentino sulla finestrella della carbonaia (attraverso la quale si dovrebbero introdurre i soliti ignoti) e all’interno di questa inquadratura ristretta si vede Ferribotte che entra da destra, si guarda intorno, fa finta di allacciarsi una scarpa sull’inferriata della finestra e poi riesce da sinistra dicendo il tipo di tronchesi necessarie a rimuovere il lucchetto della grata. Sempre seguendo le spiegazioni date dalla voce di Peppe fuori campo, la macchina da presa illustra il percorso da compiere per raggiungere la preziosa “comare” attraverso una lenta panoramica che prima scende dalla finestra della carbonaia, poi risale lungo una scaletta interna e un’altra di ferro esterna, ancora si muove da destra verso sinistra scavalcando un lucernario, per arrivare infine a inquadrare il terrazzo condominiale e da lì zummare di nuovo sulla finestra della stanza dov’è custodita la cassaforte. A questo punto, nell’inquadratura successiva, si vede in controcampo la banda dei ladri, che si era lasciata dentro la casa agli inizi dell’esposizione, ora affacciata sul terrazzo di fronte a seguire le ultime indicazioni di Peppe: accanto alla finestra dell’agenzia dei pegni c’è quella di un appartamento disabitato, nel quale è possibile entrare facilmente per fare un buco nella sottile parete che separa dal bottino. Il piano dunque è «scientifico» come dice l’ex-pugile, manca solo un esperto in casseforti per capire qual’è il metodo migliore per accedere ai preziosi.

A questo punto compare Dante Cruciani, l’esperto di scasso in libertà vigilata interpretato da un brillante Totò, al quale basta vedere una sgangherata ripresa fatta da Tiberio il fotografo con una macchina scadente rubata a Porta Portese (7), per capire che la cassaforte «è una Commodoro modello 50 e non di quelle più ostiche». Per offrire la sua consulenza, tuttavia, richiede un compenso di 50.000& che stavolta viene rimediato senza il ricorso ad un altro furto, grazie all’intervento di Mario che, facendo leva sul senso materno delle sue tre “mamme” adottive, riesce a ottenere i soldi con la scusa di volersi comprare un cappotto. A questo punto Totò può dare vita ad uno dei suoi più esilaranti “siparietti”, in cui espone la sua perizia attraverso un discorso estremamente serio ed impegnato che si rivela un piccolo capolavoro di assurdità e di controsenso:

 «Ogni cassaforte è diversa dalle altre. Ci sono quelle con le sbarre a crociera, quelle triangolari e quelle circolari. La chiusura è a tutta tenuta senza fessure. (…) Molte casseforti hanno tre o quattro serrature, una però è quella che conta…
      «E come si fa a capirlo?»
«Eh come si fa… trapano, buchetto e cannello! Si riempie la cassaforte d’acqua… dalla serratura che esce il liquido acquatico, diciamo così, quella è la pula.»
      «Ma è un sistema pratico?»
«No. Oh ragazzi, mettiamoci bene in testa che con le casseforti non c’è mai nulla di sicuro. Uno solo è il mezzo sicurissimo: la sega circolare.»

 In questo modo, escludendo il sistema del «fu Cimin», scassinatore veneziano che saltò in aria con tutto il suo carico di dinamite, Dante Cruciani mostra ai suoi allievi, attraverso la carcassa di una vecchia cassaforte, due tipi di scassi fatti con sega circolare: un «orifizio» ottenuto in un ora e quindici minuti con una sega a corrente industriale dall’ingombro di 50 Kg., e un altro «pertuso» compiuto in circa tre ore con una sega tedesca a mano assai più leggera. Ma gli increduli ladruncoli non faranno in tempo a capacitarsi del metodo migliore per mettere a segno il loro piano, in quanto la “lezione” di scasso verrà interrotta dal consueto controllo dei brigadieri sulla vita di Dante, con la conseguente scenetta finale del bucato in terrazza in cui Totò conclude: «Buon giorno, brigadiere! Come vede… si lavicchia!»

Coerentemente al suo doppio registro tragicomico il film si sviluppa in seguito attraverso l’alternanza di due storie parallele: quella comico-leggera in cui Peppe corteggia la domestica che lavora presso l’appartamento adiacente all’agenzia dei pegni – in realtà non sfitto, come si credeva, ma abitato da due anziane signore – per riuscire a prenderle le chiavi con cui entrare nella casa senza passare dalla carbonaia, e quella drammatica di Cosimo che, uscito di galera per un’amnistia, rifiuta di partecipare al colpo con la banda di Peppe e decide di vendicarsi tentando da solo una rapina a mano armata ai Monti di Pietà, che tuttavia fallisce miseramente con la divertente gag della pistola. I toni “chiaroscurali” si alternano allora in un’altalena comico-drammatica tra l’impacciato corteggiamento della servetta lungo il fiume, la dolorosa “resa dei conti” tra Peppe e Cosimo al luna park, il movimentato ballo in maschera con la “scazzottata” finale e il triste tentativo di furto con il retrogusto comico della gag della pistola. Come intermezzo tra le due storie si inserisce inoltre la vicenda, anch’essa dolce-amara, dell’innamoramento di Mario per la sorella di Ferribotte e della conseguente indignazione di quest’ultimo con relativo proposito di vendetta.

Il climax drammatico dell’intreccio, tuttavia, viene raggiunto con la scena del tentato scippo da parte di Cosimo che nella fuga trova la morte investito da un tram. Questa è forse la sequenza meno felice del film, in quanto l’ultima parte è girata in maniera molto affrettata e quasi irreale: fallito lo scippo Cosimo si mette a correre per un breve tratto, a piccoli passi sempre più veloci, quando all’improvviso sopraggiunge un tram sotto il quale sparisce di colpo con le braccia alzate, cui segue subito una dissolvenza incrociata che porta alla successiva sequenza della camera mortuaria. Ciò nonostante, tanto è sfuggente il momento tragico del film (sul quale forse non si è voluto troppo calcare la mano), quanto appare eccessivo il cordoglio degli amici riuniti per l’estremo saluto. Quella reale solidarietà che si verrà a creare tra alcuni personaggi nelle scene successive (in particolare tra Peppe e la cameriera e tra Mario e Ferribotte), qui sembra del tutto forzata, con il ridicolo mazzetto di fiori che Peppe da a Mario per portarlo alla salma, con la scontata riflessione di Dante Cruciani sulla morte che non risparmia nessuno e con la patetica figura di Tiberio che si presenta persino al funerale col pupo piangente in braccio. Ma nonostante l’atmosfera di lutto il colpo è stabilito e dalla tonalità tragica il film “vira” di nuovo in quella comica.

La storia converge così verso il «grande giorno», ma una serie di “accidenti” producono imprevedibili difficoltà. Quella più eclatante è causata da Peppe che, incapace di tenersi le chiavi sottratte alla cameriera, le restituisce al portiere anziché usarle per violare l’appartamento. Come osserva a proposito Marco Chieffa: «Il personaggio inconsciamente fa di tutto perché l’impresa fallisca, impedendo di fatto la riuscita del colpo. La trama comica si regge sull’incapacità del soggetto di realizzare propositi e progetti troppo grandi, segnando una parabola che indica lo scarto tra identità e maschera.» (8) In effetti è proprio nel personaggio interpretato da Gassman che si concretizza quella parodia autoironica del ruolo di capobanda e di seduttore, da lui rivestito “seriamente” in tanti suoi film precedenti. A questo si aggiunge Tiberio che si presenta la sera del colpo senza il marmocchio ma con un braccio “veramente” rotto da quello stesso commerciante che aveva derubato al mercato e che ora gli aveva richiesto il maltolto. Infine arriva anche Ferribotte, con tanto di coltello in mano per vendicare il “disonore” della sorella, provocando così l’esasperazione di Mario che decide di abbandonare l’impresa perché tanto ha trovato un «lavoruccio» presso il Cinema delle Follie. (9)

Accompagnati dai ritmi incalzanti di una musica jazz composta da Piero Umiliani (sulla base di un duo di trombonisti americani di successo chiamato «J & J»), il quartetto dei “soliti ignoti” si appresta finalmente a compiere la fatidica rapina, ripercorrendo tutte le tappe che erano state esposte da Peppe durante l’ideazione del piano. Nel corso della “violazione” dell’edificio la tensione comica aumenta gradualmente attraverso un caratterizzazione sempre più grottesca e caricaturale dei personaggi, cui si aggiunge un paio di esilaranti contrattempi. Ferribotte, guardandosi intorno con la sua aria mafiosa, si trascina un valigione pieno di ferri lasciati in “dotazione” da Dante Cruciani – una zampa di porco, una “ballerina”, una “cicogna”, uno scalpello spuntato, raspe, cavilli, anguille, una grattaformaggio, uno sturalavandino, una padella e un cric – e che Tiberio, fatalmente impacciato dalla sua ingombrante ingessatura, provvede a rovesciare in un frastuono infernale all’interno della carbonaia. Capannelle dal canto suo, che come mestiere fa essenzialmente il palo, è una vera e propria zavorra da portare a braccia tra una tettoia e l’altra, mentre Peppe, che cerca di coordinare i vari movimenti, non fa altro che ripetere a qualsiasi sussurro o bofonchio: «Zitto! Sta zitto!»

Ma il culmine della tensione viene raggiunto quando i poveri ladri stanno scavalcando la vetrata del lucernario e un’improvvisa illuminazione del locale li costringe a schiacciarsi come ragni sopra i vetri e ad assistere impietriti a un’estenuante discussione tra un uomo e una donna. Una suggestiva inquadratura dall’alto riprende le loro sagome scure disegnate in controluce sopra la vetrata,  seguita poi da una serie di primi piani che inquadrano le espressioni esasperate delle loro facce mentre sotto di essi si consuma una querelle tanto ridicola quanto insensata: «- Te l’avevo detto che non ci volevo venire qui…- Ma perché? – Perché non sei stato sincero con me… – Ah, adesso ti butti in avanti per non cadere indietro! – No è la verità, non ci voglio restare qui… – Ma sei stata tu a volerci venire… – Sì, ma credevo fossi sincero con me… – Ah, ogni volta che non sai che dire mi dai del bugiardo! » e via discorrendo su questi toni finché la coppia non decide di andarsene spegnendo le luci e lasciando i malcapitati proseguire nel loro intento.

Un altro momento di tensione comica si ripropone all’interno dell’appartamento nel quale la banda deve realizzare il buco per raggiungere la cassaforte. Dal primo foro fatto con un trapano a manovella schizza subito un getto d’acqua che fa la doccia a tutti quanti. (10) In quell’istante sopraggiunge il portiere per chiamare le padrone di casa, partite proprio quella sera, e avvertirle che tutto è a posto. Tra sconvenienti miagolii di gatti e acqua che scorre sotto la porta gli incauti ladruncoli riescono a distrarre il portiere e a uscire anche da quest’ultimo impaccio. Il crescendo verso la finale resa dei conti è in realtà assai ben condotto sia dalle battute della sceneggiatura – ricca di molte allusioni, doppi sensi e risvolti comici – sia dalla perizia registica che attraverso la ripresa di ogni singolo personaggio svela il suo mondo di “proiezioni”: Capannelle sogna di farsi un’amante da pagare 25.000£ al mese (con il vitto a suo carico però), mentre Tiberio aspira a comprarsi una casetta a quattro vani e ad avere un libretto in banca per il figlio.

Tutti i castelli di sogni, però, crollano insieme ai calcinacci della parete che cede sotto la pressione del cric, permettendo di accedere alla cucina dello stesso appartamento anziché nella stanza dov’è custodita la cassaforte. L’ultimo, grossolano, madornale errore che commettono i “soliti ignoti” è quello di aver sbagliato parete, ingannati dal trasloco interno compiuto dalle padrone di casa. Ma ormai è troppo tardi per tentare di fare un altro buco nel muro e i poveracci si riconsolano con un’ottima pasta e ceci. In realtà si tratta di un adattamento alquanto rassegnato, in cui non c’è spazio per un riscatto ma solo per una sconfitta. É quell’«epos della castrazione» di cui parla Grande, in cui lo scarto tra la realizzazione della “grande opera” e l’inadempienza da parte dell’individuo «epicizza lo scacco del soggetto», il quale paga il suo «debito simbolico» alla società attraverso la morte o la reclusione che impediscono «l’ingresso dell’individuo nel mondo della legge». (11) In questo film, tuttavia, la castrazione definitiva non viene mai raggiunta – a parte l’episodio precedente della morte di Cosimo – in quanto:

 I protagonisti del “colpo mancato” adottano strategie di inibizione del successo, cioè strategie di castrazione preliminare, proprio per evitare che il “colpo” riesca e per sottrarsi alla pena. (…) Infatti, ne I soliti ignoti non funziona soltanto il divario tra fini e mezzi, fra mete illusorie e inadeguatezza del soggetto, quanto, piuttosto, una specie di sanzione preventiva autoimposta, che fa commettere loro ogni sorta di errori e di elusioni del compito, proprio perché non si compia fino in fondo l’azione che provocherebbe la sanzione. (…) É il fallimento deliberato per non incorrere nel registro della sanzione, continuando a giocare con se stessi e con mete immaginarie per le quali si è assolutamente inadatti. (12)

 Infatti, fallito il colpo, c’è chi ritorna alla propria realtà (Tiberio si avvia in carcere a riprendersi il pupo, Ferribotte fa rientro a casa dalla sorella, Capannelle continua a vagabondare), e chi si adegua, pur contro voglia, a una nuova circostanza: come capita a Peppe che si ritrova dentro un cantiere dove è costretto a lavorare. Anche per questo il film è stato apprezzato per gli spunti di «critica sociale» e per gli elementi di «spessore morale» – soprattutto riguardo il tema ancora pressante della fame trattato agli albori del boom economico – ed è stato considerato da Stefano della Casa «l’unico tipo di film politico possibile in Italia, dove il cinema (…) è sempre stato più propenso ad essere valutato sul piano del contenuto o quantomeno sulla capacità di affabulazione, ed è molto lontano dalla ricerca di rigore e di morale dell’immagine che proprio in quegli anni si teorizzava oltralpe.» (13)

Grazie a queste sue peculiarità, che lo distinsero dal panorama nazionale contemporaneo, il film non solo ebbe un discreto successo in Francia e ottenne la candidatura all’Oscar, ma influenzò tre rifacimenti italiani: Operazione San Gennaro (1966) di Dino Risi, Stanza 17-17 palazzo delle tasse ufficio imposte (1973) di Michele Lupo e La banca di Monate (1976) di Francesco Massaro; inoltre ispirò due opere straniere: Crackers (1983), un remake diretto da Louis Malle e Big Deal (1986), una commedia musicale di Bob Fosse.

Come tutti i fenomeni che propongono contributi innovativi, sia nell’originalità della storia che nelle soluzioni registiche, il film ebbe anche un seguito con L’audace colpo dei soliti ignoti (1959) diretto dall’esordiente Nanni Loy, cui parteciparono gli stessi attori con l’eccezione di Marcello Mastroianni che fu sostituito da Nino Manfredi. Nel film si ripropone alla banda dei “soliti ignoti” l’opportunità di fare il “gran colpo”, questa volta a Milano, rapinando il furgone che trasporta i milioni del Totocalcio. Malgrado l’arresto del milanese ideatore del colpo, i cinque banditelli riescono a impossessarsi del bottino, ma dopo una serie di disavventure decidono di disfarsene. Per quanto qui sia conservato il tema dell’inettitudine a delinquere, esso viene spostato su un altro piano: non più quello dell’incapacità di compiere il reato, ma quello di non riuscire a tenersi la refurtiva, come se il «meccanismo di castrazione» anziché a livello preventivo funzionasse ad un livello riparatore. Dopo circa una quindicina di anni venne proposto un altro seguito con I soliti ignoti vent’anni dopo (1985) diretto da Amanzio Todini e sponsorizzato dallo stesso Monicelli (del cui film furono inserite alcune immagini) in cui gli ormai invecchiati Peppe e Tiberio, insieme a Ferribotte, si ritrovano a tentare un ennesimo colpo, cercando stavolta di portare della valuta all’estero a bordo di un camioncino per turismo. Anche qui la missione riesce, sebbene i mandanti siano di nuovo arrestati, ma la festa finale viene guastata dall’uccisione di Peppe. A parte una comicità che si fa sempre più amara e un senso della morte quanto mai incombente, se nel film si conserva ancora un senso di “inadeguatezza” è semmai nel non riuscire ad adattarsi, come accade a Tiberio, ai tempi ormai cambiati che impongono altre regole nei rapporti umani e soprattutto nuove dinamiche di delinquenza.

Ma se il film di Nanni Loy ha conservato una continuità sia stilistica che tematica con quello di Monicelli e ha ottenuto una discreta fortuna di critica e di pubblico, il film di Todini si è allontanato necessariamente da quell’epos “esclusivo” del miracolo economico, finendo col rivelarsi un insuccesso clamoroso. D’altra parte le componenti innovative de I soliti ignoti – la parodia del genere gangsteristico, l’evento tragico nella commedia, l’alternanza chiaroscurale di toni comici e drammatici, l’ambientazione nello squallore della borgata romana, la profondità psicologica dei personaggi e la loro inettitudine “autoprotettiva” – sono talmente articolate e composite da non potersi prestare ad essere imitate o riproposte, come seppe intuire felicemente Monicelli quando rifiutò di girare L’audace colpo, per dedicarsi l’anno successivo a un altro suo capolavoro tragicomico: La Grande guerra.


     Note:

(1) Maurizio Grande, Il cinema di Saturno. Commedia e malinconia, Roma, Bulzoni, 1992, p. 86.

(2) Nel suo saggio Grande spiega come questa «crisi» esprima la contraddittorietà tra «l’idea di definitezza dell’azione tragica» (il destino) e «l’idea di indefinitezza del soggetto qualsiasi» (l’individualità). In questo modo si può comprendere meglio la duplice ottica del «chiaroscuro»: «Da un punto di vista tematico, questo è il chiaroscuro dell’eroe moderno: soggetto senza destino, individuo senza pienezza di umanità, persona dalle innumerevoli maschere, singolo senza scampo. Da un punto di vista stilistico, questo è il chiaroscuro della composizione moderna: modulazione di tragico e comico, epos senza eroe, stupefacente drammaticità del quotidiano e tragedia ridicola dell’esistenza». M. Grande, Il cinema di Saturno, op. cit., p. 88.

(3) Mario Monicelli, L’arte della commedia, Milano, Dedalo, 1986, p. 57.

(4) É inevitabile in questa sede rinviare a Pasolini che solo due anni dopo girava Accattone seguito poi da Mamma Roma e La Ricotta, in cui le “figure” del sottoproletariato, pur nella loro profonda diversità caratteriale e psicologica, si inscrivono tutte in quel mito dell’innocenza primitiva che li “preserva” – finché rimangono confinati nel limiti territoriali della loro esistenza – dalla corruzione del mondo borghese, rendendoli realmente incapaci (in un certo senso come gli eroicomici de I soliti ignoti) di modificare il proprio destino. La stessa immagine della borgata proposta come sfondo epico nel film di Monicelli, diverrà in Pasolini una vera e propria categoria esistenziale – sede di una purezza arcaica e luogo di rivelazione del sacro – contrapposta dialetticamente a quel «centro di città», dimora della storia e della ragione ma soprattutto fonte di morte – come accadrà anche a Cosimo quando uscito da galera, altro confino, si rimetterà “in gioco” nella città e morirà durante il tentativo di uno scippo.

(5) Stefano Della Casa, Con Monicelli. La parodia di se stessi, in Fabrizio De Riu (a cura di), Vittorio Gassman. L’ultimo mattatore, Venezia, Marsilio, 1999, p. 112.

(6) Marco Chieffa, Plebeo impostore e inabile. Da I soliti ignoti a Brancaleone, in Fabrizio De Riu (a cura di), Vittorio Gassman. L’ultimo mattatore, op. cit., p. 148.

(7) Il furto della piccola cinepresa al mercato rionale è una delle sequenze più classiche nel repertorio di furti compiuti a più mani attraverso l’inganno. Mentre Tiberio con un braccio ingessato distrae il commerciante con l’aiuto di Ferribotte, Capannelle, nascosto sotto il suo cappotto, sottrae la macchina dal banco e la passa a questi dietro la schiena, il quale a sua volta la consegna nelle mani di Mario, affacciato su un altro banco, squagliandosela in tempo prima che il derubato possa tornare sulle sue tracce.

(8) Marco Chieffa, Plebeo impostore e inabile. Da I soliti ignoti a Brancaleone, op. cit., p. 149.

(9) Nella connaturata bonarietà dei personaggi anche questa storia si risolve con la comprensione e un reciproco patto di fiducia, dal momento che Ferribotte torna da Mario, prima di tentare il colpo, affidandogli addirittura la “custodia” della sorella, perché persuaso della bontà del giovanotto e del suo «senso materno». Questa conclusione, tuttavia, appare, nell’economia del film, assai precipitosa e un po’ troppo melensa.

(10) Comune a tantissime comiche la gag viene ripresa anche nell’ultimo film di Woody Allen, Criminali da strapazzo (2000), in cui si ripropone la medesima dinamica di rapina: penetrare dall’appartamento adiacente nel locale dov’è custodito il bottino attraverso un buco nel muro. Solo che nel film di Allen viene portato tutto agli estremi: non si tratta semplicemente di un buco ma di un vero e proprio tunnel da scavare sotto una cantina e il getto d’acqua che ne esce, violento come un fiume in piena, allaga irrimediabilmente tutto il locale. Anche i componenti della banda si rivelano inabili e sprovveduti come quelli di Monicelli, solo che a loro toccherà in sorte un altro paradossale destino, malgrado anch’essi falliscano il colpo.

(11) Maurizio Grande, nel suo saggio Il cinema di Saturno, op. cit. p. 91, parla del meccanismo della castrazione (con riferimento agli scritti di Jaques Lacan), mettendolo in rapporto sia «all’ordine della legge» che al «registro della sanzione». La castrazione, dunque, «rappresenta la minaccia incombente sul soggetto inadempiente; un «debito simbolico» che prima o poi deve essere pagato e che pesa sull’individuo come sospensione della pena nei riguardi della sua colpa

(12) Ivi, p. 92, corsivi nel testo.

(13) Stefano della Casa, Mario Monicelli, Firenze, La Nuova Italia, 1986, p. 33.

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