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POTENTE, IMPIETOSO, ORIGINALE:

IL PRIMO TITUS SULLO SCHERMO

  

Esistono alcune opere di Shakespeare che sono entrate nella memoria collettiva. Amleto, Otello, Macbeth, Re Lear, Romeo e Giulietta, Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, La Tempesta appartengono ormai ad un patrimonio comune condiviso da molte culture spesso distanti e diverse tra loro. Di queste opere sono state realizzate versioni cinematografiche (e teatrali, naturalmente) nei paesi dell’Europa orientale come in quelli scandinavi, in America Latina come in India e in Cina, nel Giappone come addirittura nel Ghana o in altri paesi africani; per non parlare dei diversi generi (storico, western, gangster, fantascienza, costume) cui sono stati adattati – e spesso riveduti o modificati – i drammi più noti.

Sebbene il cinema abbia ampiamente contribuito a rilanciare molte tragedie di Shakespeare (immortalate fino allora solo in teatro) e a proporre alcune tra le commedie più vivaci e brillanti (vedi ad esempio le versioni di Kenneth Branagh), sono rimaste alcune opere, come Troilo e Cressida, Coriolano, Tito Andronico, Timone d’Atene, Cimbelino e Pericle (tutte ispirate alla storia greca o romana) cui raramente è stato riservato un trattamento cinematografico.

Indubbiamente i protagonisti di questi drammi risultano assai meno articolati e complessi rispetto ad altri che sono diventati dei veri e propri paradigmi dell’esistenza umana, per quanto le loro storie – per scrivere le quali Shakespeare si è basato sulle fonti storiche relative alle guerre greche e all’impero romano – riflettono un’elevata maturità compositiva e un’accurata definizione dei caratteri, cui il drammaturgo era giunto negli ultimi anni della sua produzione.

Solo il Titus Andronicus (scritto nel 1594, appena dopo le tre parti dell’Enrico VI) è di fatto un’opera giovanile, per tanti aspetti assai diversa dalle altre, forse unica nel suo sviluppo narrativo e nella sua risoluzione drammatica. Nel Titus tutti gli equilibri tra abuso di potere e riscatto della giustizia, tra malvagità tracotante e saggezza misurata, tra cecità della passione e acutezza dell’ingegno vengono fatalmente a saltare. Non esiste più uno sviluppo lineare in cui il male soccombe al bene, oppure il giusto si sacrifica al disonesto, o ancora l’astuto inganna lo stolto. La figura che emerge è una spirale diabolica di soprusi, ritorsioni, violenze, suppliche, vendette e delitti.

Il primo a dimostrarsi cinico e spietato nelle sue risoluzioni è lo stesso Tito, che non esita a sacrificare Alarbo, primogenito di Tamora, ignorando con sprezzo le suppliche della madre, pur di onorare con il sangue nemico la tomba dei propri figli caduti in guerra. Così come non esita a uccidere il più giovane dei suoi figli perché aveva osato difendere Lavinia dalla sua volontà di darla in sposa al nuovo imperatore Saturnino, sottraendola al legittimo fidanzato Bassiano. Tamora, dal canto suo, non sembra essere da meno. Con la complicità del suo amante Aronne architetta una trappola per uccidere Bassiano, offrire Lavinia alla cupidigia dei suoi figli e scaricare la colpa su quelli di Tito. Non servirà la mano mozzata di quest’ultimo per evitare la morte dei due giovani, le cui teste verranno restituite al padre insieme alla stessa mano. Ma, d’altro canto, con una figlia violentata e orrendamente mutilata, due figli ingiustamente uccisi e un altro esiliato, la reazione di Tito, in questo gioco orripilante e disumano, non può essere che atroce. Egli infatti cattura i figli di Tamora, li sgozza come vitelli, con le carni ne fa un impasto e lo offre durante un banchetto alla stessa madre. Poi uccide di fronte a tutti la figlia Lavinia, per risparmiarle la vergogna di sopravvivere al suo ignobile scempio, infine trafigge Tamora dopo averle svelato la “natura” del suo pasto. Per questo egli verrà ucciso da Saturnino, il quale sarà subito giustiziato da Lucio, primogenito di Tito.

Da questa breve sinossi dei delitti si può notare come non esista più alcuna “etica” umana di giustizia in base alla quale si possa stabilire chi sono le vittime e chi i carnefici. Nella catena di efferatezze gli stessi protagonisti Tito e Tamora si scambiano più volte i ruoli: Tito all’inizio è carnefice, uccide impietosamente, poi diventa una vittima supplice altrettanto umiliata, infine si trasforma in un crudele vendicatore; Tamora invece è una vittima che supplica invano, poi costruisce una piano diabolico di vendetta feroce, per ritrovarsi infine atrocemente punita. Per questo il Titus Andronicus rimane una delle opere più difficili da mostrare e da giudicare. Da “mostrare” perchè il leit motif di tutta la storia è sempre una violenza efferata quanto selvaggia, in cui protagonista incontrastato è il sangue, accompagnato da teste tagliate, mani mozzate, viscere bruciate e carni cucinate, tanto da rendere difficile qualsiasi rappresentazione che aspiri ad essere “realistica” e fedele al testo. Da “giudicare” in quanto gli stessi valori umani e morali della poetica shakesperiana sembrano fatalmente traditi, come se il circuito perverso di questa malvagità ferinamente ricambiata non lasciasse spazio ad alcuna salvezza o riscatto finale in grado di legittimare un’interpretazione più equilibrata del dramma.

Il film diretto da Julie Taymor, regista teatrale che aveva già realizzato La Tempesta di Shakespeare per la televisione, offre una versione del Titus Andronicus di grande potenza espressiva. Innanzi tutto per l’ambientazione. La ricostruzione di una Roma imperiale attraverso l’architettura moderna degli edifici dell’Eur si rivela senza dubbio una scelta estetica di grande fascinazione. Le stesse inquadrature che riprendono dal basso, dall’alto o di taglio i possenti palazzi della capitale contribuiscono ad offrire quel senso di grandezza e di sfarzo dell’impero, che si accentua e si connota di ulteriori valenze nelle riprese in interni. Non manca, tuttavia, una Roma per così dire “minore”, autentica ed originale, attraverso i cui vicoli sfilano i due cortei (uno con le bandiere giallo-rosse e l’altro con le bandiere bianco-azzurre) dei fratelli aspiranti al trono Bassiano e Saturnino. D’altra parte la presenza di Roma come protagonista del dramma è determinante nel Titus, se si pensa alla costante ambivalenza attraverso cui è caratterizzata: per un verso esiste una Roma gloriosa, munifica e potente che bisogna servire, onorare e difendere dai barbari invasori come dimostra di fare egregiamente Tito; per altro verso emerge una Roma corrotta, degenerata e violenta che al contrario occorre tradire, ingannare e distruggere attraverso l’odio e la vendetta come tenta di fare Tamora. Ma paradossalmente, allo stesso tempo, Roma diventa nemica e indegna agli occhi di Tito che si trova abbandonato dallo stesso imperatore, così come offre potenza e ricchezza alla regina Tamora che da prigioniera dei romani diventa loro imperatrice.

Per ciò che concerne, invece, i momenti più sanguinari e truculenti di cui abbonda il testo e che attraverso le tecniche del cinema si potrebbero rendere in modo assai espressivo ed efficace, il film si rivela prodigo di ellissi, rispetta per così dire i “fuori scena” dell’opera teatrale (non si vede né il sacrificio di Alarbo, né lo stupro di Lavinia, né la lavorazione dei corpi di Demetrio e di Chirone), e mostra solo gli elementi “necessari” all’economia della storia, senza dar sfoggio, come al contrario ci si potrebbe aspettare, a compiacimenti granguignoleschi. Al contrario, alcuni momenti particolarmente “crudi” si rivelano addirittura lirici: come accade nell’inquadratura propriamente teatrale che riprende, secondo una perfetta simmetria, il volto sgomento di Tito chinato sulle due teste mozzate dei figli, con la propria mano posata con grazia di fronte all’altra tagliata che giace sopra un cuscino e chiude la composizione in un attonito quadro di dolore.

Gli aspetti, tuttavia, più interessanti di questo film consistono senz’altro nell’inserimento di un prologo e di un epilogo assai originali e significativi, e nei richiami stilistici e formali ad alcuni film precedenti tratti da altre opere di Shakespeare. Julie Taymor decide di inserire due sequenze all’inizio e alla fine della storia il cui protagonista è Ragazzo Lucio, nipote di Tito, che nel film assume un ruolo sempre più importante di osservatore e testimone. Le due sequenze inserite si rivelano, per così dire, complementari. All’inizio vediamo il ragazzo scatenarsi violentemente in un gioco di guerra inscenato con vari strumenti e ingredienti di cucina, che richiama in contrappunto il ritorno trionfale, immediatamente successivo, di un Tito sporco ed esausto dalla guerra contro i Goti. Portato poi, come un animale sacrificale, il ragazzo al valoroso condottiero, segue una memorabile marcia di rientro dei soldati a Roma che annuncia e potenzia il tenore di brutalità e ferocia che pervaderà tutta la storia. Quasi a controbilanciare un attacco così potente, a conclusione di una catena di aberrazioni che non lascia il minimo spiraglio né alla giustizia, né tantomeno alla pietà, compare di nuovo il ragazzo con in braccio il bimbo moro nato dall’unione di Aronne con Tamora (simbolo emblematico della vittima innocente), che si allontana di spalle camminando verso un orizzonte di pace, sopra il quale tramonta un sole immenso che infonde coraggio e speranza alle due giovanissime creature. Tanto è shoccante e violento l’attacco iniziale, quanto sembra essere mite e rincuorante l’ultima scena, in cui il lento cammino del fanciullo insieme al bambino fa pensare a una possibile vita che prosegue oltre il massacro finale.

 Nonostante il film manifesti una sua intrinseca originalità, grazie anche a queste interpolazioni, esso lascia continuamente pensare ad altre illustri trasposizioni cinematografiche delle opere di Shakespeare. In primo luogo, i fasti di una Roma imperiale che richiama la prosopopea del periodo fascista rinvia inevitabilmente al Richard III di Richard Loncraine (1995), ambientato a sua volta nella Germania nazista, in cui la somiglianza dichiarata di re Riccardo con Hitler fa pensare a quella altrettanto esplicita dell’imperatore Saturnino con lo stesso führer (concretizzata soprattutto nel ciuffo di capelli sulla fronte). Ancora, le scene sfrenate di bagordi e di lussuria girate all’interno del palazzo imperiale intorno a un’immensa vasca in cui galleggia un enorme corpo di donna gonfiabile sul quale ci si abbandona ad ogni tipo di lascivia, fanno pensare al Romeo & Juliet di Baz Luhrmann (1996), soprattutto riguardo la sequenza della festa a casa Capuleti, in cui i due giovani si innamorano durante un bailamme di travestimenti, provocazioni e sfrenatezze di vario genere. Infine, le scene “oniriche” in cui si intrecciano immagini simboliche e allegoriche, attraverso le quali Lavinia ricorda l’orrendo stupro subìto e le impietose mutilazioni delle mani e della lingua, richiamano alla memoria Prospero’s Books di Peter Greenaway (1991), girato tutto secondo una tessitura immaginifica, colmo di effetti speciali digitali, guidato dall’unica voce di Prospero che leggendo i suoi libri recita tutte le parti.

Notevole e potente si rivela, allora, questa versione del Titus, ancor più se la si pensa realizzata da una regista teatrale che ha avuto il coraggio e l’ingegno di adattare un testo di tale portata sullo schermo, aiutata senza dubbio dalle eccellenti interpretazioni di Anthony Hopkins e Jessica Lange. E’ anche di fatto il primo Titus realizzato al cinema, che fa ben sperare di poter vedere presto o tardi sullo schermo anche altri eccellenti drammi come Troilo e Cressida, Coriolano e Timone D’Atene, che fino ad ora sono rimasti esclusivo appannaggio della scena teatrale.