L’ultimo orizzonte

L’ultimo orizzonte – Prefazione

 

Sono due isole i luoghi privilegiati di questo romanzo. La prima è un’isola di città (di una città «stregata», che tutti riconosciamo ma che l’autrice non nomina): giace a dividere il fiume, è da millenni abitata, è pervasa di sacro. Lì la protagonista, dal nome virgiliano di Lavinia, incontra frequentemente una parte di sé. La seconda isola è tirrenica, etrusca: vive nella memoria di Lavinia in quanto ospita la casa dell’infanzia – i cui muri respirano, provano e donano emozioni – ed è il luogo dell’immersione nell’orizzonte.
È intorno alla raggiungibilità di questa linea che si dipana il filo più profondo della narrazione. La struttura esterna, in contrappunto, è costituita dalla quotidiana fatica del vivere e dall’intreccio di quattro storie: attraverso gli occhi e la mente di Lavinia seguiamo anche le ricerche interiori, pur ricoperte da concrete necessità, del fratello Arturo e degli amici Bruno e Matilde.
Il procedimento esplicativo di Alessandra Fagioli si basa qui solitamente sul contrasto, come in questo passaggio su Matilde e Lavinia: «si rincorrevano sempre a vicenda, con la curiosità di chi non capisce come faccia a vivere l’altro e nello stesso tempo rimane affascinato dalla sua diversità» (p. 74); o nella relazione di somiglianza/differenza tra i due fratelli: «Desiderava capire fino in fondo perché di fronte alla stessa realtà Arturo riusciva a mantenere un equilibrio serafico e distaccato, mentre lei si lasciava travolgere da momenti di sconforto e di angoscia» (p. 83).
Il conflitto con Arturo è anche motivo di perlustrazione nella scrittura, nel cammino di preparazione di un libro. La stanza delle “carte spiate”, dove egli ammassa letture e appunti, ci trasmette un turbamento segreto, ci appassiona e ci inquieta. La malattia genetica, che accomuna i fratelli, grava sui loro destini ma è portatrice di consapevolezza: ammonisce con emblematicità – con getti espressionistici che solcano un’atmosfera composta e misurata – sul generale dolore di esistere, e sospinge a cercare una chiave di volta nella letteratura e in una tensione di percezione metafisica, più ancora che nei materiali rimedi ai quali aspira la scansione dei giorni.
Entrano nel romanzo le attività della protagonista, che è non per caso una “ricercatrice”. Alessandra Fagioli, però, non ci racconta con precisione l’oggetto degli studi, in campo sociale, di Lavinia; ma si cura di offrirci la sensazione di quello studio, soffermandosi in particolare su una dualità metodologica: «A Lavinia piaceva distinguere e separare, mentre attraverso la statistica era costretta a sommare e ad aggiungere» (p. 91). Il contrasto fra la lettura dei classici e la frequentazione dei numeri consente all’autrice, nel decimo dei quattordici capitoli, un intermezzo che è quasi uno scherzo filosofico, con punte da commedia dell’arte, volto a «dare un’identità personalizzata a un codice così anonimo e artificiale» (p. 93).
Nel capitolo successivo, i tre rapporti essenziali di Lavinia si risolveranno «d’un tratto»: «vdrug», come avrebbe scritto Dostoevskij adoperando uno dei suoi avverbi più caratterizzanti. Mentre gli amici e il fratello sembrano completare in quelle pagine – almeno per la fase della loro vita che il libro ci dischiude – la propria “ricerca”, sarà il crollo dell’abituale sistema di relazioni a costringere Lavinia a un ritorno fondamentale.
L’isola di città ha la forma di una nave; e come «il ponte di una nave» è la terrazza sul mare della sua casa dell’Elba. Se montaliana “occasione” le è data, questa è là dove ella può ancora ammantarsi della propria anima, quasi panicamente immergendosi nel sapore di tutti i propri sensi.
Una prova importante, nei temi e nello stile. Una scrittura capace di variazioni di registro, che seguono l’evoluzione del romanzo adeguandosi a essa con apparente naturalezza.

  Antonio Stango