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STORIA, IDENTITÀ, LINGUAGGIO DEL FOOL NEL TEATRO DI SHAKESPEARE

  

1. L’evoluzione del Fool: dalla dimensione metastorica alla dimensione metateatrale

 L’evoluzione complessa e problematica che subisce la figura del fool durante i secoli XV, XVI e XVII in Europa e in particolare in Inghilterra, si può articolare in base a due sistemi di opposizione distinti e paralleli tra loro: uno di carattere epistemologico-linguistico e l’altro di carattere antropologico-culturale. Può tornare utile prendere in considerazione il saggio di Vanna Gentili: Il fool in Shakespeare e nel teatro elisabettiano,[1] nel quale sono contenute importanti osservazioni sia in merito alla polivalenza semantica della parola «fool» e di tutte le sue accezioni, sia riguardo il contesto culturale al quale la figura del fool si relaziona.

Nella parola «fool» è infatti contenuta una doppia accezione: quella passiva propria del Naturall Fool, ovvero l’idiota per natura nella sua molteplicità di sensi: stolto e sciocco quando si oppone al saggio e allo scaltro, oppure gonzo e babbeo quando si oppone al furfante e al briccone; e quella attiva comune all’Artificiall Fool, ossia colui che professionalmente si finge idiota per divertire, per intrattenere oppure per smascherare la realtà nascosta dietro l’apparenza o la vera follia insita nella saggezza. Il primo quindi è completamente “agito” dal contesto che gli sta attorno, ne diviene lo zimbello, la vittima, sempre sottoposto alla derisione di tutti; il secondo invece “agisce” prepotentemente nel contesto in cui vive, attraverso potenti strumenti verbali che gli permettono di interagire con gli altri. Anche il verbo «to fool» ha una doppia accezione: quella intransitiva che significa “fare lo scemo, il demente” e quindi essere inferiore agli altri, e quella transitiva che viceversa significa “ingannare, imbrogliare” e dunque dimostrarsi superiore nella propria capacità di raggiro.

A questa molteplicità di sensi contenuta sia nel sostantivo-aggettivo «fool», sia nel predicato verbale to fool, si affianca la complessità dei rapporti che il folle instaura con il resto della comunità nei cui confronti si pone sempre in disparte come diverso ed estraneo. La modalità dì questi rapporti possono condurre alla formulazione di due concezioni opposte della follia, una positiva e l’altra negativa a seconda dei valori edificanti o di quelli degenerati appartenenti alla comunità, come osserva puntualmente Vanna Gentili:

 Se la comunità, il gruppo, la forma organizzata della società è vista come portatrice di valori razionali, allora il folle rappresenta l’elemento negativo. Ma quando la visione che la comunità esprime di sé è la visione pessimistica d’una comunità precipitata nell’errore, allora è il folle che si salva proprio grazie alla sua solitudine, alla sua estraneità.[2]

 Il discorso diventa, dunque, squisitamente antropologico e non riguarda solo l’anormalità dell’individuo che disconosce e trasgredisce i valori fondanti della comunità, ma concerne anche l’anormalità della cultura che si identifica e si riconosce negli elementi più deteriori della storia. Il confronto non si alimenta più attraverso l’antagonismo tra il saggio e lo stolto, o tra il furfante che “frega” e il demente che viene “gabbato”, ma si fonda invece sull’opposizione tra una cultura sana, testimone di elementi costruttivi per il gruppo e una cultura malata, carica di fattori erronei e deleteri. Se la cultura si rivela, allora, una variabile a seconda dei valori di cui si fa portatrice, il rapporto che il folle instaura con essa risulta sempre costante, in quanto è fondato essenzialmente su un preciso atteggiamento di separatezza e di straniamento.

Questa sua esclusione dalla comunità può a sua volta produrre due concezioni diverse esercitate nei confronti della follia: da una parte di “inferiorità”, ed è il caso del pazzo come ossesso, posseduto dal demonio o personificato nell’Anticristo, che deve essere perseguitato ed esorcizzato; dall’altra di “superiorità”, ed è il caso del matto-savio, illuminato da una sapienza profetica e oracolare, che smaschera la menzogna e sentenzia la verità. Esiste, tuttavia, tra questi due fattori estremi un termine medio dato dalla nozione di “esclusione come uguaglianza”, il quale costituisce gran parte della tradizione popolare e carnevalesca, in cui, attraverso un rovesciamento tra l’alto e il basso, l’umile eguaglia il grande, l’ignorante sconfigge il dotto, il misero imbroglia il potente, come accade in molti testi teatrali di stampo ironico e umoristico.[3]

La convenzione carnascialesca di consacrare l’idiota naturale a pontefice o sovrano solo nel giorno della festa, diviene gradatamente un’istituzione riconosciuta quando si inizia ad affidare questo ruolo alla figura culturale dell’attore che si finge idiota, per interpretare la parte non solo durante il Carnevale, ma anche nel corso di più occasioni. Questa figura professionale del buffone, del giullare o del menestrello che esercitava la sua attività prevalentemente nelle strade e nelle piazze, viene assunta nel corso dei secoli XV e XVI dalle corti europee nel suo duplice ruolo di umorista e di intrattenitore, per poi essere investita di particolari licenze verbali esercitabili specificamente nello spazio del castello o del palazzo.

Il personaggio storico del court-fool si arricchisce così di tali molteplici attributi da diventare un suggestivo modello per il personaggio teatrale dello stage-fool, vera e propria dramatis persona che gode di uno statuto autonomo specifico e che, tuttavia, trova la sua piena consistenza drammatica solo nei testi teatrali inglesi. Da ciò emerge il tratto più significativo e nevralgico nell’evoluzione del fool: il traslato storico-culturale del court-fool nello stage-fool non toglie nulla a tutti i connotati linguistici e antropologici posseduti dal prototipo del folle, ma anzi li amplifica enormemente e li sintetizza nella specifica figura teatrale del buffone di corte.

Vanna Gentili definisce, in proposito, questa figura teatrale come un ossimoro (la figura retorica che consiste nell’unione di due contrari),[4] poiché ogni volta che ci si rivolge al fool o che si parla di lui si usano alcune antinomie che lo appellano e lo definiscono sempre attraverso termini opposti: l’idiota-furbo, il saggio-stolto. Se da una parte, infatti, gli si riconoscono facoltà maieutiche e divinatorie, che lo investono di una potenza prevalentemente esercitata dal suo linguaggio, dall’altra gli si attribuiscono una “deformità fisica” e una “anormalità psichica”, che lo riducono a oggetto di dileggio davanti ai personaggi di corte, siano essi sudditi o sovrani.

Tuttavia, questo dualismo della personalità viene rappresentato prima e dopo Shakespeare attraverso uno sdoppiamento di caratteri basato su una coppia di personaggi antagonisti e complementari tra loro. Solo con il teatro shakesperiano il fool raggiunge la sua “epoca aurea” attraverso la perfetta sintesi delle due componenti in un solo carattere, come rileva ancora Vanna Gentili:

 Ma nella sua epoca aurea il fool concentra in sé la duplicità del proprio carattere: anziché esplicarsi in un confronto tutto sommato meccanico con un proprio eguale e contrario, amministra il bifrontismo virtuale del tipo originario, entrando in rapporto dialettico con l’insieme della situazione drammatica e con personaggi di varia classe e natura.[5]

 In questa fase, il fool non compare soltanto come “tipo teatrale” insieme agli altri, ma prende parte ad un complesso sistema di relazioni (un vero e proprio sistema della pazzia) che lo collega sia con il contesto culturale (in senso positivo o in senso negativo), sia con il testo drammatico (ossia i vari tipi teatrali, il linguaggio, le vicende, la situazione e l’ambientazione). Queste componenti interne ed esterne, rimandano ad un codice della pazzia che non necessariamente si deve palesare nel testo, ma può anche rimanere latente nella tessitura drammatica, al punto che il sistema della follia (sia essa espressa o solo sottintesa), si rivela in fondo un’allegoria complessiva della profonda messa in crisi dei valori culturali e medievali operata nel Rinascimento inglese.

Questa “dimensione metastorica” della pazzia, che rappresenta la chiave di volta di ogni mutazione sociale, politica e religiosa nel costante rinviarsi di cesure, svolte e ritorni, trova una propria identità artistica nella “dimensione metateatrale” personificata dal fool, nella quale si proiettano paure, dubbi e incertezze di un’epoca tanto problematica come quella del seicento inglese. L’esistenza di questa figura è tuttavia così connaturata al suo contesto storico, che con la fine del sistema feudale e delle corti europee morirà anch’essa insieme a quell’apparato culturale che le aveva dato vita sia sul piano sociale che su quello artistico.

Durante questa sorta di “epoca aurea” il fool, tuttavia, non è l’unico interprete della follia, bensì è circondato da una molteplicità di personaggi che attengono alla pazzia: siano essi derivati da archetipi letterari e culturali, oppure riscontrabili in figure storiche e concrete. Nella vasta gamma della follia, che comprende quella vera, quella simulata dal soggetto e quella presunta dagli altri (i cui confini spesso si confondono), il fool si trova ad occupare un punto centrale, dal quale su un versante si relaziona con il vero folle o con il finto pazzo (ed è il caso del King Lear) e sull’altro si oppone alla figura del malinconico-malcontento, presente in molte commedie inglesi.[6]

Il parallelismo strutturale riscontrato tra il personaggio storico e il personaggio teatrale rimane costante anche nelle funzioni culturali e artistiche svolte dal fool. Se nella realtà egli si interpone tra il modello ordinato e razionale della società cortese e l’antimodello anarchico e caotico delle feste giullaresche, segnandone distintamente la linea di continuità tra modello e antimodello attraverso la sua partecipazione a entrambi; allo stesso modo nel dramma egli si colloca nella zona intermedia tra gli attori e il pubblico, immedesimandosi sia nel personaggio partecipe, sia nello spettatore distaccato, e delineando marcatamente il punto di contatto tra scena e platea e tra il “dentro” e il “fuori” del testo e dell’azione.

Malgrado questa duplice “intermediarietà” sia sul piano culturale che su quello drammatico, di fatto il fool non gode di alcuna posizione sociale, non usufruisce di alcun investimento politico, non è riconducibile ad alcuna categoria tipologica; mantiene soltanto quella costante estraneità dell’antimodello popolare, anche quando è collocato appieno nel modello cortigiano. Tuttavia, se da un lato questa mancanza di inserimento provoca nel fool l’impossibilità di manipolare la realtà sociale e l’incapacità di alterare gli avvenimenti della fabula, dall’altro essa assegna al fool la singolare facoltà di pronunciare determinati discorsi (nella molteplicità delle loro forme retoriche), attraverso i quali poter compiere operazioni dissimulanti che ad altri non sono concesse.

Ed è proprio in questo doppio provvedimento preso nei confronti del fool – di “interdizione nell’azione” e di “licenza della parola” – che si realizza la vera identità del folle: “agito” sul piano fattivo della realtà e al contempo “agente” sul piano strumentale del linguaggio. Il profondo dualismo tra la libertà di parola e la libertà d’azione è senz’altro quello che più caratterizza l’opposizione ambivalente tra la figura del Fool e quella del Vice, la cui complementarità, tuttavia, non li mette mai a confronto diretto, ma piuttosto li esclude a vicenda.

Il Vice, ricorrente protagonista negli Interludes e nei Moralities inglesi, possiede anch’esso una duplice identità come quella del Fool (fa parte della fabula e se ne distacca nel commento), ma incarna sempre un personaggio cattivo, malvagio, colpevole di inganni e di misfatti, che sintetizza in sé una serie di vizi morali del tutto estranei all’innocenza e all’autenticità del giullare. Intrigante ed imbroglione, il Vice corrompe gli altri personaggi, distorce le varie interpretazioni, altera il corso degli eventi, esercitando così un’ampia influenza e un costante predominio sull’azione; laddove invece il Fool esplica, attraverso lo strumento del linguaggio, una funzione maieutica nel portare gli altri alla comprensione del reale grazie alla follia e al contempo una funzione divinatrice nel trasmettere al mondo la conoscenza della storia tramite la profezia.[7]

  

2. Il Fool comico in As you like it e in Twelfth Night

 Il fool “drammatico” è principalmente un personaggio comico in quanto non solo ha la funzione di intrattenere e di divertire, ma soprattutto adopera il linguaggio per prendere in giro i suoi interlocutori e per scatenare ilarità e buonumore. Nelle commedie shakesperiane compaiono numerose presenze di questi fools, spesso anche nelle loro varianti di clowns e di jesters, le quali ricorrono così di frequente da segnare l’evoluzione sia semantica che stilistica della follia in gran parte dell’opera di Shakespeare. I testi di Vanna Gentili e di Roberta Mullini[8] compiono entrambi un’analisi dettagliata in merito alle singole figure dei fools comici (compreso quello tragico del king Lear che si vedrà in seguito), evidenziandone il ricorrente “bifrontismo”[9] che li caratterizza.

I fools delle prime commedie sono ancora zotici e rustici, non possiedono appieno le facoltà metalinguistiche e spesso sono bersagliati dalla derisione altrui (come accade a Speed e a Launce in The two gentlemen of Verona o a Costard in Love’s lobour lost). I fools delle successive commedie, invece, maturano alcune caratteristiche metadrammatiche, affinando la loro sensibilità critica e il loro sagace giudizio (come avviene in Lancelot Gobbo ne The merchant of Venice e in Lavache in All’s well that ends well). Tuttavia, i fools comici più riusciti e originali, investiti del loro statuto di “mattatori” di corte, sono essenzialmente due, per certi versi affini e per altri versi dissimili tra loro: Touchstone di As you like it e Feste di Twelfth Night.

Touchstone, come dice la parola, è la pietra di paragone cui si rapportano le altre dramatis personae della commedia. E’ forse il fool attorno al quale si pronunciano più commenti e giudizi riguardo le sue qualità di metapersonaggio diviso tra l’azione e l’osservazione. Quando Celia, la figlia di Federigo (fratello del Duca e usurpatore del regno) gli impone di tacere, il fool risponde alla privazione della sua license in un modo cui la stessa Celia riconosce verità e giustezza:

             Touch. The more pity that fools may not speak wisely what wisemen do foolishly.

Celia. By my troth thou sayest true. For since the little wit that fools have was silenced, the little foolery that wisemen have makes a great show.[10]

 Attraverso le funzioni di glossatore e di chiosatore espletate dal buffone, vengono ribaditi così alcuni tipici “luoghi” erasmiani, come quelli contenuti nei paragrafi dell’Elogio della follia: Il vero senno è pazzia e Pazzia guida a saggezza.[11] Tutta la commedia è giocata, inoltre, sull’opposizione tra il mondo della corte e la foresta di Arden che lo circonda, e tale antagonismo investe i diversi personaggi, sia i cortigiani del Duca che i contadini della foresta. Touchstone si rivela appunto il “mediatore” tra questi due mondi, nei quali sembra sapersi giostrare con disinvoltura e acutezza d’ingegno, pur preferendo, alla fine della storia, l’ordine morale ripristinato nella vita di corte, piuttosto che l’illusorietà tipica dell’evasione agreste, confermando così la sua piena appartenenza all’istituzione del licensed fool.

Ad arricchire e a contrastare questa figura interviene poi quella antagonista e complementare del melanconico-malcontento Jaques. Egli unisce in sé una riflessiva malinconia ad un’intima scontentezza, preferendo il vagabondaggio meditabondo nella foresta alla rovinosa corruzione diffusasi nella corte dopo l’esilio del Duca. L’opposizione con il buffone è dunque simmetrica e speculare, e porta i due personaggi ad un proficuo scambio di logiche e di morali. Jaques, prima scettico e distaccato, rimane in seguito affascinato dalla spensierata filosofia del buffone, tanto da innamorarsene e da desiderare anch’egli di divenire un motley fool.

Se allora Touchstone deciderà di ritornare alla vita di corte, Jaques sceglierà di continuare il suo “eremitaggio esistenziale” in compagnia del Duca, il quale ha preferito altrettanto rinunziare alle pompe della corte per condurre una vita raccolta tra i “sani usi” del mondo arcadico. Jaques e il Duca si scambieranno, infatti, alcune incisive battute che sintetizzano il pieno riconoscimento delle qualità del fool: 

Jaques. Is not this a rare fellow, mylord? He’s as good at any thing, and yet a fool.

Duke. He uses his folly like a stalking horse, and under the presentation of that he shoots his wit.[12]

 Feste, diversamente da Touchstone, non è un fool molto commentato dagli altri personaggi, tuttavia offre numerosi spunti per meditare sul tema della follia. Egli incarna perfettamente la posizione intermedia tra il testo e l’extratesto, tra la scena e il pubblico, ed è pienamente cosciente del divario che si apre tra la sua licenza verbale e l’interdizione ad agire imposta dagli altri. Nella commedia manca qualsiasi forma di opposizione ben caratterizzata, sia sul piano dell’ambientazione (la scena si svolge in Illiria e non offre un contrasto tra signori e villani, ma semmai tra i cortigiani protetti dalle mura della città e i naufraghi sbandati sulle coste dell’Illiria), sia su quello delle dramatis personae (manca del tutto la figura del malinconico-malcontento che contrasti il buffone, al cui posto si profila invece la più stemperata figura del malinconico puritano, incarnata da Malvolio).

Da ciò ne deriva che il buffone è piuttosto isolato e scollegato da tutta la trama e, pur avendo una rilevante funzione nello svolgimento della sottotrama, non gli si offrono molti spunti di riferimento o altre persone di confronto attraverso cui esercitare il proprio ingegno. Feste rappresenta quindi una sorta di aurea mediocritas, che stempera moltissimo le punte dell’antinomia erasmiana di saggezza e stoltezza, ispirandosi ad una “via media” basata sul mimetismo e sulla moderazione, secondo il giusto decorum della vita di corte. Sono le parole pronunciate da Viola, dopo il suo incontro con Feste, che offrono bene l’idea di questa “medietà” del buffone: 

     Viola. This fellow’s wise enough to play the fool,

And to do that well craves a kind of wit:

He must observe their mood on whom be jests,

The quality of persons, and the time,

And, like the haggard, check at every feather

That comes before his eye. This is a practice

As full of labour as a wise man’s art;

For folly that he wisely shows is fit;

But wise men folly-fall’n, quite taint their wit.[13]

 La stessa opposizione tra Feste e Malvolio differisce quasi completamente da quella condivisa da Touchstone e da Jaques. L’ammirazione e il compiacimento nutriti da Jaques per il buffone di corte incontrato pellegrino nella foresta, si tramutano in odio e rancore nell’animo iroso di Malvolio, indispettito da tutti i tranelli tesi a sbeffeggiarlo da parte dello stesso giullare. Feste, d’altra parte, non è così innocente e spensierato come Touchstone, al contrario è piuttosto malvagio e prepotente, tanto da usare la sua abilità retorica per ordire complotti ai danni dello sfortunato Malvolio, il quale, anziché augurargli una buona sorte come fa Jaques con il suo fool, lo minaccia aspramente e gli promette vendetta (sebbene si sappia che il fool, in quanto tale, è protetto dalla corte).

  

3. Il fool tragico in King Lear

 La presenza in molte tragedie shakesperiane di figure che per diversi aspetti si relazionano con la follia – come quelle del Vice, del finto pazzo o del matto vero – finiscono col neutralizzare il personaggio del fool, il quale perde la sua dimensione drammatica in quanto si trova sostituito da altre forme di “alterità”: come la follia simulata in Hamlet, la malvagità perversa in Othello, o l’allucinazione spettrale in Macbeth. In definitiva, il giullare di corte che intrattiene il sovrano con le sue arguzie, lo segue ovunque vada senza mai abbandonarlo, per poi diventare addirittura il suoalter-ego, si ritrova in senso compiuto e definitivo soltanto nella tragedia del King Lear.

Il Fool di Lear è una creazione unica e irripetibile. E’ l’ultima e sublime incarnazione erasmiana del saggio-stolto che trova spazio nel teatro di Shakespeare. Egli segna il culmine di un’evoluzione oltre il quale non c’è un declino ma c’è solo una scomparsa. Tutte le riproposte successive saranno incompiute e non originali. La caratteristica più importante di questo matto consiste nel fatto che egli può forzare tutti i limiti imposti alle sue licenze dal momento che è al seguito di un re caduto in disgrazia. Egli non è più il pazzo di corte, figura ben precisa e legittima, ma rappresenta l’alter ego di Lear che attraverso un’operazione maieutica lo porta alla coscienza della propria rovina. Tutti i giochi di parole, gli scherzi impertinenti, gli indovinelli e le cantilene sono finalizzati a mettere Lear di fronte al suo essere ridotto a nulla, a uno zero, all’ombra di se stesso, poiché tutti i suoi titoli li ha dati via, rimanendo senza altri epiteti se non quello di essere matto.

La pazzia di Lear subentra, provocata e alimentata dal Fool, come una sorta di tarlo che corrode all’interno la sua coscienza fino a sgretolarla e disperderla in un mare di interrogativi sulla propria identità. Cacciato da entrambe le figlie che gli disconoscono la necessità di un seguito di cavalieri, Lear si abbandona all’asperità della tempesta seguito sempre dal suo Matto. Ed è questo il momento culminante del suo furore: Lear assimila la sua irosa follia a quella caotica della tempesta, invocando lampi, tuoni e venti ad abbattersi violentemente su tutta la Terra infestata dall’ingiustizia e dall’ipocrisia, e anche su se stesso ormai ridotto a un disonorante vagabondaggio. Il Fool, che per tutto il tempo trema impaurito e infreddolito aggrappato al suo padrone, ha quasi condotto a termine la sua missione nel trascinare Lear nel regno della follia (in modo tale che questi si possa rendere conto dei propri errori e possa raggiungere un più profondo stato di coscienza), tanto che ora non gli rimane che pronunciare un’emblematica profezia: 

When priests are more in word than matter,

When brewers mar their malt with water;

When nobles are their tailors’ tutors;

No heretics burn’d, but wenches’ suitors;

When every case in law is right;

No squire in debt, nor no poor knight;

When slanders do not live in tongues;

Nor cutpurses come not to throngs;

When usurers tell their gold i’ the field;

And bawds and whores do churches build;

Then shall the realm of Albion

Come to great confusion:

Then comes the time, who lives to see’t

That going shall be us’d with feet.

This prophecy Merlin shall make;
for I live before his time.[14]

 Malgrado in molte rappresentazioni del dramma, sia teatrali che cinematografiche, la profezia del Fool sia stata spesso trascurata o addirittura omessa, essa ha una validità importante non solo per il testo (non è affatto superflua e si rivela altresì carica di sensi e di paradossi), ma anche per il ruolo del Fool che per la prima ed ultima volta trova un proprio spazio scenico attraverso il quale mostrare direttamente al pubblico il suo statuto di oracolo e di profeta in grado di sentenziare, precorrendo i tempi.

Superata la fase della collera furente sfogata nella landa burrascosa in contrappunto alla tempesta, Lear, condotto dal fedele Kent al riparo di una capanna, attraversa una nuova fase di inebetita demenza, durante la quale inscena un processo immaginario alle due figlie con la complicità del Fool e di Tom o’ Bedlam. Questo è forse il momento più significativo in cui si concentrano e si confrontano tre tipi di pazzie: quella reale di Lear, quella istituzionale del Fool e quella simulata da Edgar (figlio legittimo di Gloucester, ingiustamente calunniato dal fratello bastardo Edmund) che, costretto a fuggire, si è travestito da mendicante pazzo.

In questa sinfonia di follie la figura di Tom o’ Bedlam, che il matto Lear appella con i titoli di «sapiente tebano» e di «buon ateniese», sovrasta e quasi cancella quella del Fool, il quale durante tutta la sequenza della capanna rimane in disparte e interviene solo con qualche puntuale battuta. Alla fine del delirante processo il re, esausto, accetta di coricarsi per prendersi un po’ di riposo, pronunciando la frase «We’ll go to supper i’ the morning»,[15] alla quale il Fool risponde con la sua ultima ed enigmatica battuta: «And I’ll go to bed at noon».[16]

Sono state formulate un’infinità di interpretazioni riguardo questo improvviso e inaspettato congedo del Fool che lascia la tragedia al suo culmine, nel pieno del terzo atto. In generale sembrano assai poco convincenti quelle interpretazioni che intendono questo congedo come una rinuncia o una sconfitta del Fool di fronte ad altre figure della pazzia – come quella di Tom o’ Bedlam – che gli usurpano il territorio di azione e di influenza. E’ vero che il Fool di Lear ha maturato in sé un tale statuto egemone e unitario da non poter tollerare l’interferenza di altre forme di pazzia, ma è anche vero che egli è sempre un metapersonaggio che sta anche al di sopra e al di fuori del dramma, e come tale scompare quando sa di aver portato a termine il proprio compito: quello di aver fatto emergere la follia insita nell’animo di Lear e di averle dato consistenza e significato. Del Fool ora non c’è più bisogno, ed egli se ne va integro e incontaminato, lasciando il posto ad altri personaggi che faranno da interlocutori al pazzo Lear.[17]

Un altro tratto essenziale della tragedia riguardante l’ambivalenza tra saggezza e stoltezza è rappresentato dalla figura del paradosso, in base allla quale la caduta dell’eroe, attraverso cui si compie la catarsi del dramma, è contrassegnata da un fallimento (ossia dalla mancata riuscita dell’impresa condotta da questi, malvagia o benevola che sia), che tuttavia conduce ad una più profonda e dolorosa conoscenza della realtà. Dalla perdita iniziale di un bene materiale o spirituale, ne deriva un tentativo di rivendicazione condotto attraverso una buona o una cattiva causa, che fallendo provoca l’appropriazione di una nuova coscienza, il cui prezzo, però, deve essere pagato con la follia o con la morte.

Nel King Lear, tuttavia, non si verifica tanto un paradosso di tipo “ontologico”, ovvero relativo a una conoscenza di cui ci si appropria attraverso il fallimento, ma si manifesta piuttosto un paradosso di tipo “epistemologico”, basato piuttosto sulla ricerca del vero, del giusto e in un certo senso anche dell’Io. Il re perde tutte le sue ricchezze donando il regno alle sue figlie, ma poi assapora la felicità di essere un mendicante libero piuttosto che un sovrano assoggettato; egli vuole comprendere a tutti i costi l’amara realtà che lo circonda, ma poi scopre il dolore provocato dalla conoscenza dei fatti piuttosto che dall’ignoranza degli stessi; Gloucester viene accecato perché desidera assistere alla vendetta che piomberà sopra le figlie del re, ma si accorge poi che la sua cecità gli permette di vedere molto più a fondo nella realtà delle cose; infine il matto trascina Lear nel baratro della pazzia, ma dimostra al contempo come tale pazzia sia più illuminante e autocosciente di qualsiasi saggezza. Il mondo rovesciato sottosopra del King Lear, (dove il re diventa pazzo e il pazzo si comporta da re) trascina personaggi ed eventi verso le polarità del Tutto e del Niente, dalle quali dipende l’intera struttura del dramma. In esso infatti il Tutto (ricchezza, potere, saggezza) precipita nel Nulla (miseria, cecità, pazzia), come se lo stesso atto della Creazione venisse capovolto: non si elabora una Forma dal Caos ma dalla Forma si ritorna al Caos.

  

4. Le modalità del discorso nel linguaggio del Fool

 Nell’ambito delle strategie espressive riguardanti la follia esistono innanzi tutto due ordini di discorso che concernono il Fool: quello pronunciato da altri riguardo la figura del folle (sia durante la sua assenza sulla scena, sia di fronte ad una muta presenza) e quello espresso dal folle stesso a proposito di vicende e personaggi della fabula, costituito da vari espedienti verbali.[18]

Il primo tipo di discorso è stato prima riscontrato in alcuni esempi tipologici del Fool comico, sia riguardo le sue relazioni con altre dramatis personae, sia riguardo le definizioni e i commenti operati da queste sul suo conto. Si è potuto anche osservare come l’unico Fool che non si lascia commentare da altri ma che si autocommenta da solo sia proprio quello del King Lear, il quale è al contempo oggetto di riflessione e soggetto che compie la riflessione, in modo da confermare la sua totale autonomia dal testo.

Il secondo tipo di discorso, invece, è assai più complesso e polimorfo in quanto entra in gioco una serie di elementi linguistici e di tecniche discorsive che permette al Fool di compiere la trasposizione – da un piano gestuale, corporeo ed osceno ad uno verbale, retorico e figurato – di una sfera estremamente provocatoria e trasgressiva: quella della sessualità.[19] Il monologo è senz’altro una delle forme del discorso privilegiate dal Fool. Egli non recita solo monologhi nel corso della storia, ma spesso gli vengono riservati i prologhi e gli epiloghi dei drammi. Essendo il commentatore per eccellenza, colui che chiosa, glossa e applica postille a tanti discorsi, è inevitabile che gran parte dei suoi interventi non interferiscano nel corso dell’azione, ma siano piuttosto rivolti al pubblico.

Uno degli esempi più significativi di monologo paradossale è rappresentato dalla profezia pronunciata dal Fool nel dramma del King Lear (III, 2, 81-96). Tale profezia rappresenta senz’altro il momento più autonomo, a livello di espressione linguistica, raggiunto dal Fool non solo all’interno di questa tragedia, ma anche nell’ambito di tutta l’opera shakesperiana. Con questa profezia il Fool si consacra “mattatore” della scena, profeta, oracolo e indovino. Non ha e non può avere interlocutori (nemmeno lo stesso re divenuto pazzo) all’altezza di commentare le sue parole, o addirittura semplicemente di comprenderle.

Nella dimensione dialogica del discorso, il fool assume un ruolo predominante rispetto a tutti i suoi interlocutori, basato sulla perfetta padronanza del codice espressivo a tutti i livelli: lessicale, sintattico, semantico, retorico e pragmatico. Tale padronanza gli permette di operare una “corruzione” del codice stesso, attraverso la messa in crisi dell’universo linguistico dell’opera teatrale come dell’epoca storica, cui egli prende parte tramite la sua duplice identità mimetica e reale.

Dal momento che la vera azione del fool consiste nella gestione del dialogo con gli altri, egli applica tutte le tattiche verbali e le strategie discorsive ai fini di “degradare” lo status dei suoi interlocutori, attraverso la scelta deliberata di aderire o meno al “principio di cooperazione”, consistente in un accordo linguistico tra i dialoganti e articolato sulle categorie di quantità, qualità, relazione e modo. Questa sua capacità di designare i percorsi discorsivi da seguire nel testo e di condurre gli altri personaggi lungo i propri binari dialogici, gli permette di adempiere tutte le funzioni di dissimulazione e di mascheramento della realtà, manifestando così non solo il suo potere di scoprire l’essere dietro l’apparire, ma anche di esprimere il suo acuto ingegno in contrapposizione alla stupida mediocrità degli altri.

Nella logica sarcastica e derisoria del fool, l’indovinello occupa un posto molto importante e significativo. Sul piano formale il folle opera uno spostamento dei termini appartenenti alla struttura dell’enigma. Se questa è formata da un termine dato e un termine nascosto, da una premessa vera e una premessa falsa, egli privilegia sempre la premessa falsa su quella vera e smentisce il termine dato anziché quello nascosto. Attraverso la corruzione dell’enigma il folle disvela una logica che va oltre le finalità stesse dell’indovinello per trasmettere delle verità ignorate dagli altri, come accade nel King Lear, laddove il Matto tenta di portare il re alla consapevolezza dello stato di cose attraverso una serie di indovinelli simboleggianti il suo essere caduto in disgrazia.

Il discorso del fool si avvale anche di una serie di figure retoriche (metafora, metonimia, litote, anafora e sineddoche), che egli dispone secondo un processo di accumulazione basato su un uso originale delle diverse parti della retorica (inventio, dispositio, elocutio). Tra le forme verbali più usate dal folle compaiono inoltre i proverbi, le massime e le sentenze finalizzate a dare autorevolezza e credibilità al suo discorso, dal momento che egli attua un’operazione metalinguistica nel commentare le parole degli altri attraverso citazioni di motti, detti e aforismi.

Infine, fa parte del patrimonio linguistico del folle un insieme di atteggiamenti discorsivi che si rivelano piuttosto anomali rispetto alle norme del linguaggio tradizionale. Egli mostra un’ostinata reticenza nell’osservare il principio di cooperazione condiviso dalle altre dramatis personae, usa la conversazione non come strumento di comunicazione ma come tecnica di smantellamento dei principi comuni a tutti, gestisce i propri monologhi, i dialoghi con gli altri e i discorsi “a parte” rivolti al pubblico con completa padronanza e disinvoltura, e soprattutto, attraverso l’uso di figure retoriche e giochi di parole, riesce a rovesciare gli stessi rapporti gerarchici che intercorrono tra lui, semplice buffone, e gli altri personaggi della corte.

Le modalità di questo discorso, come si può notare, si rivelano fortemente provocatorie nei riguardi di un insieme di regole che viene deliberatamente messo al bando, attraverso una sequenza di licenze verbali adottate dal fool: dagli schemi conversazionali basati sulla sua duplice presenza dentro e fuori la fabula, all’uso originale e bizzarro di strutture linguistiche come l’indovinello e il proverbio, dalla messa in crisi dell’interlocutore-avversario attraverso la sua lenta degradazione, alla violenta sfida verbale di tutto l’assetto gerarchico sottostante al dramma.

  

5. L’identità del Fool come «Io epico» del dramma

 E’ stato detto finora che il Fool è un metapersonaggio, è una figura liminare che si trova sul confine tra il testo e l’extratesto e al margine tra la scena e la platea, è l’emblema paradossale di un costante dualismo tra termini opposti in eterna contraddizione tra loro, gode il prestigio dell’uso di particolari funzioni linguistiche e rappresenta tramite queste proprietà il rispecchiamento e l’autocomprensione del reale. A questo punto si potrebbe spingere il discorso alle sue estreme conseguenze: se sono vere queste peculiarità appartenenti alla figura del folle, si può concludere che il Fool, considerate le sue valenze, i suoi ruoli e le sue funzioni, finisce con l’identificarsi nel drammaturgo stesso.

Il Fool è identificabile con lo stesso Shakespeare in quanto ne rispecchia le caratteristiche di narratore all’interno del dramma e ne rappresenta l’ideologia di artista attraverso l’interpretazione del suo ruolo: un «Io epico» in senso brechtiano con tutte le riserve e le accezioni che il termine consente.[20] Contrapponendo tra loro le due forme principali di fare teatro, quella drammatica (emotiva e partecipe) e quella epica (razionale e straniante), Brecht individua l’elemento principale del processo di straniamento (opposto simmetricamente al processo di partecipazione) nell’identità dell’Io epico, ovvero nell’individuo che interpreta il dramma e nello stesso tempo lo racconta, segnando così una continuità cosciente tra la finzione e la realtà. Anche l’Io epico, come il folle, è una figura liminare, situata sul tratto di cesura tra la fabula e il commento, tra l’interpretazione partecipe e l’osservazione straniata, anch’egli, come il folle, è il portatore dell’ideologia dell’autore e di quella del pubblico, è il contrassegno dell’opera che interpreta e dell’epoca cui appartiene, e quindi come tale può riconoscersi in tutti quei connotati che caratterizzano la figura del giullare.

Sebbene il teatro elisabettiano e in particolare quello shakesperiano siano squisitamente “drammatici” (laddove viene posta l’attenzione più sulle passioni umane che sulle vicende storiche – fatta eccezione per gli Historical Plays), la figura del folle che vi si rappresenta appare quella più vicina allo statuto dell’Io epico, il quale, tuttavia, appartiene ad una forma di teatro antitetica al dramma inglese, in quanto basata su una tematica politico-sociale prevalentemente estranea a quest’ultimo.[21] In un teatro come quello di Shakespeare, dove tutto è azione e l’azione è soprattutto parola, non poteva mancare una figura che fosse portavoce dell’autore stesso, lo specchio della sua realtà, l’emblema di un modo di pensare e di concepire la sua storia e la sua arte. Tale figura, che si può considerare simile ad un Io epico “parlante” per bocca dell’autore, non è altro che un folle, un diverso, un escluso dalla comunità, alla quale prende parte solo dopo essere stato trasposto in una nuova dimensione che lo include e lo limita al contempo.

Certamente le componenti della diversità, dell’alterità e della duplicità hanno senz’altro giocato un grosso ruolo nell’immaginazione artistica del drammaturgo, tanto da assumere funzioni cognitive e valenze simboliche di estrema importanza, ai fini non solo di una realizzazione drammatica, ma anche di una conoscenza più veritiera del mondo stesso. La spiegazione di un fenomeno tanto consistente di “drammatizzazione” dell’insania nel teatro di Shakespeare si può riscontrare in quell’universo di investiture, attribuzioni e conferimenti nel quale orbita, con un proprio sistema definito ed autonomo, il “pianeta” della follia. Tutte le nomine, le cariche e le funzioni che sono state attribuite a quest’ultimo nel corso della storia, hanno avuto sempre una duplice valenza: se da una parte gli venivano assegnati strani poteri di “divinazione” e di comprensione del reale, dall’altra gli venivano imposte coercizioni e discriminazioni di ogni genere.

La sfera della follia risulta condividere con la sfera della morte, molti punti di contatto, dal momento che entrambe sono “investite” di una “potenza” protettiva e minacciosa allo stesso tempo, la quale svolge una duplice influenza di attrazione e di repulsione, infondendo sicurezza e incutendo timore, provocando ammirazione e generando disprezzo, in una continua oscillazione tra l’aspetto divino e quello demoniaco, entrambi inconciliabili con tutto ciò che è umano e razionale. Ma la follia, diversamente dalla morte, fa parte della vita, è una realtà partecipe del mondo di qua sebbene le vengano attribuiti valori del mondo di là, è un’entità anomala operante in un contesto normale, è una negazione (un Nulla, un Nessuno) “vivente” nel mondo dell’essere. Ed è forse proprio per questi fattori che la follia può permettersi di usare gli strumenti dell’ironia, della satira, dell’autocritica e dell’autoelogio, risultando amara e dolce allo stesso tempo, docile e ribelle, suadente e graffiante, senza mai tradire la sua vera identità: «quella di non essere mai quello che è».[22] In questo modo il concetto di follia ha finito con l’esercitare un fascino ambiguo, enigmatico e anche un po’ perverso, non solo sulla coscienza storica e sulla sensibilità del gruppo all’interno delle diverse culture, ma anche sull’immaginazione artistica di quegli autori che hanno dato consistenza e forma a questo concetto attraverso le loro vite, le loro opere e le loro intuizioni.

William Shakespeare ha avuto il grosso merito di non aver parlato della follia ma di aver parlato attraverso di essa, non solo creando grandi figure di folli, con il loro apparato di circostanze e situazioni, ma trasferendo dalla realtà sulla scena il prototipo del folle (completo di funzioni, valori e attributi), attraverso il quale parlare tramite un codice complesso e polivalente, trasmettere la sua presenza nel dramma sia partecipe che straniata, comunicare la sua ricca interiorità grazie alle sue incertezze e le sue contraddizioni. Naturalmente non si può pensare a Shakespeare come a un fenomeno autonomo ed isolato da ogni contesto storico e culturale. La sua personalità emerge da un complesso retroterra di fattori politici, sociali, economici e religiosi. La sua concezione della pazzia non sarebbe stata tale se la sua sensibilità non si fosse affinata in un humus tanto fecondo come quello del Seicento inglese, e la sua rilevanza nella storia e nell’arte non sarebbe stata possibile se non attraverso una proficua interazione tra le componenti storiche e quelle individuali. E’ pur certo, tuttavia, che da questo insieme di implicazioni, la concezione dell’insania emerge con la sua forza dirompente e provocatoria, per riproporre ancora una volta la densa problematica offerta dal fenomeno della pazzia, attraverso le molteplici valenze che il termine comporta.

 


[1] Vanna Gentili, Il fool in Shakespeare e nel teatro elisabettiano, in Shakespeare e Jonson: il teatro elisabettiano oggi, Roma, Officina, 1979. Nel suo saggio l’autrice traccia le linee essenziali della trasformazione del fool da Naturall ad Artificiall, evidenziando la sue ambivalenti relazioni con altre figure drammatiche e approfondendo la cosiddetta “fase aurea” che il fool raggiunge attraverso la sua crescente autonomia nel King Lear.

[2] Ivi, p. 131.

[3] Il Rinascimento europeo è ricchissimo di questa produzione drammatica: dalle sotties francesi ai Fashachtspiele tedeschi, sino agli Interludes e ai Morality plays inglesi in cui la figura del Vice prelude a quella del Fool.

[4] Si noti che il termine stesso in greco denota, etimologicamente, l’unione di stolto (moròs) e acuto (oxùs), e quindi nella stessa origine della parola è esplicitato il riferimento a questo specifico ossimoro.

[5] Vanna Gentili, Il fool in Shakespeare e nel teatro elisabettiano, op. cit., p. 135.

[6] Il melanconico-malcontento è una figura composita che sintetizza in sé l’ambivalenza contenuta nell’immagine del melanconico (da una parte malato di mente e dall’altra genio incompreso) e il cinismo frustrato del personaggio del malcontento (la cui insoddisfazione non si limita alle parole ma si svolge anche nei fatti).

[7] Per una ricognizione della storia del Vice attraverso la sua fortuna sulle scene inglesi, cfr. Vanna Gentili, Interstizi e varchi del comico nel teatro inglese tra Miracle Play, Morality e Interlude, in AA. VV., Teatro Comico fra Medio Evo e Rinascimento: la Farsa, Convegno di studi, Roma, 1986.

[8] Il testo di Vanna Gentili, La recita della follia: Funzioni dell’insania del teatro dell’età di Shakespeare, Torino, Einaudi Editore, 1978, è importante per capire bene l’evoluzione parabolica del fool (origine, sviluppo, vertice e declino), attraverso il teatro elisabettiano e giacominiano dei secoli XVI e XVII. Il testo di Roberta Mullini, Corruttore di parole: il fool nel teatro di Shakespeare, Bologna, Clueb, 1983, è invece centrale per comprendere la molteplicità delle figure retoriche e le modalità delle licenze verbali adottate dai diversi tipi di fools.

[9] Si ricordano in proposito le immagini del Giano bifronte e dei Sileni di Alcibiade che ispirano il tema della coincidentia oppositorum nell’Elogio della Pazzia di Erasmo da Rotterdam, e che qui si ripropongono in merito all’ambivalenza esercitata dalla figura del fool.

[10] William Shakespeare, As you like it, (I, 2, 80-84), in The New Shakespeare, Cambridge, Cambridge University Press, 1926.

[11] Erasmo da Rotterdam, Elogio della pazzia, Torino, Einaudi, 1964, pp. 44-49.

[12] William Shakespeare, As you like it, (V, 4, 103-106), op. cit.

[13] William Shakespeare, Twelfth Night, (III, 1, 62-70), op. cit.

[14] William Shakespeare, King Lear, (III, 2, 81-96), op. cit.

[15] Ivi, (III, 6, 82).

[16] Ivi, (III, 6, 83).

[17] Per quanto concerne il tema centrale dei rapporti tra Lear e il Fool in questa tragedia, si segnala l’interessante saggio di Roberta Mullini e Vanna Gentili, Fool senza Lear e Lear senza Fool, in King Lear: dal testo alla scena, Bologna, Clueb, 1986, nel quale le due autrici osservano, da punti di vista complementari, i momenti in cui ognuno dei due personaggi agisce da solo, pur avvertendo la necessità della vicinanza dell’altro, oppure i momenti in cui entrambi si confrontano nelle stesse scene senza peraltro riuscire a sintonizzare i loro discorsi.

[18] E’ Roberta Mullini, in Corruttore di parole. Il fool nel teatro di Shakespeare, op. cit., a compiere questa bipartizione del linguaggio, considerando il fool come soggetto parlante e come oggetto di discussione. L’autrice, tuttavia, sottolinea come il fool, sia che parli direttamente sia che venga commentato da altri, conservi integra la sua realtà di metapersonaggio attraverso una triplice funzione: quella referenziale (il fool è lo specchio storico-culturale di un’epoca e di un’ideologia), quella commutatrice (egli è il portavoce, attraverso i suoi commenti, sia dell’autore che del pubblico) e quella di anafora (la sua posizione intermedia tra il testo e l’extratesto permette all’opera di citare se stessa).

[19] Nell’interpretazione della Mullini la traduzione di gesti scurrili e volgari legati alla sessualità in segni linguistici e pragmatici nel discorso del fool, pone quest’ultimo su un piano di sfida rispetto agli altri interlocutori, che egli “raggira” attraverso le sue licenze verbali e le sue facoltà metadrammatiche.

[20] Naturalmente, si prende in prestito il termine brechtiano di “Io epico” per indicare l’identità dell’interprete-narratore all’interno del dramma, tenendo ben distinti i due tipi di teatro presi in considerazione: quello elisabettiano di natura drammatica e quello brechtiano di carattere epico.

[21] I parallelismi individuati tramite il raffronto tra queste due figure sono puramente indicativi. Qui non interessa operare una comparazione tra due forme di teatro, peraltro molto diverse tra loro, ma preme solo mettere in luce le affinità semantiche e le analogie formali tra il ruolo del Fool e quello del Narratore.

[22] Lo statuto ambivalente della follia di essere allo stesso tempo Tutto e Nulla, Ognuno e Nessuno, le offre la possibilità di giocare con termini opposti tra loro. Lo stesso Fool di Lear, ironico e tragico insieme, dimostra di essere una perfetta sintesi tra due tipi di fools: quello comico o sweet fool e quello tragico o bitter fool, che in lui acquistano maggiore spessore grazie alla loro reciproca interazione.

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