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THE HOURS: TRILOGIA DI ESISTENZE TRA ARTE, MORTE E FOLLIA

  

Tre donne, tre giornate, tre eventi che si incrociano e si rinviano sulla falsariga di un sottotesto letterario, la cui storia prende forma attraverso il gesto inquieto e nervoso dell’autrice, si insinua impunemente nella tormentata quotidianità della lettrice, si incarna senza posa nel sofferto vissuto della protagonista. Sono le ore cruciali, distanti nel tempo e nello spazio, a scandire tre esistenze parallele governate dai medesimi motivi: l’ansia di vivere, l’inquietudine, il bisogno di fuga, l’infelicità, il senso di incompletezza. Così Michael Cunningham nel romanzo The Hours compone una sinfonia a tre voci, i cui temi si intrecciano seguendo una complessa partitura ispirata a Mrs. Dalloway di Virginia Woolf, da cui scaturiscono via via drammatiche scelte, incontri rivelatori, crisi improvvise e ineluttabili risoluzioni.

L’audace sfida di Stephen Daldry nel tradurre in immagini un romanzo che riposa sostanzialmente su una scrittura introspettiva, articolata a più riprese da riflessioni profonde e monologhi interiori, nutrita a tratti da sofferti ricordi e scomodi confronti, appare sorprendente nella sua valorizzazione propriamente “filmica” dei singoli personaggi, nonché dei loro tortuosi percorsi esistenziali, grazie alla traduzione di molti discorsi indiretti in dialoghi struggenti, che si rivelano essere la vera cifra stilistica e semantica del film. Pur mantenendo la tessitura intrecciata delle storie, rendendola semmai ancora più sincopata attraverso un montaggio serrato di incastri e di richiami, il regista riduce all’essenza le tre vicende, eliminando alcuni personaggi relativi alla vita di Clarissa Vaughan (gli amici Walter Hardy e Oliver St. Ives, l’amica della figlia Mary Krull), riducendo le riflessioni sui ricordi affettivi e i legami di gioventù (sempre riguardanti Clarissa), e traducendo alcuni passaggi nevralgici – espressi nel romanzo con una scrittura quanto mai intimista e a tratti ermetica – in vere e proprie confessioni o rese dei conti, attraverso le quali si raggiunge l’acme sconcertante e liberatoria di ogni esistenza.

Il talento di una scrittura virtuosistica e trascinante come quella di Cunningham riesce così a tradursi nello stupefacente talento delle tre interpreti all’interno del film (Nicole Kidman, Julianne Moore e Meryl Streep), in cui ognuna eccelle in una scena-madre che rivela l’essenza stessa della propria personalità. Ed è quanto mai significativo che questo avvenga sempre in occasione di un confronto cruciale nella vita di ogni protagonista: la signora Dalloway ha un vero e proprio crollo emotivo durante la visita di Louis Waters, ex compagno del suo antico amore Richard, che le scatena un turbamento struggente attraverso i contrastati ricordi delle loro passioni giovanili; la signora Woolf vive invece il suo massimo momento di ribellione di fronte al marito, quando alla stazione gli dichiara la sua inappellabile volontà di tornare a Londra a costo di ritentare il suicidio, piuttosto che rimanere nell’asettica prigionia di Richmond; la signora Brown, infine, rivela il segreto della sua scelta di vita a un’attonita Clarissa, quando, ormai anziana e sopravvissuta alla propria famiglia, confessa di essersi sottratta alla morte attraverso l’abbandono del marito e dei figli, trovando in questo modo se stessa. Tre confronti decisivi che, se nel romanzo sono “filtrati” in un flusso di coscienza interiore, nel film esplodono in tutta la loro drammaticità espressiva attraverso tre modulazioni diverse di interpretazione: quella quasi isterica di Clarissa che si lascia sprofondare nella voragine delle proprie emozioni, quella risoluta e cupa di Virginia che lotta disperatamente contro il demone della propria follia, e quella controllata e insieme spiazzante di Laura che ha fatto la scelta più audace con estrema lucidità.

Eppure esistono altri momenti di queste tre vite che si rivelano determinanti, in particolare perché esprimono quell’ambiguità sessuale legata al proprio disagio di vivere che le protagoniste manifestano, nel romanzo come nel film, durante un incontro importante. Nel corso della giornata in cui vengono colte nelle loro azioni spesso parallele e speculari, ognuna è alle prese con un evento per così dire “cerimoniale”: Clarissa sta preparando un ricevimento per celebrare il premio letterario vinto da Richard, ormai malato terminale di Aids, Laura è alle prese insieme al figlio con la preparazione di una torta per il compleanno del marito, Virginia è in attesa dell’arrivo della sorella con i nipoti per prendere il tè insieme a loro. L’incontro con una persona “familiare” scatena nelle tre donne reazioni diverse ma tutte legate a un doloroso vissuto, che si manifesta sostanzialmente attraverso un bacio richiesto, istintivo o impaziente.

Nella sua visita a Richard Clarissa cerca di resistere ai sofferti richiami da parte dell’amico riguardo il loro passato, ma non riesce a sottrarsi a un bacio che suggella la loro ambigua complicità. D’altra parte lei è l’unica persona a sembrare risolta nella sua scelta di vivere con una donna, che soltanto alla fine bacerà con trasporto, nel momento in cui apprezzerà il valore della vita “per contrasto” al suicidio di Richard. La visita improvvisa di Kitty, l’amica di Laura, crea invece una situazione inaspettata quanto rivelatrice: di fronte a un sorprendente cambio di tono – dall’iniziale e sgradita frivolezza dell’amica a un suo impudente abbandono per un intimo problema – Laura reagisce d’impulso baciando Kitty sulla bocca con amorosa tenerezza, percependo in quell’istante tutta la sua estraneità al contesto familiare e la sua profonda diversità di donna inappagata. Infine, la visita della sorella Vanessa insieme ai figli costituisce per Virginia un evento critico per la sua stessa scrittura. Dopo le profonde riflessioni sulla morte scaturite dal toccante episodio del tordo morto, che porteranno la scrittrice a modificare lo sviluppo del proprio romanzo, Virginia saluta la sorella con un bacio fremente sulla bocca, quasi per dimostrarle la padronanza di sé e il suo viscerale attaccamento a lei.

La dimensione dell’omosessualità, dunque, avvolge la vita delle tre donne, pur assumendo modulazioni diverse: quella di Virginia riflette la sua profonda sensibilità di artista e accompagna il suo male di vivere nella disperata volontà di liberarsi dalle implacabili “voci” del suo inconscio; quella di Laura affiora dalla propria latenza per metterla di fronte all’impossibilità della finzione e alla necessità di fare una scelta radicale per trovare un modo di essere finalmente se stessa; quella di Clarissa è invece l’unica a essere serenamente vissuta e non a caso a rappresentare un presente risolto a fronte di un passato per sempre perduto, da cui emergono soltanto turbolenti ricordi. Un’omosessualità che si lega, allora, alle loro profonde inquietudini, ma soprattutto alle loro scelte di vita, che hanno in ogni caso tutte a che fare con il tema della morte e in particolare con quello del suicidio. Ed è proprio intorno a questo motivo che il film opera due operazioni significative rispetto al libro: per un verso aggiunge un’intenzione che si risolve in un sogno e per altro verso sottrae una visione troppo concreta e realistica, sospendendo così la dimensione del suicidio o su un piano onirico oppure su uno occultato.

Nella fuga di Laura all’interno dell’ambiente impersonale della stanza d’albergo non c’è, secondo il romanzo, l’intenzione del suicidio, ma solo l’idea che sia “possibile morire” e uno sfuggente desiderio di morte. Nel film, invece, ella vi si reca con quattro flaconi di farmaci e l’intento preciso di sottrarre se stessa a una realtà che non sente più sua. Ma il proposito svanisce, se si vuole, in un incubo: quello di essere inondata dalle acque irruenti di un fiume che sgorga da sotto il letto e la sommerge nel sonno, proprio nel momento in cui Virginia concepisce l’idea che non è la protagonista del suo romanzo che deve morire, “ma qualcun altro per lei”. Così sembra quasi che il pensiero della scrittrice si proietti su quello della lettrice e la liberi dalla sua identificazione con la protagonista. In questo modo Laura rinuncia al suicidio, ma per salvarsi sceglierà l’abbandono della famiglia, lasciando piuttosto che il figlio, che non è mai riuscita ad amare, “muoia per lei”.

Richard, per la verità, il poeta pazzo e malato di Aids, anch’egli, come Virginia, ossessionato dalle “voci”, non muore solo per la madre, ma anche per Clarissa, negando così che qualcuno possa rimanere in vita per qualcun altro. Tuttavia anche qui il suicidio di Richard, che nel romanzo si compie non solo attraverso l’atto, ma si traduce soprattutto nell’incredulo sconforto di Clarissa piegata sul suo cadavere nel disperato intento di rianimarlo, nella pellicola si risolve solo con un salto nel vuoto che lascia sospeso, nello sguardo sbarrato della donna, l’esito irreparabile di una scelta senza appello. In questo caso la morte reale è messa in scena in maniera occultata, secondo un’ellissi che congela l’orrore e sospende ogni commento, così come lo stesso suicidio di Virginia, in apertura e chiusura del film, è colto solo nel suo compimento, senza indugiare nel viaggio “onirico” del suo corpo dentro il fiume, come accade nel prologo del libro.

Sono dunque i due “poeti”, i due “visionari” a togliersi la vita, coloro che hanno conosciuto solo la promessa della felicità, ma non l’hanno mai raggiunta, mentre le altre due donne, per strade diverse, riescono a scegliere definitivamente la vita: Laura con un drastico taglio dei suoi affetti più intimi, Clarissa, al contrario, con un attaccamento più intenso alla propria compagna.

Alla fine, dunque, sono quattro i piani che si intrecciano: il romanzo Mrs. Dalloway che muove le fila di tutte le storie, la scrittura nervosa di Virginia ritratta mentre compone nella desolata periferia di Londra del 1923, la lettura sofferta di Laura ripresa nella sua dimora in un’asettica e ordinata Los Angeles del 1951, e la vita contrastata di Clarissa seguita nei suoi spostamenti in una caotica New York del 2001. Se il romanzo di Cunningham fonde questi piani attraverso un sottile gioco di richiami interni, di motivi nascosti e di pensieri evocati, secondo una composizione intrinsecamente narrativa che tende a risparmiare nel dialogo e a indugiare nel ricordo, il film di Daldry spinge all’estremo questo gioco, frammentando ancor più le storie, montandole in sequenze rapidamente alternate, ma soprattutto cadenzando il ritmo dell’azione attraverso un incalzante contrappunto di dettagli e di particolari che esasperano la tensione degli eventi e commentano più di ogni altra parola l’ossessione, l’inquietudine e il turbamento delle tre protagoniste.