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IL CUORE E LA VOCE: DUE SIMBOLI OPPOSTI DELLO STESSO CONFLITTO

https://www.cineclubroma.it/images/Diari_di_Cineclub/edizione/diaricineclub_143.pdf#page=6

Forse era dalla guerra nel Vietnam che non si vedevano manifestazioni di massa tanto diffuse in diverse città mondiali e tanto persistenti nel sostenere una causa umanitaria e politica. Così come la carovana del mare della Global Sumud Flotilla ha pochi precedenti nella storia del Mediterraneo, soprattutto perché ha avuto un impatto decisivo sulla mobilitazione della coscienza collettiva.
A fronte tuttavia di un totale rovesciamento dei termini della realtà: si è parlato di “diritto internazionale valido fino a un certo punto”, di “acque internazionali violate da parte della flotilla”, si sono tacciati gli attivisti umanitari di essere dei criminali terroristi, non si è condannato Israele per averli arrestati illegalmente ma lo si è ringraziato per averli risparmiati. Soprattutto è stato concepito un piano di pace di matrice colonialista, basato sull’esclusione del popolo oppresso, sullo sfruttamento delle sue terre, sulla limitazione della sua libertà e in particolare sulla speculazione da parte di altre superpotenze. Con il risultato che quello che è successo nella striscia di Gaza, in termini di devastazione, massacro, sterminio, affamamento molto probabilmente non verrà mai perseguito.
Questo il quadro di un conflitto in cui l’organizzazione terroristica di Hamas ha stretto un accordo con il governo genocidario di Israele, sotto il controllo e la gestione dell’impero americano. Nessuna autodeterminazione riconosciuta ai palestinesi, nessun riferimento alle sorti della Cisgiordania, nessuna indipendenza dall’egemonia degli Stati Uniti.
Ma quello che forse resterà più impresso è il valore simbolico che ha assunto Gaza nel mondo. Tanto che i due anni di distruzione totale del territorio, di sterminio sistematico della popolazione, di massacro disumano dei bambini – le cui cifre non si attesterebbero nelle decine di migliaia di vittime ma nelle centinaia di migliaia – hanno totalmente surclassato i tre anni e mezzo di invasione dell’Ucraina da parte della Russia, che ha prodotto una situazione assai più cruciale nel cuore dell’Europa, seppure il numero delle vittime rispetto al Medioriente risulti molto più ridotto.
Gaza dunque è diventata così rappresentativa dell’orrore genocidario contemporaneo che la si può considerare un vero e proprio simbolo da mettere in scena in varie forme.
L’operazione realizzata dalla regista tunisina Kawthar ibn Haniyya nel film La voce di Hind Rajab (2025) è consistita nell’inserire la voce originale di una bambina palestinese di cinque anni – rimasta intrappolata con i cadaveri dei genitori, di tre fratelli e di una cugina in un’auto a Gaza colpita dal fuoco di un carro armato – all’interno di un film di fiction ambientato nel braccio palestinese della Mezzaluna rossa a Ramallah, in Cisgiordania.
La messinscena di quelle tre ore cruciali in cui gli operatori cercano in tutti i modi di capire dove si trovi la bambina, di inviare i mezzi per soccorrerla, di fronteggiare i blocchi imposti da Israele e soprattutto di sostenerla psicologicamente e di non perdere la comunicazione con lei si misura dunque con la voce reale della bambina, registrata dalla centrale, che chiede a più riprese di essere salvata, che i soccorritori vadano da lei e non capisce perché non arrivano, dice che ha paura, che sull’auto sono tutti morti, che sente sparare ancora, che sta arrivando il buio.
Questo cortocircuito tra l’impotenza della centrale operativa e la disperazione della bambina è fortissimo: la rabbia degli operatori che non riescono a intervenire e il terrore della piccola che si sente abbandonata senza capirne il motivo polarizzano la tensione su due estremi inconciliabili che rappresentano la dimensione più oscura dell’orrore. Hind Rajab diventa il simbolo di tutti i bambini che si trovano in una situazione immensamente più grande di loro, da cui nessuno è in grado di tirarli fuori. Perché quell’ambulanza che si trova a soli otto minuti da lei e finalmente riesce a partire superando i blocchi lungo il percorso verrà mitragliata a pochi metri dalla meta e i due paramedici a bordo troveranno la stessa morte che colpirà la bambina.
Dunque la regista tunisina ha avuto l’intuizione di rappresentare attraverso la voce di Hind non solo l’atrocità della guerra, l’imposizione dei blocchi, l’aggressione ai soccorsi, ma soprattutto il dramma umano degli operatori che non riescono a consolare una bambina che ha tutto il diritto di essere salvata, che non riescono a spiegarle perché non vanno a prenderla, che non possono tirarla fuori da quell’orrore perché anche i soccorritori vi soccombono.
Tutt’altro approccio alla tematica ha avuto la regista palestinese-americana Chretien Dabis nel suo film Tutto quel che resta di te (2025), in cui si racconta la storia di tre generazioni di palestinesi attraverso tre linee temporali: si inizia nel 1988 con la prima Intifada durante la quale Noor, un adolescente palestinese, viene colpito da un proiettile sparato dagli israeliani, poi si va indietro al 1948 a Jaffa dove il nonno di Noor viene arrestato perché non vuole abbandonare la propria terra dopo che gli inglesi hanno lasciato la regione, ancora si va avanti al 1978 in un campo di rifugiati della Cisgiordania dove il padre di Noor viene umiliato da un soldato israeliano davanti al figlio, che ne rimane traumatizzato.
Contrariamente al film della regista tunisina, che sfidando gli stessi canoni narrativi gira un’opera anticinematografica, il film della regista palestinese sviluppa per salti temporali una vera e propria saga familiare, attraversata da alcuni momenti cruciali dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi e dalle rivolte del popolo oppresso che ne sono scaturite. Fino ad arrivare ai tempi più recenti attraverso un confronto diretto tra la madre ormai anziana di Noor e un giovane israeliano che ha beneficiato della donazione del cuore del ragazzo mandato in coma dal fuoco israeliano.
La donna racconta, nel lungo flashback rappresentato dal film, la storia della sua famiglia per far capire al ragazzo salvato chi era suo figlio. Dolorose sono state le scelte di portarlo in Israele per cercare di salvarlo e poi di acconsentire all’espianto degli organi sapendo che potevano essere donati a degli israeliani. E anche il cuore di un palestinese che batte nel petto di un israeliano è un altro simbolo. Perché rivela la paura che il cuore di una vittima possa diventare il cuore di un potenziale persecutore. Ma per la regista è anche il pretesto per far dialogare due punti di vista diversi.
Infatti nel dialogo finale emerge una chiave di lettura importante nel rapporto tra ebrei e palestinesi. I primi sono portatori di un danno irreparabile e inarrivabile. I secondi sono i destinatari su cui è ricaduto questo danno attraverso il tempo. Per esistere gli israeliani hanno dovuto sacrificare i palestinesi e il dolore di cui erano portatori è stato trasmesso a chi hanno trovato sulla terra assegnata.
Non è una lettura che assolve e giustifica, ma fa comprendere che un danno ricevuto e mai risolto lo si trasmette fatalmente a terzi, in una sorta di contagio che nemmeno la storia riesce a mondare.
La voce di Hind e il cuore di Noor sono dunque due metafore per esprimere due aspetti diversi e contrari di una irresolutezza ancestrale: la voce si spegne sotto il cieco accanimento di un’occupazione forzata e il cuore continua a battere nella mutua compassione che quel dolore trasferito da un popolo a un altro possa definitivamente estinguersi.
Piacerebbe pensarla così anche nella realtà, ma non bastano la cessazione delle ostilità, la liberazione di ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi, l’arrivo degli aiuti umanitari alla popolazione stremata di Gaza, la ricostruzione economica del territorio e la garanzia dell’autonomia palestinese. Ci sono aspetti molto più complessi e profondi che dovranno essere affrontati, sul piano umano, civile, legale, etico, sanitario. Forse il primo tra tutti è quello di recuperare l’equilibrio mentale, la fiducia nel presente e la speranza nel futuro dei bambini traumatizzati dall’orrore dello sterminio. Ovvero i sopravvissuti che non sono stati “sommersi” come tutti quelli che hanno trovato la morte, ma sono ben lontani dall’essere “salvati” solo perché sulle loro teste, per ora, non piovono più bombe.

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