Capriccio d’anima tra isola e città

Dare corpo a un’anima

Copertina Capriccio d'animaMai inventare un personaggio che ti possa sopraffare. Non solo non te ne liberi più, ma si prende anche tutta la gloria lasciandoti nell’ombra. D’altra parte, si sa, le creature letterarie sopravvivono ai loro autori, ma nella fattispecie questa creatura era già eterna di sua natura e io ho compiuto l’irrimediabile peccato di immortalarla ancora di più. Dandole un corpo, una personalità, un temperamento non solo diversi dai miei, ma anche antitetici, col risultato di creare non un alter ego ma un antagonista, con cui giocare una doppia partita, sia su un piano reale che su uno immaginario.

In fondo tutto è iniziato così, quasi per gioco. Da tempo andavo dicendo di avere un’anima che si staccava dal corpo e faceva vita a sé, in base ai propri aneliti e capricci. Una dissociazione necessaria a conciliare un’esistenza divisa tra due luoghi di elezione, un’isola e una città, in cui non abito soltanto, ma per le quali vivo. E non avendo il dono dell’ubiquità ho dovuto sdoppiarmi, con tutte le conseguenze del caso. A cominciare col fare i conti con qualcos’altro da me, cui ho dato dignità di personaggio fino a renderlo persino più credibile del suo stesso autore.

L'isola per sempreCosì nell’estate del 2015 ho scritto la prima serie di novelle ambientate all’isola d’Elba, unico luogo in cui vivo in comunione con l’anima. E quasi a giorni alterni postavo gli episodi su facebook sempre associati a immagini tematiche (spesso fotografie scattate da me), con relativi commenti del pubblico, al punto da tirare in mezzo lo stesso social nella narrazione, giocando così anche su un piano metanarrativo. Poi a metà settembre ho scandito lo strazio della separazione dall’anima attraverso un conto alla rovescia altrettanto illustrato.

Prima saga dell’anima

Eterna è la cittàNel dicembre dello stesso anno, sotto le feste natalizie, ho affrontato la seconda serie di novelle ambientate nella città eterna, nella quale eccezionalmente l’anima mi aveva raggiunto. E fino a oltre la Befana sempre a giorni alterni postavo su facebook gli episodi debitamente illustrati con mie o altrui fotografie, riproponendo la struttura “interattiva” con il social che consolidava il già scoperto gioco delle parti. Infine, subito dopo la Pasqua di quest’anno, ho inserito un finale alla raccolta con il mio ritorno all’isola e l’ultima sorpresa che mi attendeva.

Seconda saga dell’anima

Capriccio con rovine classiche - CanalettoDunque un duetto tra anima e corpo in due movimenti, uno isolano e l’altro cittadino, uno estivo e l’altro invernale, con un intermezzo e un finale, qui raccolti in un unico volume. L’isola e la città. L’infinito e l’eterno. Due dimensioni esistenziali inalienabili il cui connubio poteva essere solo il prodotto di un capriccio. Come accade nel capriccio architettonico che coniuga le rovine classiche con i paesaggi costieri, l’antichità con il mare, il tempio con il veliero, così il capriccio dell’anima combina due realtà quanto mai distanti nel suo infaticabile contrasto con il corpo.
Il quale per altro l’estate seguente pensa bene di riprendersi una rivincita sull’anima attirando su di sé tutta l’attenzione. Di punto in bianco piomba in terra frantumando ginocchio e caviglia con conseguente degenza romana lontano dall’isola e dall’anima. Tre mesi d’incubo in cui è successo di tutto, narrato tra fiction e realtà, lettere e visite, duetti e trii, in appendice alla seconda edizione.

La volta del corpo

Isola d’Elba, Marciana Marina, estate 2015. Una casa a picco sull’acqua davanti a una distesa infinita di cielo e di mare. Un’anima che ha deciso di rimanere lì per sempre. E un corpo che la porta in barca, le mostra i tramonti, sopporta i suoi assilli e fronteggia le sue intemperanze. Finché lei non si accorge di essere il personaggio di alcune novelle messe in rete e allora la situazione precipita. Ma in realtà nulla è come sembra.
Roma, Trastevere, inverno 2016. Una casa affacciata sul Tevere davanti al Monte de’ Cocci e ai campanili dell’Aventino. Un’anima che piomba a sorpresa durante le feste natalizie. E un corpo che la scorrazza sui ponti, la segue al mercato, la trascina ai musei, la rincorre tra i ruderi, finché quella non svanisce nel nulla. Ormai sembra tutto perduto ma con l’arrivo del nuovo anno incombe l’Epifania a rimettere in gioco ogni cosa.
Roma, Fatebenefratelli, estate 2016. Un ospedale sull’isola tiberina in cui il corpo si prende la sua rivincita andando in frantumi e rubando il protagonismo all’anima. Ma quella non si dà per vinta: prima chiede i danni, poi si fa blandire, infine viene in visita a sorpresa.
Come il capriccio architettonico combina rovine classiche e paesaggi costieri così il capriccio dell’anima palpita tra un’isola e una città, oscilla tra l’infinito e l’eterno, si divide tra il mare e l’arte come appunto un’anima dal corpo, in un continuo gioco delle parti in cui è il pubblico stesso a esser chiamato a partecipare a una narrazione sempre più imprevedibile e sorprendente.




Le frontiere più estreme dell’autoscatto

COME CI SI PUÒ AMMALARE O MORIRE DI SELFIE

Spiegatemi la grandezza di scalare l’Everest,
ti sforzi, muori dal freddo, arrivi in cima e non c’è niente,
neanche una rete 3G per twittare un selfie.
Anonimo

  1. Dal Selfie Alphabet alla “selfite”

     Non importa dove, non importa quando, non importa come. L’importante è esserci. E per poterlo fare occorre provarlo. L’autoscatto attesta una presenza esclusiva, testimonia un’identità inquivoca, veicola l’unicità del proprio sé nella rete, attribuendone un riconoscimento e determinandone un’appartenenza. Se il selfie ha un senso in quanto postato sui social, il mostrare se stesso non è più una rappresentazione di ciò che si crede di essere o di ciò che si vuole far credere di essere – secondo gli “immaginari” individuati da Roland Barthes[1] – ma diventa altresì una testimonianza di esistenza, quale che sia, che richiede la diffusione in rete per essere certificata (attraverso like, espressioni emotive, commenti verbali, condivisioni).
1Naturalmente i social sono pieni di immagini che riproducono paesaggi, monumenti, animali, persone, oggetti, qualsiasi presenza che possa attestare un proprio esserci nel mondo in qualità di testimone, attribuendo in questo modo alla fotografia quel duplice ruolo di “possesso” e di “consumo” che ne designa la valenza di riproduzione e di immortalità secondo Susan Sontag[2]. Eppure la documentazione di esperienze o avvenimenti – che siano viaggi, azioni, cerimonie, ricorrenze – sembra perdere la propria autorevolezza se il soggetto della “ripresa” non si fa oggetto della stessa, al punto che il proprio sé finisce col surclassare tutto il resto, rendendo spesso irrilevante ogni contesto o occasione che lo giustifichi.
Esserci, dunque, sopra ogni cosa. E naturalmente farsi apprezzare e condividere. Ma il selfie non è solo un modo per attestare se stessi, per richiedere conferma oppure conforto a seconda del proprio grado di autostima. Il selfie è comunque una forma di esibizione che anziché neutralizzare un certo narcisismo, al contrario lo potenzia. È vero, Narciso basta a se stesso, si incanta da solo di fronte alla sua immagine riflessa, non ha bisogno di mostrarsi, né tantomeno offrirsi ai giudizi degli altri, la sua contemplazione è solitaria, si consuma nel suo sguardo e si spegne nello stesso riflesso che non riesce a catturare. Ma anche nel selfie c’è auto-contemplazione. L’immagine del sé viene catturata (riprodotta) e diffusa (immortalata) non solo per esibirsi al mondo, con i relativi riscontri amplificati nella rete, ma anche per continuare a specchiarvisi nelle sue molteplici risoluzioni senza struggersi perché svanisce nell’acqua. Così anche una scarsa autostima può generare compiacimento, anche un’insicurezza profonda può provocare l’innamoramento del sé, perché il social non è solo condivisione, ma anche archivio, non è solo una vetrina collettiva, ma anche un album singolare, cosicché ci si può sempre ammirare nella memoria infinita dei propri selfie.
2Solo che la storia non finisce qui. Se la presenza virtuale nel web attraverso l’autoscatto – per esserci, per mostrarsi, per esibirsi, per contemplarsi – attesta comunque una dimensione identitaria, sia pure fittizia o truccata o alterata, la sua evoluzione porta alla frantumazione di tale identità, messa a servizio di particolari, situazioni, animali che ne determinano il significato.
È possibile così declinare quasi tutto l’alfabeto per definire i vari hashtag dedicati ai selfie, a cominciare dalle parti di corpo. Non più allora il volto intero, semmai il profilo migliore (#helfie, da half selfie), o solo le gambe, di solito sdraiate in bikini (#lelfie, da leg selfie), o le unghie delle mani dopo una manicure perfetta (#nelfie, da nail selfie), o le acconciature dei capelli quanto mai eccentriche (#helfie, da hair selfie), o ancora il fondoschiena, tonico o flaccido che sia (#belfie, da b-side selfie). Ma ci sono anche i torsi nudi maschili, non per forza muscolosi (#shirtless selfie, senza maglietta), o i seni di donne intenti ad allattare (#brelfie, da breast selfie), oppure certe espressioni come la lingua di fuori (#tongue-out selfie), o le labbra a becco di papera (#duck selfie). Sempre riguardo il corpo ci sono poi i fashion selfie (#felfie) che mostrano capi di abbigliamento, o i wellness selfie (#welfie) che evidenziano la cura del corpo, o ancora i gym selfie (#gelfie) che esaltano i muscoli fatti in palestra.
Ma la mania dell’autoscatto si estende anche alla presenza di animali, domestici o di fattoria, persino pelouche, e gli hashtag dedicati a loro sono molteplici (#alfie da animal, #delfie da dog, #relfie da reindeer, renna, #pelfie da pet o pelouche, #felfie da farm, animali di campagna). Mentre altre tipologie di autoscatto vengono contraddistinte dai luoghi in cui vengono fatte, eminentemente in bagno (#telfie da toilette e #melfie da mirror), oppure davanti a dipinti o a statue (#museum selfie), o peggio dietro a bare di parenti (#funeral selfie), per non dire alla guida di auto o di moto in corsa (#driving selfie). Non mancano però i selfie a letto dopo aver fatto sesso (#aftersex) oppure appena svegli, o quelli a tavola con il cibo nel piatto prima di mangiarlo, o quelli con smorfie e facce varie in foto tessera, o quelli che riproducono vecchie foto, o quelli in stile nerd, casual, nature, coatto, meditato, sfatto, o ancora i video selfie (#velfie), per non dire dei selfie al selfie in cui l’autoscatto si eleva al quadrato nel riprodurre a sua volta un autoscatto.
Dunque una vera epidemia febbrile, trasmessa per contagio o imitazione, che raggiunge forme ossessive in base alle mode del momento e si organizza secondo un preciso codice di hashtag, tanto da aver fatto parlare di “selfite”, una sorta di affezione articolata in tre fasi – iniziale, acuta e cronica, in base a quanti selfie si fanno e si postano al giorno – che tuttavia non sembra avere alcun fondamento scientifico. In realtà non c’è nessuno studio che attesta una patologia legata al selfie, seppure ci siano diverse forme di abuso che possono condurre a dipendenza, frustrazione, condizionamento, inadeguatezza, autoreferenzialità. Tutto sommato più un disagio che un disturbo, più un eccesso che una malattia… fino a quando però il gioco non si fa duro.

  1. Dal Selfie Olympics al selfie estremo

    Prima si sono formati sui social gruppi pubblici e privati di selfie games. Perlopiù autoscatti di facce buffe, espressioni divertenti, piccoli camuffamenti del volto, con nasi o orecchie da animale, con cappelli o occhiali esagerati, insomma una serie di varianti giocose del selfie che di rado si estendevano a tutto il corpo o a parti di corpo. Poi però sono subentrate le pose curiose e le situazioni azzardate che hanno messo in scena delle vere e proprie gare di esibizioni più o meno acrobatiche, assurde, ridicole, imbarazzanti.
3La condivisione in rete è diventata competizione virale e sono sorti i selfie olympics organizzati anch’essi in pagine e in hashtag di facebook, twitter e instagram. Il luogo privilegiato per queste gare olimpioniche si è rivelato proprio il bagno di casa (soprattutto perché c’è lo specchio che permette anche i selfie riflessi), con le varianti della cucina, della camera da letto o dello sgabuzzino. Nell’ambito delle diverse prestazioni si sono poi evidenziati veri e propri generi: i selfie koala arrampicati sulla porta, in equilibrio sui pomelli, in bilico sull’anta; i selfie nudi sospesi nel vuoto sopra la vasca o sopra il letto; i selfie rannicchiati dentro il forno o il camino o il frigorifero; i selfie acrobatici su tricicli, skateboard, sedie impilate, oppure rovesciati sottosopra, puntellati sulle pareti, a penzoloni dalla finestra; i selfie con oggetti ingombranti in spazi ristretti come una canoa o un tagliaerba o un’automobile a pedali; i selfie in cui si cucina con le piastre sul lavello o vi si mangiano dentro gli spaghetti; i selfie in cui si celebrano messe o funerali in bagno travestiti da monaci o santoni; i selfie con parodie di allenamenti e prestazioni ginniche sempre dentro la toilette; i selfie con effetti ottici di specchi all’infinito e di piani prospettici che rimandano a più scene; i selfie mascherati da supereroi con simulazioni di prodezze ridicolizzate.
Insomma una casistica infinita di posizioni, prestazioni, effetti speciali, combinazioni, simulazioni, messinscena dissacranti, sfide, provocazioni, eccessi, parodie. Il tutto dentro l’intimità della propria abitazione, che si trasforma tuttavia in un habitat surreale in cui ogni cosa è possibile, proprio nell’intento non solo di esibirsi per quello che si è ma soprattutto di stupire per quello che si è in grado di fare attraverso soluzioni sempre più audaci, ridicole, assurde.
Così da un piano di autoreferenzialità realistica, che rimanda appunto a una propria identità “corretta” semmai da apposite applicazioni per risultare ancora più “ideale” secondo determinati modelli, si passa a un piano di performance esibizionistica che rinvia a un’identità alterata da una serie di prove che piuttosto dissacrano la realtà, ne rovesciano le funzioni, la spingono verso una deriva di nonsenso e paradosso.
Cosicché il riprodursi e il diffondersi in rete attraverso competizioni “olimpioniche” non è più un atto per cercare conferme del proprio sé o per compiacersi dei propri ritratti, non è nemmeno una smania di imitazione che porta a emulare altri modelli, o un’ossessione compulsiva che induce a rappresentarsi in varie forme; diventa piuttosto una spirale contagiosa che porta a sfidare nuove frontiere performative, in cui non conta tanto l’esserci ma il fare, non la propria identità ma la propria prestanza, non il proprio volto anonimo ma la propria prodezza personalizzata.
Eppure ci si può spingere ancora più oltre. Basta fare un salto dall’interno all’esterno, lasciando gli spazi asfittici delle toilette o quelli ancora più restrittivi dei forni per quelli vertiginosi dei grattacieli o per quelli adrenalinici delle rotaie e il gioco è fatto: si approda all’universo pericolosissimo del selfie estremo.
4I pionieri sono stati gli scalatori di grattacieli, torri, ponti, statue, tralicci e quant’altro potesse dare il senso di verticalità vertiginosa che si era raggiunto. Tutti autoscatti con lo sfondo del vuoto che si ha sotto i piedi per siglare una prodezza che non appaga per la vista che si può godere dall’alto, ma per la vista di sé che si può dare sull’orlo del nulla. Le varianti dei selfie “aerei” sono poi quelle scattate in caduta libera col paracadute, o da diversi velivoli sporgendosi fuori dalla cabina, o sospesi nel vuoto attaccati a funi o a cavi, o quando non addirittura nello spazio.
Ma non c’è solo il cielo da sfidare, anche in mare si possono fare selfie estremi con balene e pescecani, o quando si è travolti da un’onda con il surf, o buttandosi a precipizio da una cascata o semplicemente stringendosi addosso un coccodrillo. Seppure le fiere predilette da abbracciare per un wild selfie rimangono i leoni, le tigri, gli elefanti come fossero animali domestici, quando invece non ci si vuole immortalare mentre si scappa rincorsi da tori o da orsi inferociti.
Eppure la vera sfida del pericolo nel ritrarsi in situazioni temerarie si misura soprattutto attraverso atti sconsiderati, come restare sulle rotaie fino a poco prima che il treno sopraggiunga, o arrampicarsi sui piloni dei cavi ad alta tensione, o usare per scherzo armi da fuoco o bombe a mano, o semplicemente mettersi in posa quando si corre alla guida di auto o di moto, o ancora in circostanze catastrofiche come incendi, esplosioni, naufragi, attentati, ecc.
Quando però il mostrarsi per esistere si fa anche a rischio della vita allora i tratti comportamentali di oggettificazione del sé possono assumere tendenze psicotiche, laddove non si ha più la percezione di un reale pericolo e si è posseduti dal bisogno di superare se stessi. Nel suo testo La vita quotidiana come rappresentazione[3] Erving Goffman mette ben in luce la tesi secondo cui si diventa se stessi solo mettendosi in scena per gli altri, tanto che per potersi affermare occorre mostrarsi a un pubblico che valuti cosa si è capaci di fare. E il selfie estremo sembra proprio avvalorare questa necessità di certificazione a qualsiasi costo, anche a quello della vita. Nell’inalienabile dimensione virtuale del social in cui tutto si può simulare, morire davvero appare così l’unico modo autentico per rendere reale la propria rappresentazione, perché nulla come la morte può attestare la propria esistenza.

  1. Dal “selficidio” al Safe Selfie

     In India tre ventenni di Nuova Delhi sono morti tra le rotaie mentre cercavano di farsi un selfie sui binari con un treno in arrivo, senza riuscire a salvarsi in tempo per via della velocità del convoglio. In Russia un adolescente è morto nella regione del Ryazan per aver toccato i fili dell’alta tensione mentre cercava di farsi un selfie arrampicandosi sul ponte di una ferrovia. Altri due ragazzi russi sono saltati in aria sui monti Urali mentre si facevano un selfie tenendo in mano una granata nell’atto di innescarla. Una ragazza moscovita si è sparata un colpo in testa per errore mentre si faceva un selfie puntandosi la pistola alla tempia. In una stazione di Barcellona un quindicenne è morto per una scossa elettrica alla testa dopo essersi fatto un selfie con l’asticella sul tetto di un treno merci. Un altro cittadino spagnolo è morto brutalmente incornato mentre tentava di farsi un selfie rincorso dai tori. Un turista giapponese è precipitato mentre era intento a scattarsi un selfie in cima al tempio indiano Taj Mahal. Una sedicenne italiana è scivolata per lo stesso motivo dalla rotonda di Taranto schiantandosi sulla scogliera sottostante. Anche una coppia di turisti polacchi è volata giù da un dirupo per farsi un selfie panoramico in Portogallo.
6Alle decine e decine di morti fulminati, travolti, esplosi, precipitati, sempre nell’intento di immortalarsi in condizioni estreme, si aggiungono poi le numerose vittime dei driving selfie, scattati alla guida di veicoli in corsa non badando alla strada. Gli incidenti provocati per sbandamento di auto e di moto a seguito di distrazioni da selfie hanno raggiunto anche in Italia, soprattutto nella zona del napoletano, un’incidenza tale da annoverare il selfie alla guida come un pericolo stradale alla stessa stregua della droga e dell’alcol.
Naturalmente considerare questi episodi di decesso per selfie estremo solo come un risultato di prodezze avventate significa banalizzare il fenomeno. Anche perché non si tratta di casi isolati, negli ultimi anni si parla di più di un centinaio di morti e feriti per la pratica dell’autoscatto in condizioni pericolose e la cosa non può essere ascrivibile solo ad atteggiamenti comportamentali. Non rendersi conto di correre il rischio di morire, o peggio ancora sfidare volutamente quel rischio anche solo per rendere “straordinaria” un’esperienza banale come una vacanza denuncia una pulsione psicotica ad andare oltre se stessi, facendo qualcosa di eccezionale che possa diventare memorabile, proprio per evadere dalla finzione o dalla routine. Insomma una tendenza inconscia di superare l’alienazione quotidiana o di infrangere la dimensione virtuale anche a costo della propria vita che alcuni psicologi hanno definito col termine di “selficidio”.
Al punto che in Russia, dove il fenomeno ha raggiunto una rilevanza statistica data la pratica particolarmente diffusa di performance pericolose per autocelebrarsi, il Ministero dell’Interno ha lanciato una campagna contro i selfie temerari, divulgando una guida intitolata Safe Selfies per orientare all’autoscatto sicuro. Oltre a moniti come “un selfie con un’arma può uccidere” o “una foto estrema rischia di essere l’ultima” o “un selfie figo può costarvi la vita”, la campagna di sensibilizzazione si basa anche su volantini, video, suggerimenti, cartelloni ispirati alla segnaletica stradale che raffigurano divieti di autoscatto con arma da fuoco, in prossimità dei binari, vicino a belve feroci, arrampicati su ponti o tralicci, alla guida di autoveicoli, ecc.[4]
5Anche in Italia la Polstrada insieme alle Asl Napoli 1 e Napoli 2 ha tenuto una serie di seminari per sensibilizzare i giovani a non fare selfie mentre si guida tanto quanto non far uso di droga o di alcol, con una campagna “no selfie – no drink – no drug” che mette appunto sullo stesso piano di pericolosità l’autoscatto con le sostanze psicotrope, soprattutto dopo la diffusione del «Periscope», l’applicazione di video-live collegata a twitter che permette di mandare in diretta tramite cellulare qualsiasi filmato ovunque ci si trovi.
Insomma il selfie trattato come una sostanza che può dare dipendenza, tolleranza o assuefazione, che può alterare l’attività mentale, lo stato di coscienza o il comportamento, che può spingere a simulare atti estremi (come puntarsi addosso una pistola o fingere di innescare una bomba) o a affrontare prove rischiosissime (come scalare tralicci di cavi ad alta tensione o sostare sui binari al sopraggiungere di un treno), tanto da essere combattuto attraverso politiche di controllo e di sicurezza a livello nazionale.
Ma il risvolto più paradossale di tutti, in questo gioco di messinscena con la morte, è che per contrastare incidenti e decessi sono state studiate anche nuove applicazioni per simulare la condizione da selfie estremo, in modo da effettuarlo senza viverlo, attraverso sfondi fittizi o circostanze ricostruite che possano restituire l’audace impresa senza aver corso alcun rischio. Così la situazione estrema che si cercava per rendere ancora più “vera” la propria rappresentazione viene risolta in modo “virtuale”, tornando a quella finzione di partenza che si voleva tanto scongiurare.
È il circolo vizioso del selfie perfetto: più si cerca di farlo veritiero più diventa innaturale, più si cerca di rappresentare se stessi più ci si mostra altro da sé. E forse è proprio in questo gioco di rimandi interni che si annida la vera ossessione per l’autoscatto: Narciso muore struggendosi perché non riesce a riconoscere che l’immagine riflessa di cui si è innamorato è la propria (non essendosi mai visto), il “selfista” invece si danna, quando non muore, perché non riesce a far riconoscere agli altri l’immagine ideale di sé (pur essendosi mostrato all’infinito).

[1] R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino, 2003.
[2] S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino, 2004.
[3] E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 1970.
[4] Si vedano i siti www.travelblog.it o www.blitzquotidiano.it, campagna russa e guida contro il selfie estremo.

7




Omaggio a William Shakespeare

L’INVENTORE DELL’UMANO

1Così diceva di lui Harold Bloom: “Falstaff, Shylock, Iago, Lear, Macbeth, Cleopatra sono l’invenzione dell’umano, l’inaugurazione della personalità come siamo abituati a conoscerla. (…) La personalità come la intendiamo noi è un’invenzione shakesperiana e non rappresenta solo la maggiore originalità del drammaturgo, ma anche la vera causa della sua perenne pervasività.”2
E ancora: “Shakespeare è importante perché nessun altro ci regala così tanti io, più grandi e più comprensibili del nostro migliore amico o della persona amata. Non penso che ciò faccia di Shakespeare un surrogato della vita, ma è questa piuttosto a essere un surrogato insufficiente di Shakespeare.”
Dunque Shakespeare ha inventato tutte le personalità più significative, prima di lui non esistevano, dopo di lui sono state solo imitate. Così invece di insistere sull’oziosa questione della paternità delle sue opere (perché al nome di Shakespeare ormai non corrisponde più un autore ma un canone) credo sia molto più opportuno dar voce a quelle memorabili personalità che hanno definito già 400 anni fa la vera natura dell’umano.

1.  AND BRUTUS IS AN HONOURABLE MAN

Julius CaesarL’orazione funebre di Antonio è un capolavoro di eloquenza retorica. Allude al contrario di quello che afferma, nega di voler dire dicendo e ribalta i sentimenti del popolo. Dopo il discorso di Bruto che dichiara sul suo onore di aver ucciso Cesare perché era ambizioso Antonio ripete più volte che Bruto è un uomo d’onore ma porta vari esempi in cui Cesare è stato tutt’altro che ambizioso, testimoniando dunque il contrario. Poi tira fuori a sorpresa il testamento di Cesare rifiutandosi di rivelare il contenuto per non esaltare i romani, ma poi dice “meglio che non sappiate che Cesare vi ha nominati suoi eredi, perché se lo sapeste sarebbe il finimondo!” Infine si dichiara incapace di parlare al popolo, mentre sta facendo un grandissimo discorso, e aggiunge che ci vorrebbe uno bravo come Bruto per infiammare gli animi, mentre lo sta facendo lui. E con la massima reticenza spinge il popolo alla rivolta.
Mentre nel cinema il Marc’Antonio più statuario rimane forse quello di Marlon Brando.

ANTONIO
Cari amici, dolci amici, non vorrei io mai spingervi
a un tale uragano di ribellione.
Quelli che questa azione commisero, son uomini d’onore;
da quali privati rancori siano stati mossi a compierla, ahimè, non so,
ma so che sono saggi e uomini d’onore,
e, senza dubbio, avranno una risposta per voi, che li giustifichi.
Io non sono venuto, cari amici, con la pretesa di rapirvi il cuore.
Non sono un buon oratore come Bruto, io;
sono quale mi conoscete tutti, un tipo semplice e naturale
che adorava il suo amico: e lo sanno benissimo coloro
che mi hanno dato il beneplacito a parlare in pubblico di lui.
Io non ho né l’acume, ne la parola, né il talento,
né il gesto, né l’eloquio che scalda il sangue di chi l’ascolta;
io parlo come viene, e dico cose che voi stessi sapete;
vi mostro le ferite del nostro amato Cesare –
povere, povere bocche mute! Lasciando che parlino per me;
ma se io fossi Bruto, e Bruto Antonio,
qui ci sarebbe ora un Antonio
capace di infiammarvi gli animi e dare una lingua
a ciascuna ferita di Cesare, da spingere anche le pietre
di questa Roma a ribellarsi e a insorgere.

ANTHONY
Good friends, sweet friends, let me not stir you up
To such a sudden flood of mutiny.
They that have done this deed are honourable:
What private griefs they have, alas, I know not,
That made them do it: they are wise and honourable,
And will, no doubt, with reasons answer you.
I come not, friends, to steal away your hearts:
I am no orator, as Brutus is;
But, as you know me all, a plain blunt man,
That love my friend; and that they know full well
That gave me public leave to speak of him:
For I have neither wit, nor words, nor worth,
Action, nor utterance, nor the power of speech,
To stir men’s blood: I only speak right on;
I tell you that which you yourselves do know;
Show you sweet Caesar’s wounds, poor poor dumb mouths,
And bid them speak for me: but were I Brutus,
And Brutus Antony, there were an Antony
Would ruffle up your spirits and put a tongue
In every wound of Caesar that should move
The stones of Rome to rise and mutiny.

2. LIFE’S BUT A WALKING SHADOW

Macbeth

La riflessione più vertiginosa, sconsolata, inappellabile sull’esistenza umana. Quella che personalmente mi soddisfa di più. Mentre le inverosimili profezie delle streghe si stanno per avverare e la Lady soccombe ai suoi fantasmi in preda al sonnambulismo Macbeth, poco prima della fine, pronuncia queste parole con una levità assoluta e un nichilismo supremo, due secoli e mezzo prima di Nietzsche.
E il Macbeth più austero, barbaro, primitivo lo porta sullo schermo Orson Welles.

MACBETH
Domani, e domani, e ancora domani,
così, a piccoli passi, striscia giorno dopo giorno,
fino all’ultima sillaba scritta nel libro del tempo;
e tutti i nostri ieri hanno illuminato a dei pazzi
il cammino verso la polvere della morte.
Spengiti, spengiti, breve candela!
La vita è solo un’ombra che cammina,
un povero commediante che si pavoneggia e si agita
per un’ora sulla scena e poi non se ne sa più niente;
è una storia raccontata da un’idiota, piena di clamore e di furia,
che non significa nulla.

MACBETH
To-morrow, and to-morrow, and to-morrow,
Creeps in this petty pace from day to day
To the last syllable of recorded time,
And all our yesterdays have lighted fools
The way to dusty death. Out, out, brief candle!
Life’s but a walking shadow, a poor player
That struts and frets his hour upon the stage
And then is heard no more: it is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing.

3. MY KINGDOM FOR A HORSE!

Richard IIICome si può non amare Riccardo? Un genio assoluto. Del male, ma pur sempre un genio. E con le sue buone ragioni. Deforme, storpio, imperfetto, non potendo intrattenersi con i piaceri del suo tempo decide di essere malvagio e di ordire intrighi e calunnie per scatenare un odio mortale tra il re e i suoi eredi. Con astuzia diabolica manda a morte il fratello maggiore, poi uccide il principe di Galles e ne sposa la vedova, fa fuori tutti i nobili pari che si frappongono tra lui e il trono, morto il re fa uccidere il giovanissimo erede con il suo fratellino, infine incoronato ripudia la moglie e progetta di sposare la nipote di Elisabetta, non risparmiando di uccidere anche il suo più fedele alleato. Soccombe solo al suo inconscio, quando la notte prima dell’ultima battaglia tutti gli spettri delle sue vittime gli appaiono in sogno rinfacciandogli le sue scelleratezze. Solo allora vacilla e si confonde. E un memorabile Ian Mc Kellen lo interpreta nei panni di un gerarca nazista nell’Inghilterra degli anni trenta.

RICCARDO III
Datemi un altro cavallo! Fasciatemi le ferite!
Gesù, abbi pietà! Calma, Riccardo, è stato solo un sogno…
Ah, vil coscienza, come mi tormenti!…
Le luci sono azzurre: è l’ora morta della mezzanotte…
Sento un sudor gelido per tutto il corpo e tremo di paura…
Di che cosa ho paura? Di me stesso? Non c’è nessuno qui oltre me.
Perciò di chi ho paura?  Riccardo ama Riccardo, io son io.
C’è forse un assassino qui? No… Sì, sono io!
Fuggire, allora? Ma da chi? Da me stesso? Perché dovrei fuggire?
Per non fare vendetta su me stesso? Ne avrei grande ragione…
Io su me stesso? Ahimè, amo me stesso! Perché?
Forse per qualche buona azione fatta da me a me stesso…
Oh, no, ahimè, io lo odio, semmai, questo me stesso
per i crimini odiosi che ho commesso.
Sono uno scellerato… eppure no, io mento a me stesso, non lo sono…
Stolto, non parlar male di te stesso!
Stolto, non incensar troppo te stesso!
La mia coscienza in bocca ha mille lingue
e ciascuna ha una storia da narrare,
e ogni storia mi bolla da furfante. E spergiuro.
Spergiuro oltre ogni limite. Assassino; crudele oltre ogni limite.
Tutti i peccati miei, perpetrati da me oltre ogni limite
s’affollano alla sbarra e gridano: “Colpevole, colpevole!”
Mi resta solo la disperazione. Non c’è chi m’ami al mondo,
e se muoio, nessuna anima viva avrà pietà di me.
Perché, del resto, ne dovrebbe avere, se sono io stesso
a non trovare mai in fondo all’anima alcuna pietà verso me stesso?
M’è parso nel sogno come se tutte le anime di coloro che ho assassinato
fossero convenute alla mia tenda e ognuno minacciasse per domani
vendetta sulla testa di Riccardo.

RICHARD III
Give me another horse: bind up my wounds.
Have mercy, Jesu!–Soft! I did but dream.
O coward conscience, how dost thou afflict me!
The lights burn blue. It is now dead midnight.
Cold fearful drops stand on my trembling flesh.
What do I fear? myself? there’s none else by:
Richard loves Richard; that is, I am I.
Is there a murderer here? No. Yes, I am:
Then fly. What, from myself? Great reason why:
Lest I revenge. What, myself upon myself?
Alack. I love myself. Wherefore? for any good
That I myself have done unto myself?
O, no! alas, I rather hate myself
For hateful deeds committed by myself!
I am a villain: yet I lie. I am not.
Fool, of thyself speak well: fool, do not flatter.
My conscience hath a thousand several tongues,
And every tongue brings in a several tale,
And every tale condemns me for a villain.
Perjury, perjury, in the high’st degree
Murder, stem murder, in the direst degree;
All several sins, all used in each degree,
Throng to the bar, crying all, Guilty! guilty!
I shall despair. There is no creature loves me;
And if I die, no soul shall pity me:
Nay, wherefore should they, since that I myself
Find in myself no pity to myself?
Methought the souls of all that I had murder’d
Came to my tent; and every one did threat
To-morrow’s vengeance on the head of Richard.

Il nuovo cinema shakesperiano

4. I’LL DROWN MY BOOK

The tempestVorrei qui ricordare l’opera del Bardo che in assoluto amo di più, perché è ambientata su un’isola, è originata da una tempesta e un naufragio consente di risolvere tutti i nodi del dramma. E poi perché ci sono spiriti, mostri, incantesimi, magie cui Prospero solo alla fine rinuncia, quando ha ristabilito la giustizia e riconquistato ciò che gli era stato usurpato. Quello che segue è il suo lirico addio alle arti magiche di cui si era servito per sopravvivere all’insulto dell’esilio.
Ed è una regista donna, Julie Taymor, a dirigere per il cinema “La tempesta” più visionaria, ed è sempre un’attrice donna, Helen Mirren, a interpretare un’originalissima Prospera.

PROSPERO
Elfi delle colline, dei ruscelli,
dei tersi e placidi laghi, dei boschi;
e voi che lungo le sabbiose rive
su cui non lascia orma il vostro piede
vi divertite ad inseguire il flutto
che si ritrae, e quando rifluisce
a scansarlo, fuggendo via da esso;
voi, gnomi, che al chiarore della luna
tracciate verdi cerchi d’erba amara,
che i greggi si rifiutan di brucare;
e voi, cui solo piace divertirsi
a far spuntare i funghi a mezza notte,
e che gioite quando dalle torri
udite batter l’ora della sera,
io fino ad oggi con il vostro aiuto
(per deboli artigiani che voi siate),
ho potuto abbuiare il gran meriggio,
stanar dagli antri i riottosi venti,
e scatenarli ovunque, in mare e in terra,
destar di colpo strepitosa guerra
tra il verde mare e il ceruleo cielo,
accendere del fragoroso tuono
le paurose fulminee saette,
e con esse spaccar di Giove stesso
la salda quercia, scrollar dalla base
il monte che nel mare si protende,
strappar dalle radici il cedro e il pino.
Le tombe hanno svegliato, al mio comando,
i lor dormienti, aperti i lor coperchi,
e li han lasciati uscire,
sì potente si dimostrò finora
la mia magica arte.
Ma ora all’esercizio di tale arte
io faccio abiura, null’altro chiedendo,
come ultimo servizio, che produrmi
qualche istante di musica celeste
perch’io possa raggiungere il mio scopo
d’agire sovra i sensi di coloro
cui questo aereo incanto è destinato;
poi spezzerò questa mia verga magica,
e la seppellirò ben sottoterra
e in mare scaglierò tutti i miei libri,
che vadano a sommergersi più in fondo
di quanto mai sia sceso uno scandaglio.

PROSPERO
Ye elves of hills, brooks, standing lakes and groves,
And ye that on the sands with printless foot
Do chase the ebbing Neptune and do fly him
When he comes back; you demi-puppets that
By moonshine do the green sour ringlets make,
Whereof the ewe not bites, and you whose pastime
Is to make midnight mushrooms, that rejoice
To hear the solemn curfew; by whose aid,
Weak masters though ye be, I have bedimm’d
The noontide sun, call’d forth the mutinous winds,
And ‘twixt the green sea and the azured vault
Set roaring war: to the dread rattling thunder
Have I given fire and rifted Jove’s stout oak
With his own bolt; the strong-based promontory
Have I made shake and by the spurs pluck’d up
The pine and cedar: graves at my command
Have waked their sleepers, oped, and let ‘em forth
By my so potent art. But this rough magic
I here abjure, and, when I have required
Some heavenly music, which even now I do,
To work mine end upon their senses that
This airy charm is for, I’ll break my staff,
Bury it certain fathoms in the earth,
And deeper than did ever plummet sound
I’ll drown my book.

5. I AM THE SEA… I THE EARTH

Titus AndronicusQuesta la storia: Tito, generale romano, sacrifica Alarbo, primogenito di Tamora regina dei Goti. Questa fa violentare e mutilare Lavinia, figlia di Tito, dagli altri suoi due figli. Aaron, il suo amante, rapisce i figli di Tito e chiede in cambio una mano del generale. Avutala la restituisce con le teste mozzate dei due ragazzi. Tito a sua volta rapisce i figli di Tamora, li sgozza come vitelli, ne fa un impasto e lo offre a un banchetto alla stessa madre. Poi uccide la figlia Lavinia, per non farla sopravvivere al suo orribile scempio, e accoltella Tamora dopo averle rivelato la natura del suo pasto. L’imperatore Saturnino, sposo di questa, a sua volta lo trafigge e poi soccombe per mano di Lucio, primogenito di Tito.
Questo popo’ di tragedia Shakespeare l’ha scritta a soli venticinque anni. Roba che alla sua età al massimo io scrivevo poesiole amorose e raccontini bizzarri… Quello che segue è lo struggente lamento di Tito di fronte alle teste mozzate dei figli e al corpo violato di Lavinia.
Ed è sempre Julie Taymor a portare sullo schermo un potentissimo Titus, ambientato all’Eur in una versione moderna con uno spietato Anthony Hopkins.

TITO ANDRONICO
Se ci fosse ragione a tanti orrori,
potrei allora contener l’angoscia
ed il lamento. Quando piange il cielo,
non straripa la terra?
Quando infuriano i venti,
non impazzisce il mare,
fino a insultare la volta del cielo
con la faccia rigonfia? E tu, fratello,
vorresti che ci fosse una ragione
a un tale pandemonio di passioni?
Io sono il mare: ascolta
come soffiano forti i suoi sospiri.
Ella è del cielo la piangente volta,
io la terra; il mio mare
deve perciò sconvolgersi per forza
con il vento dei suoi sospiri: ed io,
farmi diluvio, inondato e sommerso
delle incessanti lacrime di lei.
Le mie viscere non riescon più
a contenere questo suo dolore,
e perciò son costretto a vomitarlo
come ubriaco. Fammelo sfogare.
A chi è sconfitto dev’esser concesso
di sgravarsi lo stomaco
rigettando l’amaro dalla bocca.

TITUS ANDRONICUS
If there were reason for these miseries,
Then into limits could I bind my woes:
When heaven doth weep, doth not the earth o’erflow?
If the winds rage, doth not the sea wax mad,
Threatening the welkin with his big-swoln face?
And wilt thou have a reason for this coil?
I am the sea; hark, how her sighs do blow!
She is the weeping welkin, I the earth:
Then must my sea be moved with her sighs;
Then must my earth with her continual tears
Become a deluge, overflow’d and drown’d;
For why my bowels cannot hide her woes,
But like a drunkard must I vomit them.
Then give me leave, for losers will have leave
To ease their stomachs with their bitter tongues.

Il primo Titus sullo schermo

6. ALAS, POOR YORICK!

HamletDiamo a Cesare quel che è di Cesare e a Amleto quel che è di Amleto. E mettiamo una volta per tutte nelle sue mani il teschio di Yorick non quando pronuncia il monologo dell’essere o non essere (semmai ha uno stiletto con cui vagheggia di uccidersi), ma quando pronuncia presso la fossa di Ofelia, ancora ignaro a chi sia destinata, un altro stupendo monologo sulla caducità della vita e la vacuità dell’apparenza.
E Kenneth Branagh, nella sua versione integrale di quattr’ore, realizza un bellissimo flashback su Amleto bambino che gioca a cavalcioni del suo amato buffone.

AMLETO
Ahimè, povero Yorick!…
Quest’uomo io l’ho conosciuto, Orazio,
un giovanotto d’arguzia infinita
e d’una fantasia impareggiabile.
Mi portò molte volte a cavalluccio…
E ora come lo aborre la mia immaginazione!
Lo stomaco mi si rovescia…
Ecco, vedi, da qui pendevano le labbra
che gli ho baciato non so quante volte…
E dove sono adesso i tuoi sberleffi,
le burle, le capriole, le canzoni,
i folgoranti sprazzi d’allegria
cui faceva eco l’intera tavolata?…
Chi si fa più beffa ora del tuo sogghigno,
con questa tua smorfia? È umiliante.
Va, va’ ora così, nella camera della mia dama
e dille che ha un bel mettersi sul viso
un dito di belletto: a questo aspetto
deve ridursi anch’ella, fatalmente.
Che se la prenda a ridere,
dunque, se ci riesce…

HAMLET
Alas, poor Yorick! I knew him, Horatio:
a fellow of infinite jest, of most excellent fancy:
he hath borne me on his back a thousand times;
and now, how abhorred in my imagination it is!
my gorge rims at it. Here hung those lips
that I have kissed I know not how oft.
Where be your gibes now? Your gambols?
your songs? your flashes of merriment,
that were wont to set the table on a roar?
Not one now, to mock your own grinning?
Quite chap-fallen? Now get you to my lady’s chamber,
and tell her, let her paint an inch thick,
to this favour she must come;
make her laugh at that.

7. I AM NOT WHAT I AM

OTHELLO, Laurence Fishburne, Kenneth Branagh, 1995Iago è forse il villain shakesperiano più malvagio. Non è un pluriomicida come Macbeth o Riccardo III, ma è più cattivo. Non è ossessionato dalla brama di potere, ma da passioni molto più comuni come l’invidia e la gelosia. Non è ambizioso, piuttosto si direbbe oggi con un termine attuale che è un “rosicone”. È invidioso di Cassio, perché è stato eletto luogotenente al posto suo. È geloso di Otello, perché crede gli abbia sedotto la moglie. È un meschino, un mediocre, non ha alcuna velleità, ma la sua grandezza è nel piano di vendetta. Perfetto, assoluto, impeccabile. Va avanti come un treno, senza tradire mai alcuna fragilità (come accade agli altri cattivi), e non sbaglia un colpo, centrando appieno il suo obiettivo e facendosi credere ciò che non è. Ma quello che lo rende incommensurabile è che sopravvive alla tragedia, l’unico personaggio tragico ad assistere allo sfacelo provocato dalla sua malvagità e a subire una pena diversa dalla propria morte.
Oliver Parker dà la parte di Otello a un vero negro (Lawrence Fishburne) e quella di Iago a un superbo Kenneth Branagh, la cui interpretazione mefistofelica vale la pellicola.

IAGO
Che Cassio sia di lei innamorato, ne son convinto.
Ch’ella lo ricambi, è consonante, assai verosimile.
Il Moro, pur s’io non so sopportarlo,
è di natura nobile, costante, affettuosa,
e so già che per Desdemona
si scoprirà un carissimo marito.
Ma debbo confessare che anch’io l’amo,
e non per pura e semplice lussuria,
benché mi debba riconoscer reo d’un non minor peccato,
ma a ciò spinto in parte per saziar la mia vendetta;
perché sospetto che l’ingordo Moro
sia montato a inforcare la mia sella:
un pensiero che mi corrode dentro come un veleno,
e a placare il quale altro non so che dargli il contraccambio
a pareggiar con lui moglie per moglie;
o, se ciò non dovesse riuscirmi, iniettargli nell’animo
una dose talmente virulenta di gelosia,
che la ragione sua non basti più a curare.
E a tal fine se questo straccio d’uomo
che mi porto al guinzaglio da Venezia per frenarlo
nell’affannosa caccia, mi regge la battuta,
questo Cassio l’avrò completamente in mio potere
e lo diffamerò davanti al Moro
nel modo più garbato e suadente
(tra l’altro, ho il sospetto che anche Cassio
abbia indossato la mia papalina),
fino a ottener che il Moro, a conclusione, mi ringrazi,
mi prenda in simpatia e mi compensi
per averlo fatto un alto e rispettabile somaro,
e per avergli tolto pace e quiete fino a ridurlo pazzo.
Ecco, se pur ancora un po’ confusa, la mia trama.
Ma la ribalderia mai non discopre la sua vera faccia
avanti ch’essa sia messa ad effetto.

IAGO
That Cassio loves her, I do well believe it;
That she loves him, ‘tis apt and of great credit:
The Moor, howbeit that I endure him not,
Is of a constant, loving, noble nature,
And I dare think he’ll prove to Desdemona
A most dear husband. Now, I do love her too;
Not out of absolute lust, though peradventure
I stand accountant for as great a sin,
But partly led to diet my revenge,
For that I do suspect the lusty Moor
Hath leap’d into my seat; the thought whereof
Doth, like a poisonous mineral, gnaw my inwards;
And nothing can or shall content my soul
Till I am even’d with him, wife for wife,
Or failing so, yet that I put the Moor
At least into a jealousy so strong
That judgment cannot cure. Which thing to do,
If this poor trash of Venice, whom I trash
For his quick hunting, stand the putting on,
I’ll have our Michael Cassio on the hip,
Abuse him to the Moor in the rank garb–
For I fear Cassio with my night-cap too–
Make the Moor thank me, love me and reward me.
For making him egregiously an ass
And practising upon his peace and quiet
Even to madness. ‘Tis here, but yet confused:
Knavery’s plain face is never seen tin used.

Inganni e falsità: Shakespeare in fake

8. I AM FIRE AND AIR

Anthony and CleopatraSi sa, i personaggi femminili di Shakespeare non hanno la stessa statura di quelli maschili. Anche perché fanno tutti delle finacce. Desdemona viene soffocata, Ofelia impazzisce e annega, Lady Macbeth soccombe ai propri incubi, Cordelia, figlia di Lear, viene impiccata e le sue sorelle avvelenate, Tamora è accoltellata, Giulietta si trafigge. Non che gli uomini facciano migliori fini, ma almeno muoiono in battaglia, o a duello, o di mano propria. L’unica che può tenere testa a questi è Cleopatra, non foss’altro perché almeno decide lei quando farla finita. Eppure il suo strazio più grande non si leva quando si lascia mordere dai suoi aspidi, ma quando piange Antonio che le spira tra le braccia dopo essersi trafitto a morte.
E tutta la sua raggelante maestosità non può che specchiarsi negli occhi viola di Liz Taylor.

CLEOPATRA
Non più regina… una comune donna
guidata dai meschini sentimenti
della ragazza che munge la vacca
e attende alle più umili mansioni.
Mi verrebbe la voglia di scagliare
contro gli dèi maligni questo mio scettro,
e gridar loro alto che questo nostro mondo
poteva stare alla pari del loro,
prima che ne rapissero il gioiello.
Adesso tutto è nient’altro che nulla.
La pazienza è da sciocchi,
la rivolta ti fa cane rabbioso.
E allora chi può dire che è sacrilegio
Irrompere nell’oscura dimora della morte,
prima che sia la morte a visitarci?
Che dite, donne mie?… Su, su, coraggio!
Su, Carmiana, mia nobile fanciulla!
Ah, donne, donne, guardate: ecco,
la nostra lampada s’è spenta, non c’è più!
Fatevi cuore, creature mie,
andiamo a seppellirlo;
poi compiremo, all’uso dei Romani,
tutto quello che è nobile e degno,
per indurre la morte
a essere orgogliosa di ghermirci.
Su, la spoglia di questo grande spirito
è ormai irrigidita. Ah, donne, donne!
Venite. Non ci restano altri amici
che la nostra decisa volontà
di finirla nel modo più sollecito.

CLEOPATRA
No more, but e’en a woman, and commanded
By such poor passion as the maid that milks
And does the meanest chares. It were for me
To throw my sceptre at the injurious gods;
To tell them that this world did equal theirs
Till they had stol’n our jewel. All’s but naught;
Patience is scottish, and impatience does
Become a dog that’s mad: then is it sin
To rush into the secret house of death,
Ere death dare come to us? How do you, women?
What, what! good cheer! Why, how now, Charmian!
My noble girls! Ah, women, women, look,
Our lamp is spent, it’s out! Good sirs, take heart:
We’ll bury him; and then, what’s brave,
what’s noble,
Let’s do it after the high Roman fashion,
And make death proud to take us. Come, away:
This case of that huge spirit now is cold:
Ah, women, women! come; we have no friend
But resolution, and the briefest end.

9. I AM A FOOL, THOU ART NOTHING

King LearDi pazzi in Shakespeare ce ne sono tanti. C’è chi impazzisce sul serio come Lear e Ofelia, chi si finge pazzo come Amleto e Edgar, chi lo fa per mestiere come i buffoni Feste e Touchstone. Ma il più grande di tutti rimane il Fool di re Lear. Non è solo la voce della verità e della coscienza che mette il re di fronte a tutta la sua insensatezza, ma è anche un profeta che predice il destino attraverso apparenti controsensi. Infatti prima di eclissarsi per lasciar spazio a Lear impazzito e a Edgar finto pazzo il Fool profetizza che quando un mondo corrotto e degenere si rovescerà in un mondo giusto e sensato tutto cadrà in grande confusione, dove però regnerà l’assoluta normalità, tanto che saranno i piedi a servire a camminare.
E un magnifico Ian McKellen dà vita sullo schermo a un re Lear così contrastato e paradossale da “tener testa” al suo Matto.

FOOL
Quando i preti faranno più parole che fatti;
quando i birrai guasteranno la birra con l’acqua;
quando i nobili insegneranno ai sarti,
e non gli eretici prenderanno fuoco,
ma i galanti che seguon le ragazze;
quando ogni sentenza della legge sarà giusta,
non vi saranno scudieri indebitati
né cavalieri poveri;
quando sulle lingue non spunteranno calunnie
né tra le folle s’infileranno i tagliaborse;
quando gli usurai conteranno l’oro all’aperto,
e ruffiane e puttane erigeranno chiese;
allora il regno d’Albione
cadrà in grande confusione;
allora verrà quel tempo,
chi vivrà per vederlo,
che i piedi serviranno a camminare.
Questa profezia farà il mago Merlino,
perché io vivo prima del suo tempo.

FOOL
When priests are more in word than matter,
When brewers mar their malt with water;
When nobles are their tailors’ tutors;
No heretics burn’d, but wenches’ suitors;
When every case in law is right;
No squire in debt, nor no poor knight;
When slanders do not live in tongues;
Nor cutpurses come not to throngs;
When usurers tell their gold i’ the field;
And bawds and whores do churches build;
Then shall the realm of Albion
Come to great confusion:
Then comes the time, who lives to see’t
That going shall be us’d with feet.
This prophecy Merlin shall make;
for I live before his time.

Storia, identità, linguaggio del Fool

10. I AM AN HONEST PUCK

Midsummer night's dreamOrmai giunti fin qui per la verità non mi resta che chieder perdono a Shylock, a Fastaff, a Enrico V, ma soprattutto a tanti personaggi delle commedie, come la bisbetica Caterina, la bella Rosalinda, l’astuta Viola, per non dire di Don Pedro e Don Giovanni, cui avrei voluto dedicare altrettanti pezzi e rimandi cinematografici. Ma il Bardo ha pensato bene di morire oggi e dopo tante tragedie voglio salutarlo con allegria, ricordando la sua commedia più onirica e fantastica. Quel “Sogno” in cui la regina delle fate si innamora di un somaro, gli spasimanti di una bella ragazza perdono entrambi la testa per la sua amica bruttina, e un gruppo di artigiani mette in scena una tragedia facendola diventare una farsa. Lascio dunque a Puck, folletto del re delle fate, chiudere il mio omaggio, quasi fosse stato tutto un sogno…
E stavolta scelgo la versione cinematografica di Michael Hoffman perché tutta ambientata in Italia, tra Caprarola, Bomarzo, Montepulciano e Boboli, luoghi magici come il Sogno del Bardo.

PUCK
Se noi ombre vi siamo dispiaciuti,
immaginate come se veduti
ci aveste in sogno, e come una visione
di fantasia la nostra apparizione.
Se vana e insulsa è stata la vicenda,
gentile pubblico, faremo ammenda;
con la vostra benevola clemenza,
rimedieremo alla nostra insipienza.
E, parola di Puck, spirito onesto,
se per fortuna a noi càpiti questo,
che possiamo sfuggir, indegnamente,
alla lingua forcuta del serpente,
ammenda vi farem senza ritardo
o tacciatemi pure da bugiardo.
A tutti buonanotte dico intanto,
finito è lo spettacolo e l’incanto.
Signori, addio, batteteci le mani,
e Robin v’assicura che domani
migliorerà della sua parte il canto.

PUCK
If we shadows have offended,
Think but this, and all is mended,
That you have but slumber’d here
While these visions did appear.
And this weak and idle theme,
No more yielding but a dream,
Gentles, do not reprehend:
if you pardon, we will mend:
And, as I am an honest Puck,
If we have unearned luck
Now to ‘scape the serpent’s tongue,
We will make amends ere long;
Else the Puck a liar call;
So, good night unto you all.
Give me your hands, if we be friends,
And Robin shall restore amends.




O l’Elba o morte. Non solo mare.

O l’Elba o morte. Perché l’isola non sia solo natura ma anche cultura e possa valorizzare tutte le sue ricchezze, anche quelle meno immaginabili. Non solo Cavoli e la Biodola ma anche il Volterraio e Forte Falcone. Non solo rocce a picco e acqua cristallina, ma anche festival, corsi e avvenimenti.

1“O Roma o morte”, diceva Garibaldi in occasione della partenza dei garibaldini dalla Sicilia per risalire la penisola fino a raggiungere Roma e liberarla dal potere temporale della Chiesa, solo due anni dopo la spedizione dei Mille. Perché all’epoca combattere per la libertà di un popolo e per l’unità del Paese era una questione di vita o di morte.
Così quando penso all’isola delle mie origini, cui sono legata da un sentimento ancestrale, mi viene da dire “O l’Elba o morte”, tanta è la mia dipendenza fisica e la mia affezione morale che mi rende quel luogo inalienabile. La mia stessa identità appartiene all’isola, non saprei immaginarmi senza di lei, al punto che non vivendoci vi ho lasciato la parte più profonda di me, l’anima. Cosicché le appartengo come può appartenere un corpo a un’anima. E questo non vuol dire viverci, vuol dire amarla aldilà del proprio vissuto.
3Ma anche l’isola ha un’anima, assolutamente irriducibile. E quell’anima non è rappresentata solo dalla sua intrinseca bellezza. Perché l’Elba non è solo natura. Non è solo gli splendidi paesaggi. Non è solo la mirabile sinfonia tra mare, cielo, spiagge, monti, boschi, paesi. Non è solo l’arte di certi affreschi o l’archeologia di certi ruderi. L’Elba è anche una dimensione esistenziale, fatta di pensiero, sensibilità, passione, umanità e soprattutto cultura. Non solo perché vi hanno vissuto e operato tanti artisti e tanti autori, ma perché vanta tradizioni di festival musicali, eventi teatrali, rassegne cinematografiche, incontri culturali, premi letterari da far invidia a tante metropoli che non soffrono l’isolamento del mare.
Tutti fenomeni che nutrono il tessuto umano e sociale dell’isola e ne alimentano anche il turismo e l’economia. Per questo la cultura dovrebbe essere tanto preziosa all’Elba quanto lo è la sua natura, proprio nell’ottica di caratterizzarne l’identità attraverso l’interazione tra i diversi comuni e non il loro antagonismo competitivo. Una cultura che possa valorizzare l’intero territorio e non sprofondare in ottusi particolarismi o in sterili polemiche. E naturalmente una cultura non fatta solo di eventi ma anche di formazione, condivisione, scambio, apertura.
5Credo nel mio piccolo di aver apportato un contributo allo sviluppo culturale dell’isola conducendo l’anno scorso dei corsi di scrittura creativa a Portoferraio rivolti sia agli isolani che ai villeggianti, così come quest’anno terrò altri incontri sempre sulla scrittura presso le scuole di Marciana Marina in modo da coinvolgere direttamente la popolazione studentesca. Ed è un vero piacere per me portare la mia esperienza qualificata in contesti diversi da quello metropolitano, proprio perché ho potuto constatare che esiste un grande interesse da parte della popolazione isolana nel mettersi in gioco e confrontarsi con altre realtà.
Per questo a mia volta sogno un’Elba in cui rifugiarmi non solo per perdermi nel suo mare, per trovare ristoro al corpo e per ricongiungermi con l’anima. Sogno anche un’isola in cui non veda l’ora di arrivare per partecipare a iniziative, assistere a spettacoli, collaborare a progetti. Sogno un’isola per la quale varrebbe la pena di morire non solo per rivedere il suo mare, che comunque già mi appartiene, ma per conoscere cose che altrove non potrei trovare. Questo è il mio sogno “risorgimentale”, dove un’isola possa prendermi non solo il cuore ma anche la mente.




Sei passeggiate nei romanzi di Umberto Eco

Il nome della rosa, Il pendolo di Foucault, L’isola del giorno prima, Baudolino, Il cimitero di Praga. Viaggio labirintico attraverso i romanzi di Umberto Eco, eccetto La misteriosa fiamma della Regina Luana e Numero zero che non mi hanno ispirato particolari riflessioni. Il silenzio, il complotto, il falso, l’inganno, il mistero. Tutte i grimaldelli per schiudere gli universi narrativi di Eco, con un’intervista finale sul romanzo storico.

 

1) IL NOME DELLA ROSA

da Silenzio della fede e silenzio della conoscenza: “Il nome della rosa” e “Il pendolo di Foucault” «Philosophema», n. 11-12, 1991.

(…)
Il nome della rosaIl silenzio, dunque, come più alta forma di conoscenza e come ultimo riscatto. Ma il silenzio anche come inevitabile alternativa all’inesistenza di un sapere sensato.
Non sappiamo quanto Eco abbia voluto dare senso al “suo” silenzio, di quanta importanza abbia voluto investirlo; possiamo solo immaginare una molteplicità di sensi che il silenzio, con la sua eloquenza, esprime: tanto più se si tratta del silenzio della conoscenza, del sapere umano, della possibilità stessa di capire e di spiegare l’ordine del mondo.
Un silenzio quindi potente, più potente dello stesso commento il quale definendosi si limita, un silenzio immenso che sottintende tutto e non dichiara nulla.
Per Eco, tuttavia, il vero silenzio che tace per non dire è quello della Fede, il silenzio che nasconde la realtà per alimentare la paura è quello del timor di Dio: si deve distruggere tutto ciò che crea distacco come il riso, poiché esso uccide la paura e senza la paura non c’è Fede.
Questo è ciò che aveva capito Jorge da Burgos, il vegliardo cieco de Il nome della rosa, che attraverso il suo eccessivo amor di Dio aveva incarnato l’Anticristo e nel difendere la sua verità contro l’altrui menzogna aveva fatto morire tutti i suoi fratelli e lui stesso insieme ad essi.
Anche qui, come ne Il pendolo di Foucault, esiste un sapere profondo e misterioso che si cela nella labirintica biblioteca di una sperduta abbazia dell’alta Italia, un sapere non da scoprire ma da nascondere, per il cui possesso muoiono sette uomini in sette giorni secondo una catena di delitti scandita dal suono delle sette trombe dell’Apocalisse.
(…)
Abbazia dell'Alta ItaliaÈ dunque nel secondo libro della Poetica di Aristotele che si annida l’eresia paventata ed esorcizzata da Jorge; è proprio nel punto in cui si elogia il riso come forma d’arte e di sapienza che si autorizza a deridere la paura della morte e a dissacrare ogni valore della Fede.
Il riso capovolge l’alto con il basso, esalta lo stolto e dileggia il saggio, trova la sua massima espressione nella Festa dei Folli in cui viene rappresentato un mondo alla rovescia, scardinato nei suoi valori cristiani e ricostruito su valori profani, sacrileghi e demistificanti.
Se poi è la massima autorità filosofica che nobilita questa forma oscena e insana di espressione e la innalza a valore di purificazione, allora deve essere distrutta ogni traccia che possa documentare tale eresia legittimando il distacco di Dio, l’infedeltà e la miscredenza.
Per questo Jorge, nel suo misticismo esaltato e perverso decide di sottrarre il prezioso manoscritto a tutte le possibili traduzioni e interpretazioni che i monaci dell’abbazia attraverso la loro ponderata sapienza potevano operare e tramandare; per questo egli avvelena le pagine del libro in modo che chiunque cerchi di sapere la verità racchiusa nel testo trovi la sua morte secondo il disegno della volontà di Dio.
(…)
E paradossalmente ridendo Jorge muore. Ma non gli basta fare di se stesso la tomba del sapere di Aristotele ma fa anche della biblioteca la tomba di tutta la scienza ivi racchiusa, scatenando un incendio a catena che devasta tutte le sale e gli scaffali dell’immenso edificio, trasformandolo in un inferno apocalittico in cui tutta la preziosa cultura, conservata e tramandata per secoli dai monaci dotti, si estingue definitivamente senza lasciare più traccia.
A causa dell’eccessivo timor di Dio e dell’insana fede nella Verità, l’inestimabile patrimonio bibliografico viene quindi ridotto in cenere e tutta l’abazia, compresi la chiesa, il chiostro, l’ospedale e i dormitori, vengono distrutti e convertiti in un cumulo di salme e di rovine.
Così finisce il mistero dei molteplici delitti consumatisi all’interno della cinta abaziale, sullo sfondo della disputa ideologico-religiosa tra domenicani e francescani; così si conclude la storia di una verità sempre bramata e mai posseduta, per il rispetto della quale sono state distrutte centinaia di opere somme e ridotti per sempre al silenzio i loro autori.
(…)

 

2) IL PENDOLO DI FOUCAULT

da Silenzio della fede e silenzio della conoscenza: “Il nome della rosa” e “Il pendolo di Foucault” «Philosophema», n. 11-12, 1991.

.(…)

Il pendolo di FoucaultSullo sfondo di un intersecarsi di scienze occulte, società segrete e complotti cosmici, tre redattori editoriali di Milano, attraverso la frequentazione di autori piuttosto sospetti e la pubblicazione di opere alquanto insolite, si imbattono involontariamente in un testo che sembra indicare una Mappa da seguire per la rivelazione di un mistero profondo, di un segreto nascosto, che racchiude la verità ultima del mondo.
La ricostruzione del Piano da attuare per il raggiungimento di tale conoscenza avviene attraverso l’interpretazione stessa della Storia, scandita da appuntamenti presso alcuni luoghi deputati in diversi paesi europei, che i vari ordini religioso-militari di natura mistica ed esoterica hanno rispettato nei secoli per scambiarsi i loro frammenti di testimonianze, finalizzati a un disegno universale di riforma del mondo.
Si cerca dunque una verità, la Verità, il senso ultimo dell’esistenza. Si vuole rincorrere un mistero che per secoli ha ammantato il sapere umano. Si tenta di violare un segreto che nasconde in sé l’essenza stessa della conoscenza. Si aspira insomma con tutte le forze diaboliche, sotterranee, magiche e occulte ad appropriarsi di una scienza che significa potere, elargisce dominio e investe di controllo tutti coloro che, possedendola, la esercitano.
È un Piano immenso, potente e fascinoso di appropriazione e dominazione che impaurisce e seduce allo stesso tempo, dal quale non è facile fuggire o salvarsi, soprattutto quando per curiosità indiscreta o per ingenua sprovvedutezza ci si è precipitati dentro, dando forse troppa fede alla sua veridicità.
Ed è ciò che succede ai tre protagonisti, tutti sedotti dal fascino del mistero e dalla passione per l’enigma, e tutti destinati a trovare in diversi modi la loro fine per aver inventato un Piano che non esisteva e per aver fatto credere ad altri che ci fosse una Mappa da conoscere per possedere il mondo. E invece era tutto un non senso. Un’invenzione ridicola. Una follia che portava alla morte. Una verità inesistente. Il non-essere totale.
(…)
Il pendolo nel PantheonL’unica cosa da capire in tutta la Storia è che non c’era nulla da capire. L’unica certezza da raggiungere era che il Piano era inventato e la Mappa non esisteva. L’unico modo di salvarsi dalla morte era quello di stare al gioco dei diabolici e far finta di sapere quello che Essi volevano sapere. La Verità. Ma non c’era nessuna verità. Se non quella che essa non era mai esistita.
Ormai è troppo tardi però. Nessuno può credere che il messaggio di Provins, contenente il senso di tutto il Piano, abbia lo stesso valore di una lista della lavandaia. Nessuno può convincersi che non esista un sapere da possedere, una scienza da trasmettere e un mistero da perpetuare. La Storia deve pure avere un senso e la conoscenza una sua finalità.
Eppure sembra che tutto ciò non si realizzi in nessuna formula del sapere umano e in nessun ordine della realtà esistente, ma finisca invece nel vuoto, nel nulla, nel non senso, dove il commento non ha più ragion d’essere e lascia spazio al silenzio. E nel silenzio finisce la vera conoscenza. Quando ormai si sa già tutto e non ha più senso spiegare, confessare, trasmettere.
(…)
Ed è questo l’unico modo per essere davvero potenti, quello di non esprimersi per far credere che esista sempre qualcosa da cercare di incognito e di arcano, che tenga impegnati ancora per altri secoli frotte di diabolici attorno a messaggi indecifrabili, a segreti insondabili, a misteri impenetrabili.
(…)

 

3) L’ISOLA DEL GIORNO PRIMA

da “L’isola del giorno prima”: la ricerca dell’impossibile Lettera aperta a Umberto Eco, «Philosophema», n. 15-16, 1994.

Caro Professore,

L'isola del giorno primase è vero che nel Seicento si scriveva in modo aggraziato ma senza rilevanti contenuti, poiché si trattava di gente senz’anima – con tutto quello che si dava da fare per comprendere l’incognito significato dell’intero Universo – è pur vero che in questo secolo si trova chi scrive con grande ingegno, giocando con tanti registri narrativi, per arrivare infine a decretare l’impossibilità stessa della “fine” di un romanzo, o per essere più precisi di un metaromanzo.
È indubbio che ogni Suo romanzo si sviluppi essenzialmente seguendo un raffinato processo di interpretazione. Alla base di ogni testo, per quanto narrativo, esiste sempre un’attenta ricerca di decodificazione attraverso la quale prende forma la storia romanzata.
Ma se ne Il nome della rosa era Baskerville a interpretare i simboli dell’Apocalisse, se ne Il pendolo di Foucault era Casaubon a interpretare i messaggi di Abulafia, ne L’isola del giorno prima è l’Autore stesso che interpreta le lettere d’amore prima e i capitoli del romanzo poi, del suo protagonista.
L’Autore dunque si fa artefice della storia che narra e allo stesso tempo diventa il Lettore di quelle stesse carte da cui attinge la materia del suo romanzo. É una sorta di Io epico che “interviene” nella storia come autore, come spettatore e spesso anche come critico.
Ma ciò che risulta particolarmente ingegnoso e allo stesso tempo ingannevole in tale processo è il fatto che questo itinerario esegetico non porta mai, come ci si potrebbe aspettare, a una scoperta risolutiva – dell’enigma, del sapere, della natura – ma al contrario conduce sempre verso l’impossibilità di conoscere o più sottilmente verso quella di essere.
Per questo ritengo che il tratto più fascinoso e – mi permetta – anche il più perverso di ogni Suo romanzo è quello di condurre abilmente il lettore lungo le trame di una storia la cui fine riposa sempre su un Inganno.
(…)
Le isole Fiji sull'AntimeridianoQuesta volta, però, l’inganno contenuto nell’assenza di una fine del romanzo (o meglio del romanzo che narra di un uomo che scrive un romanzo) credo si spieghi nel fatto che si sia voluto infrangere una convenzione.
Come giustamente Lei osserva, nel romanzo “si fa finta di raccontar cose vere, ma non si deve dire sul serio che si fa finta”. Roberto (o Eco per lui?), decidendo di dare senso alla sua vita entrando nel suo romanzo, vìola la convenzione narrativa dell’affabulazione. Con l’innestare la realtà nella fantasia egli scardina il processo di finzione e appropriandosene l’annulla. Sfuma dunque ogni forma di metanarrazione – il protagonista del romanzo dell’Autore sparisce nelle pieghe del suo stesso romanzo – e, come è prevedibile, non resta alcuna traccia della sua fine.
Così il romanzo finisce col non dire, o meglio col dichiarare che non è possibile concludere laddove non c’è altro da commentare, e questo – mi perdoni ma ognuno ha i suoi pallini – non è altro che l’espressione estrema del Silenzio.
Dopo il silenzio di Jorge che tace per non tradire la Parola di Dio, dopo il silenzio di Casaubon che tace per non avvilire la Dignità dell’Uomo, dopo ancora il silenzio di Roberto che tace (suo malgrado) perché non riesce ad assegnare nomi appropriati alle cose che vede, ecco infine il silenzio dell’Autore che tace perché ha concluso la sua riflessione esegetica intorno alle carte del naufrago e, dal momento in cui Roberto svanisce inghiottito dalla sua stessa fantasia, ritiene che non ci sia più altro da aggiungere.
(…)
E così come lettrice mi compiaccio (paradossalmente!) proprio di questo finale. Anche a me, come all’Autore, piace salutare Roberto per l’ultima volta pensandolo affidato al destino delle acque, che nuota coraggioso contro un’infausta corrente – lui che non tollerava nemmeno di bagnarsi – che osserva la Colomba Color Arancio involarsi verso il Sole – lui che non sopportava le più pallide luci del giorno – conservando nel cuore la passione per la donna amata e nella mente il pensiero del Punto Fisso, con l’ostinato intento di conquistarli entrambi.
Anche se – ma questo lo sappiamo solo io e Lei che viviamo in questo secolo – egli non riuscirà mai a raggiungere, per quanto si inganni, né l’una, né l’altro.

 

4) BAUDOLINO

da L’immaginario di “Baudolino” , «La Scrittura», n. 14-15, 2002.

(…)
BaudolinoTutta la narrativa di Eco riposa – e non poteva essere altrimenti – sul meccanismo dell’interpretazione. Interpreta Baskerville i segni delle sette trombe dell’Apocalisse per comprendere la sequenza degli omicidi; interpreta Casaubon i file del computer Abulafia per individuare i disegni del Piano; interpreta persino l’Autore gli scritti del naufrago per ricostruire la mentalità (e la visionarietà) del Seicento; interpreta, quindi, lo stesso Niceta Coniate i racconti (presunti falsi) di Baudolino, arrivando a svelarne, paradossalmente, l’intrinseca verità. É lo storico Niceta infatti, con l’aiuto del veggente Pafnuzio, che mostra a Baudolino come realmente è morto il padre Federico, a dispetto di tutte le congetture fatte intorno alle mirabolanti invenzioni del castello di Ardzrouni. Ed è proprio quello storico, che per mestiere deve dire la verità, a illuminare un bugiardo che, pur cosciente delle proprie menzogne, non si era mai accorto di vivere nell’inganno.
D’altra parte è intorno al contrappunto tra la narrazione fantastica di Baudolino e le integrazioni storiche di Niceta che si snoda tutto il romanzo, laddove le imprese favolose del protagonista si intersecano con le vicende dell’impero di Federico II, e l’incredibile missione in Oriente dei Re Magi si conclude con il colossale incendio di Costantinopoli. Ma al di là del continuo rimando tra cronaca e leggenda, in cui spesso si stenta a credere alla realtà e ci si lascia persuadere dalla fantasia, il tratto che più contraddistingue questo romanzo dai precedenti consiste nell’ingegnosa alternanza tra un registro popolare-farsesco che caratterizza le grottesche vicende della città di Alessandria (la fondazione, l’assedio, la liberazione, il cambio del nome), la “ruspante” famiglia d’origine del protagonista (mirabilmente divisa tra miseria e saggezza), lo sfortunato matrimonio di Baudolino e Colandrina (con lo struggente episodio del figlio nato morto: «bugia della natura») e, di contro, un registro filosofico-sapienziale che modula le intricate dispute dei compagni di Baudolino (prima fra tutte l’irresistibile disquisizione sull’esistenza o meno del vuoto tra il Boidi e Borone), le spiegazioni dei prodigiosi marchingegni nel castello di Ardzrouni (dove si compie il misterioso delitto di Federico), ma soprattutto il confronto tra le innumerevoli eresie delle diverse “razze” di Pndapetzim (compresa, naturalmente, l’affascinante digressione sulla natura di Dio e sul ruolo delle ipazie).
Scena medievaleUn perfetto intreccio tra stile alto e stile basso, tra sottile ironia intellettuale ed esilarante paradosso popolare, in cui si verifica quello che lo stesso Eco ha spiegato di recente (Sulla letteratura, Bompiani, 2002), laddove afferma che una delle eccezioni di Baudolino consiste nel contraddire il principio – costantemente osservato negli altri romanzi – che è la costruzione del mondo a determinare il linguaggio, dal momento che in questo caso è invece lo stile a generare personaggi, ambienti e situazioni. L’altra importante eccezione, di cui parla Eco nello stesso testo, è la sostanziale mancanza di un’idea seminale, a fronte di un insieme di idee che hanno dato vita ai momenti più salienti del romanzo. Vero, il delitto nella camera chiusa, la resa dei conti tra i cadaveri mummificati, la sapiente costruzione dei falsi sono tutti motivi legati a scene ben precise che non danno ragione della struttura complessiva dell’opera. Tuttavia, se Baudolino costituisce un’eccezione (stilistica e strutturale) rispetto ai romanzi che lo hanno preceduto, ne rappresenta al contempo la sintesi dei principali motivi, riproponendo ogni tema essenziale di quei romanzi all’interno di un contesto diverso.
(…)
Vi è, infine, un altro motivo che, per la verità, è sempre presente nei romanzi di Eco, ma solo in quest’ultimo lo si percepisce con una forza così intensa e distinta: quello dell’Eros. Tutti i protagonisti di Eco sono attraversati da brividi di grande passione, che sia quella peccaminosa della carne, quella vulnerabile del legame amoroso o quella edulcorata per una donna ideale. (…) Baudolino, dal canto suo, non vive solo un paradigma dell’amore, ma ne vive tre: quello puramente “lirico” e platonico per l’imperatrice, moglie di Federico II e donna irraggiungibile; quello assai più umile e caduco per Colandrina, che muore di parto dando alla luce un «mostriciattolo»; quello infine quasi surreale, ma al contempo stupefacente e drammatico, per quella creatura incredibile che è Ipazia.
(…)

 

5) IL CIMITERO DI PRAGA

da “Il cimitero di Praga” o del complotto perfetto, «Le reti di Dedalus», marzo 2011.

(…)
Il cimitero di PragaGrande interprete della cospirazione, oserei dire complottologo, Umberto Eco aveva già affrontato il tema della paranoia cospiratoria ne Il pendolo di Foucault, quando aveva raccontato la storia di tre redattori editoriali di Milano che, imbattendosi in un testo relativo a una Mappa indicante un percorso da seguire per la rivelazione di una verità ultima, quasi per gioco inventano un Piano che possa condurre a tale conoscenza attraverso l’interpretazione stessa dei movimenti compiuti dai Templari e dai Rosa-Croce nel corso dei secoli per conquistare il mondo. La costruzione immaginifica di un sapere ermetico, scandito dalle dieci Sefirot della Cabala ebraica, porta tuttavia i tre protagonisti a diventare vittime delle loro stesse trame, svelando la fatale infondatezza dl loro Piano e al contempo la sua irresistibile credibilità.
Ma i complotti cosmici attribuiti agli ordini religioso-militari che prendono forma nel Medioevo per propagarsi nell’arco di centenni appartengono, per così dire, all’archeologia della cospirazione. Gli intrecci sempre più avvincenti tra ordini mistici, società occulte e servizi segreti si sviluppano soprattutto nel corso del XIX secolo quando si immagina un fiorire di complotti ovunque: di ebrei contro gesuiti, di gesuiti contro massoni, di massoni contro monarchici, di monarchici contro mazziniani, in una spirale di rimandi religiosi e politici in cui la realtà storica finisce con lo sfumare sempre più per lasciar spazio a ingegnosi interventi di falsificazione e manipolazione.
Così il prodotto finale dei vari innesti di un complotto in un altro, con insospettabili contaminazioni letterarie, in cui la stessa sostanza del complotto cambia matrice ad ogni intervento e da ebraica si fa gesuitica, per poi diventare monarchica e trasformarsi di nuovo in giudaica, diventa per così dire il complotto dei complotti, se non addirittura il complotto perfetto, sintesi di invenzioni, riletture, spostamenti, attribuzioni, con una precisa destinazione finale.
(…)
Lapidi del cimitero ebraicoNon meno dei precedenti romanzi anche quest’ultimo è un saggio di virtuosismo stilistico e sapienza affabulatoria. Per esigenze di continuità narrativa Eco crea un protagonista che assume su di sé l’azione di tanti personaggi, una sorta di falsario modello, unica mente, seppur influenzata dai diversi poteri con cui si confronta, che altera, manipola, traspone i vari testi per giungere alla redazione definitiva del complotto esemplare, tanto più potente quanto più falso. Ma per rendere più articolata la sua personalità l’Autore la sdoppia, attraverso l’ingegnosa trovata di un trauma da messa nera, di modo che un falsario e un abate si trovino sotto lo stesso tetto a condividere le pagine delle stesso diario e a ricostruire oscure vicende nello spiarsi e interrogarsi a vicenda. Ma il doppio piano di narrazione tra due voci (o meglio scritture) che cercano di “interpretarsi” reciprocamente diventa triplo quando a commento e integrazione dei molteplici eventi interviene la voce del Narratore che porta avanti le fila della storia con la visione onnisciente della terza persona.
A dispetto di quanto possa sembrare, il romanzo, pur mettendo in gioco una miriade di personaggi, complessi rimandi narrativi e mutevoli visioni prospettiche, è chiarissimo. Sia perché la triplice narrazione è resa graficamente attraverso tre diversi caratteri tipografici che ne evidenziano le molteplici “mani”, sia perché secondo la migliore tradizione del feuilleton il testo è arricchito da immagini che ne illustrano alcuni passi salienti, sia perché in appendice al libro figura uno schema dei capitoli che distingue il piano dell’intreccio da quello della storia, in modo da orientare anche quei lettori che magari non si erano intrattenuti lungo le “passeggiate nei boschi narrativi” oppure all’interno delle invenzioni esemplari della “forza del falso”.
Ma questa linearità del corso degli eventi, evocati nelle pagine di un diario scritto nell’arco di poco meno di un mese (a parte gli ultimi due interventi sfalsati di un anno) e sviluppatisi lungo circa settant’anni (dal 1830 al 1898), fa senz’altro di quest’opera un suggestivo romanzo storico, scandito dall’intersecarsi delle vicende umane con gli avvenimenti salienti del XIX secolo, senza tuttavia mostrare ulteriori dimensioni narrative, con cui l’Autore aveva arricchito altri suoi romanzi.
(…)

 

6) IL ROMANZO TRA POSTMODERNO E VERITÀ STORICA

da Intervista a Umberto Eco, «Lettera Internazionale», n. 75, 2003

La differenza strutturale tra saggistica e narrativa, l’interazione tra politica e religione nel romanzo storico, le costanti tematiche dell’inganno, del falso e del complotto nella poetica di Eco, le caratteristiche della letteratura postmoderna tra stile metanarrativo e ironia intertestuale, la legittimità del doppio piano di interpretazione, l’importanza delle fonti storiche nell’invenzione narrativa.

      La torre di BabeleIn diverse occasioni Lei ha avuto modo di sostenere che la differenza tra la saggistica e la narrativa consiste nel fatto che la prima intende dimostrare una “tesi” cercando di risolvere certi problemi, mentre la seconda evidenzia le contraddizioni della vita mantenendo una forte carica di ambiguità. In rapporto alla dimensione dell’interpretazione, che svolge una funzione preponderante sia nei suoi romanzi che nei suoi saggi, come si può conciliare la dimensione della dimostrazione scientifica con quella dell’invenzione letteraria?   

In realtà, non si tratta di conciliarle. Di fatto non è un caso che alcuni filosofi facciano oggetto di indagine le opere letterarie. Possono scrivere su Proust e la memoria, ad esempio, perché si trovano semplicemente di fronte a qualcuno – il narratore, oppure il poeta – che può dire qualcosa di interessante anche per loro, secondo le modalità espresse dal testo. Se un filosofo legge Cartesio è per cercare di capire nel modo più chiaro possibile che cosa pensasse sul meccanicismo. Invece quando, per esempio, Enzo Paci leggeva filosoficamente un poeta come Eliot, lo interpretava da filosofo e vi cercava un pensiero che non appariva immediatamente in superficie e più che delle soluzioni o delle teorie vi cercava delle contraddizioni, dei problemi. Potrei dire, in termini autobiografici, che ci sono certe cose che non mi sento di sostenere o di trattare in modo chiaro e definitivo in un saggio, mentre preferisco mettere in scena narrativamente il problema. Per semplificare ancora, se la saggistica lavora verso la risposta, la narrativa lavora in direzione della domanda e dunque si possono rivelare complementari. 

    In merito ai suoi romanzi Lei si è sempre ispirato a una specifica epoca storica: il Medioevo dei Padri della Chiesa, i percorsi “mistici” dei Templari e dei Rosacroce, il Seicento delle grandi esplorazioni, ancora il Medioevo di Federico II e dei viaggi in Oriente. Centrale è sempre stata la dimensione religiosa (le dispute, le eresie, le reliquie), non meno di quella politica (la bramosia di potere, la conquista di nuovi regni). Non ha mai pensato che si potessero fare alcuni paralleli con la realtà sociale, politica e civile dei nostri giorni? 

Innanzi tutto quello che mi affascina nello scrivere un romanzo è passare, come mi è capitato sinora, minimo sei anni e massimo otto a cercare fonti e a scoprire aspetti di un mondo lontano. Se dovessi scrivere una storia d’amore che ha luogo nel presente, non avrei bisogno di fare alcuna ricerca e troverei la cosa estremamente deludente, per cui in sostanza scrivo romanzi storici perché mi diverte di più. A parte il fatto che Il pendolo di Foucault, anche se ha delle ampie panoramiche di carattere storico, si svolge nel presente, dove a mio parere vengono toccati alcuni problemi importanti del mondo politico attuale, come la sindrome del complotto e così via. 

Fatta questa precisazione, il primo fine che mi pongo quando scrivo un romanzo storico, come è stato nel caso de Il nome della rosa, de L’isola del giorno prima e di Baudolino, è di ignorare completamente il presente per cercare di capire quel mondo. Tuttavia ogni lettura storica, anche quella fatta dallo storico più rigoroso, è sempre una lettura in prospettiva. Come diceva Croce, la storia, nel senso della storiografia, è sempre contemporanea. Comunque noi guardiamo a un tempo lontano non possiamo evitare di vederlo con i nostri occhi di contemporanei. Vale a dire che ci sono certe cose che istintivamente mettiamo a fuoco, mentre ne lasciamo cadere delle altre. In questo senso, mettendomi a raccontare di un mondo lontano, magari senza accorgermene, talora invece accorgendomene persino con una certa malizia, posso mettere a fuoco delle cose che parlano direttamente ai contemporanei. Certe volte mi è accaduto di trovare il lettore che vedeva dei riferimenti al presente che io non avevo in mente, ma proprio attraverso una lettura più sensibile si poteva riscontrare un’analogia con i tempi nostri. (…)

Bestiario secentescoProprio nel suo ultimo saggio Sulla Letteratura Lei argomenta le caratteristiche della narrativa postmoderna che sono state attribuite da alcuni critici ai suoi romanzi, e che Lei stesso teorizza nelle Postille al Nome della rosa. Queste caratteristiche, come la metanarratività, il dialogismo, il double coding e l’ironia intertestuale, hanno costituito per Lei una precisa scelta di poetica, oppure sono maturate nel corso della sua esperienza narrativa?
 

Innanzi tutto vorrei dire che il termine postmoderno me lo hanno buttato addosso gli altri, benché io non abbia potuto protestare in quanto alcuni aspetti della poetica postmoderna sono realmente presenti nel mio lavoro. Tuttavia bisognerebbe fare chiarezza, per quanto possibile, sul concetto di postmoderno, se non altro per dire che c’è un postmoderno in architettura inventato da Charles Jenks, un postmoderno in letteratura teorizzato da John Barth e un postmoderno in filosofia proposto da Jean-Francois Lyotard e da altri che non ha nulla a che fare con i primi due, per una sorta di strano equivoco terminologico che non si può sciogliere in questa sede. Personalmente ho trovato nella tematica del postmoderno un modo interessante per rivisitare la letteratura precedente attraverso procedimenti citazionistico-ironici. Ma se ci pensiamo bene questo lo avevamo teorizzato nella seconda riunione del Gruppo ’63, quando due anni dopo nel ’65, si diceva che ormai il romanzo sperimentale era arrivato a un punto zero. Come in pittura si era arrivati alla tela bianca, in poesia alla pagina vuota, in musica al silenzio, così anche nella narrativa si era raggiunto un point of no return. Mi ricordo che Renato Barilli diceva di recuperare un’avventura “altra”, che non fosse quella tradizionale, ma al contrario fosse densa di nuove sperimentazioni. 

Quindi quando ho iniziato a scrivere romanzi mi sono ispirato piuttosto a quei discorsi che si facevano allora in merito a un recupero della narratività attraverso l’ironia oppure, come si suol dire, la “decostruzione” narrativa, termine che però non amo usare. Da qui il mio gusto per gli incassamenti dei punti di vista, i flashback o le strutture temporali molto complesse e soprattutto per la metanarrativita’, dove il romanzo riflette su se stesso e sulla propria forma. Se tutto questo è tipico del postmoderno allora mi ci ritrovo, come nel caso del doppio codice, secondo cui se in architettura postmoderna si possono fare citazioni del frontone del Partenone o di una cupola di Borromini e poi ci può essere l’utente che coglie questa citazione basata sul gioco e sull’ironia, e quello che non la coglie ma gode ugualmente di una struttura architettonica bizzarra, altrettanto nei miei romanzi, che sono così densi di allusioni intertestuali, ci può essere questo doppio codice. (…)