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LA PAROLA E L’IMMAGINE. LO STERMINIO AI GIORNI NOSTRI

https://www.cineclubroma.it/images/Diari_di_Cineclub/edizione/diaricineclub_140.pdf#page=15

Esiste una parola che è stata universalmente assunta per simboleggiare il massimo dell’orrore che l’umanità abbia potuto raggiungere: Auschwitz. Il nome non del primo lager nazista liberato dall’armata rossa (ne erano stati liberati altri prima di quello) ma del campo di sterminio più complesso e strutturato, nonché con il più elevato tasso di mortalità (sono stati stimati solo in quel lager circa un milione e mezzo di morti).
La stessa data della sua liberazione, 27 gennaio 1945 (seppure preceda di più di tre mesi la capitolazione della Germania nazista), è stata assunta come simbolo per designare il Giorno della Memoria, ricorrenza internazionale che commemora tutte le vittime dell’Olocausto. Data fatidica perché solo allora, quando le truppe sovietiche entrarono nel campo di Auschwitz, le immagini scattate su quello che vi restava in termini di strutture e di prigionieri sopravvissuti – Himmler con l’avanzata dell’armata rossa diede ordine di cessare le esecuzioni nelle camere a gas e di demolirle insieme ai forni crematori, ma i nazisti lo fecero solo per la sezione di Birkenau – si diffusero in tutto il mondo.
Naturalmente molte persone sapevano, oltre agli addetti ai lavori, dell’orrore che si consumava là dentro, come in tanti altri campi disseminati per l’Europa, ma la gran parte del mondo ignorava il complesso apparato industriale che aveva condotto allo sterminio di massa. Talché quelle immagini in bianco e nero di corpi scheletrici che a stento ancora sopravvivevano, di cadaveri nudi gettati a mucchi nelle fosse comuni, di cumuli di capelli, scarpe, indumenti ammassati nei capannoni, di luoghi di gasazione e incenerimento per la soluzione finale furono devastanti perché inimmaginabili. Per non dire di ciò che non era più visibile: non i “salvati” ma i “sommersi”, per dirla con Primo Levi, la cui sorte atroce restava qualcosa di inarrivabile.
Dunque “Auschwitz”, nella sua sostanziale inattingibilità divenne l’emblema di un fenomeno che non si capiva come fosse potuto accadere e che non poteva in alcun modo ripetersi. Termini come genocidio, pulizia etnica, deportazione furono per sempre associati all’Olocausto, seppure in altre parti del mondo si fossero verificate queste operazioni; ma il fatto che lo sterminio di sei milioni di ebrei si fosse compiuto nel cuore dell’evoluto occidente europeo, e non in altri paesi incolti o arretrati del terzo mondo, rappresentava un culmine unico, esclusivo, non equiparabile ad altro.
Così il dibattito odierno su quello che sta accadendo nella striscia di Gaza, ovvero se si tratti di crimini di guerra contemplati dal diritto bellico (omicidi, torture, stupri, deportazioni, armi chimiche) oppure di un vero e proprio genocidio (distruzione intenzionale di un gruppo etnico, razziale o religioso) scaturisce proprio dall’eredità dell’Olocausto. Avvenimento irrisarcibile, per il quale la formazione dello stato di Israele è stato un irrisorio indennizzo, ha reso per sempre il popolo ebraico in credito con la Storia. Sono allora diversi i fattori che costituiscono una sorta di “legittimazione” del comportamento di Israele nei confronti dei palestinesi, non solo nella striscia di Gaza controllata da Hamas, ma anche nei territori della Cisgiordania occupati dall’esercito israeliano.
Innanzi tutto un senso di colpa provato anche a livello di inconscio collettivo (non solo del popolo tedesco ma dell’intera l’Europa) nei confronti degli ebrei perseguitati e sterminati durante la seconda guerra mondiale, per cui ogni forma di antagonismo o disapprovazione nei loro confronti viene subito tacciata di antisemitismo. In secondo luogo la fatalità che i palestinesi siano le vittime delle vittime, dunque “sacrificabili” per la causa di Israele, in base alla quale è giusto annientare l’organizzazione terroristica di Hamas a costo di qualsiasi prezzo: quello di uccidere indiscriminatamente la popolazione palestinese, quello di volerla deportare verso altre nazioni che le sono ostili, quello di ridurla in condizioni catastrofiche impedendo l’accesso agli aiuti umanitari. In ultimo l’alleanza di Israele con il mondo occidentale che lo difende e lo tutela anziché sanzionarlo, senza opporsi a una controffensiva smisurata e disumana che ormai ha travalicato ogni legittima reazione all’attacco terroristico del 7 ottobre 2023.
Queste le “ragioni” storiche, politiche, psicologiche per cui Israele oggi è un paese “più uguale degli altri”, per dirla alla Orwell, dato che in passato è stato un popolo meno uguale degli altri. Peccato però che accanto ai concetti, alle definizioni, ai distinguo tra crimine di guerra e genocidio, tra deportazione e pulizia etnica (termini che per altro hanno affinità lessicali tra loro) ci sono le immagini. Immagini che nella loro innegabile evidenza mostrano realtà assolutamente sovrapponibili. I corpi scheletrici dei bambini moribondi di Gaza sono identici ai corpi scheletrici dei prigionieri di Auschwitz. La condanna all’affamamento fino alla morte praticata a Gaza è similare a quella imposta agli internati nei campi di sterminio. Se mai ci fosse una differenza, come aggravante dello stato attuale delle cose, è che a Gaza c’è una grande componente di bambini – uccisi, mutilati, affamati – che nei lager non c’era (dato che morivano subito o venivano soppressi).
Esiste tuttavia un’immagine, sopra le altre, o meglio un filmato, che appare l’emblema apicale di questo orrore contemporaneo. Durante i bombardamenti a Gaza sono stati distrutti molti ospedali, con il risultato che anche gli apparecchi per tenere in vita le persone non hanno potuto più funzionare. Così i pazienti in terapia intensiva non hanno avuto scampo. Ma non lo hanno avuto nemmeno i neonati nelle incubatrici. Nel parapiglia generale avevano raccolto su un tavolo nudo i corpicini di neonati prematuri di appena uno o due chili di peso, che si contorcevano come animaletti senza il sostentamento necessario alla sopravvivenza. Quella manciata di esserini di pochi giorni, lasciati morire come bestioline insignificanti, ha dato la misura dell’abisso in cui si era precipitati. Anche se questi non avevano la voce per urlare la loro fame.
Perché è proprio la rabbia, la paura, lo smarrimento, l’incredulità dei bambini a sconfessare ogni argomentazione definitoria, contenitiva, giustificante di questa catastrofe. Così innegabile e lampante da non poterla nascondere ai loro occhi. Difficile immaginare una narrazione, anche metaforica, che possa ingannare l’infanzia per distoglierla da questo orrore.
Non c’è simulazione di gioco possibile, come ne La vita è bella di Roberto Benigni (1997), che possa impegnare i bambini di Gaza in altre attività. Non c’è ombra di innocenza credibile, come ne Il bambino col pigiama a righe di Mark Herman (2008), che possa illuderli di potersi aiutare a vicenda. In questo orrore del XXI secolo i bambini sono i consapevoli attori di qualcosa che è più grande di loro ma a cui non si possono sottrarre e noi siamo i colpevoli spettatori di un’atrocità che permea le nostre vite ma a cui non vogliamo porre fine.
Anche la definizione di una possibile soluzione si allontana dalla realtà quanto la definizione del problema. Cavillare se si tratti di un’ecatombe o di uno sterminio è equivalente a discettare su due popoli e due stati. Perché non ci potranno mai essere due stati se ce n’è uno solo – potente, protetto, militarizzato – che vuole eliminare e deportare ciò che resta di un popolo che non ha mai potuto costituirsi in stato e non avrà mai le basi per farlo. “Due popoli due stati” è uno slogan ormai andato in loop come “si tratta di crimini di guerra e non di genocidio”. Sono solo parole vuote che servono a pacificare le nostre coscienze mentre il vero loop di immagini quotidiane – atroce leitmotiv del nostro presente – ci ricorda costantemente che noi non veniamo dopo quell’orrore, ma vi siamo iscritti. Al punto che preferiamo nasconderci dietro alibi storici, piuttosto che ammettere di essere complici dei carnefici.

 

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