Ma perché la verità?
La colpa deve essere stata di tutta questa montagna di menzogne. Per forza. Altrimenti non si spiega. In un mondo infestato da narrazioni assurde, fallaci, inverosimili, di tutti contro tutti, di colpe sempre più grandi, di capri espiatori esponenziali, di notizie false e contronotizie ancora più false, di spropositi e smentite, di credenze contraffatte e di inganni all’algoritmo non ci si poteva aspettare qualcosa di diverso. D’altra parte dopo che si è creduto a tutto alla fine non si crede più a nulla. A eccezion fatta di una sola cosa: la verità, la pura, assoluta verità.
Per essere creduti, quando tutti mentono, occorre certificare che ciò che si dice sia accaduto veramente. Così la storia vera diventa un marchio di fabbrica, un attestato doveroso, la condizione imprescindibile per narrare qualsiasi cosa. Se è accaduto davvero, per quanto incredibile sia, non si può mettere in discussione.
Raccontare la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità ha legittimato però non solo di restituire storie accadute a terzi o in altri tempi da questi, ma anche di riferire storie accadute a sé stessi, ai propri congiunti, nel tempo delle proprie vite.
Così si è andato a scoperchiare quel vaso di Pandora che conteneva tutti gli orrori scaturiti dalla crisi della famiglia borghese. Madri tiranne, padri perversi, mogli agitate, mariti indolenti, figlie neglette, figli traviati, amanti confusi, bambini saccenti. In un tortuoso groviglio di dolore, morte, abbandono, perdita, lutto, malattia, disperazione. Storie di fatti reali, esperienze comuni, azioni condivise, vissuti personali. Come fossero le uniche cose al mondo meritevoli di narrazione: immediate, letterali, dirette.
Non più romanzi né racconti, dunque, ma biografie, autobiografie, memoriali, resoconti, faction, nonfiction, diari. Perlopiù canti funebri che si levano intorno alle rovine del paesaggio, alle miserie della vita, alla deriva dei rapporti, alla vertiginosa prevedibilità degli eventi più scontati. Con l’unica consolazione che alla fine la letteratura possa rivelarsi una medicina per lenire gli strazi del vivere e alimentare irrimediabilmente lo scrivere di sé, per sé, a sé.
Ma perché? Perché parlare delle proprie faccende presumendo che possano interessare agli altri? Perché credere che il personale possa essere universale? Perché narrare il concreto senza tradurlo in simbolico? Perché drammatizzare la sofferenza come unica dimensione reale? Perché esemplificare in dinamiche sentimentali complessi avvenimenti storici? Ma soprattutto perché fare il torto più grande alla letteratura ritenendola una medicina? Quale vero autore scriveva per curarsi? Quale scrittore usava la narrativa per dare sfogo ai propri accidenti e poi trovare in essa una riparazione? Piuttosto ci sono autori che si sono suicidati dopo aver scritto capolavori e giammai vi hanno trovato un conforto o una cura.
Insomma la scrittura del fatto privato (proprio o altrui) è pretenziosa, irrilevante; quella sullo sfondo di un fatto collettivo (sociale o storico) spesso è riduttiva, banalizzante; quella poi con l’obiettivo di lenire un danno (con funzione terapeutica) non è proprio letteratura. È sfogo, confessione, diario, testimonianza, pratica autoriferita, ovvero nulla di più antiletterario.
Perché la letteratura è rappresentazione del mondo, non copia; è metafora, allegoria, simbolo, non documentazione; è levità, distacco, ironia, non drammaticità; è intuizione, sintesi, digressione, non autoanalisi.
Non se ne può più di personaggi reali e private sofferenze, di fatti concreti e ordinarie vicende, di strazi banali e intime esperienze, ma sopra ogni cosa non se ne può più di donne che scrivono di madri e di figlie, di vittime e di eroine, di dolore e sacrificio, di abnegazione e martirio.
Quando vedremo autrici distaccate che scrivono di donne cattive? O autrici ironiche che scrivono di donne ingegnose? Perché i personaggi femminili non possono avere le stesse peculiarità di quelli maschili? Perché non possono essere assassine, ambiziose, argute, malvagie alla loro stessa stregua? Perché non possono essere frutto di fantasia, di varianti bizzarre o di esperimenti audaci?
Ci vorrebbero autrici che scrivessero di donne che non le rispecchiano, di donne consapevoli di un destino che non hanno subito ma che si sono scelte, oppure che gli è capitato e hanno saputo giocarselo secondo le proprie abilità, di donne lucide, ironiche, terribili (come quelle che seguono a breve), uniche responsabili dei propri misfatti.
Quando ci libereremo dalla dannazione delle menzogne, dalla disgrazia delle storie vere, dall’ossessione del privato e del personale, dalla smania dell’indennizzo e della riparazione, allora forse si potrà riscoprire l’autenticità dell’invenzione, il gusto del gioco letterario, la felicità dell’ingegno creativo, l’estro della sperimentazione, per narrare davvero qualcosa che tenga conto di chi legge assai più di chi scrive.
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