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DELL’ALTROVE E DELL’ESSERE 

Giovanni I. Giannoli


Di una trilogia, o di una trilogia di trilogie, ciò che interessa ai cacciatori di senso non è la tripartizione, la struttura, quanto piuttosto l’unità. Vorrei dunque provare a dire quale possa essere il senso – ai miei occhi – dell’opera recente di Alessandra Fagioli, Trilogie imperfette; sempre ammesso che un senso principale si dia, in questo lavoro di Alessandra, piuttosto che molti.
Ma devo mettere le mani avanti: di mestiere, io mi occupo di concetti. Mi capita di valutare argomentazioni, di costruirne alcune, di discutere tesi: lo faccio, di norma, nel dominio dell’epistemologia, della logica, della filosofia della scienza. La letteratura non è strettamente il mio campo, se non per il fatto che vivo il mio tempo e cerco di coglierne i segni, negli ambiti in cui ciò mi riesce. Di certo, non padroneggio gli attrezzi della critica letteraria, i suoi canoni (ammesso che ne esistano) e la loro evoluzione. Dunque, non parlerò di questi aspetti.
Però, l’attenzione di chi fa il mio mestiere è continuamente sollecitata, in tutto lo svolgimento di questo lavoro di Alessandra Fagioli, da una costellazione di spunti e di riferimenti che ricadono nel mio ambito specifico di ricerca. Cerco di richiamarne alcuni; anche se, come dirò più avanti, non sta esattamente in questo ordito concettuale (in un confronto – per dirla esplicitamente – col razionalismo scientifico contemporaneo) il tratto caratteristico del libro di Alessandra, a mio parere almeno.
Già nelle prime righe del prologo, in un rapido accenno alla “perfezione” del numero tre (e alla sua – ahimè – “imperfezione”), appare un contrasto interessante: infatti, il numero tre non soddisfa i criteri che i matematici attribuiscono ai “numeri perfetti” (il fatto di essere uguali alla somma dei propri divisori); e, nonostante questo, un’illustre tradizione esoterica attribuisce a quel numero un valore particolare (una “perfezione”, appunto). Qui, dunque, il prologo di Alessandra sembra suggerire che nel lavoro che segue potremmo trovare un’opposizione del genere, più volte riaffiorante, tra le presunzioni del calcolo e la potenza sfuggente dei simboli, del sentire umano e dell’agire dei sapiens.
La prima scena della prima trilogia ricorda invece – nella sua struttura – qualcosa di analogo al “dilemma del prigioniero”: un caso esemplare e molto famoso, proposto e sviluppato da geniali matematici del Novecento, nell’ambito della cosiddetta “teoria dei giochi”. Il nocciolo del “dilemma” sta nel fatto che nella situazione proposta sembra cadere il cosiddetto “assioma di razionalità” (effettuare scelte che comportino il massimo beneficio collettivo, grazie alla mutua collaborazione tra i personaggi) e prevale invece il calcolo personale, con esiti catastrofici.
Nella seconda scena, si legge invece qualcosa che ha in qualche modo a che fare con la tragedia antica: col destino ineluttabile dei processi (e con la loro irreversibilità), anche quando gli eventi sono vissuti a ritroso, con la consapevolezza del presente. E, ancora, è centrale il tema dell’acrasia, cioè dell’agire secondo gli impulsi e gli affetti, piuttosto che secondo ragione.
Dalla terza scena, che conclude la prima trilogia, avverto l’insofferenza di Alessandra per un tema tipicamente post-moderno: la confusione tra il reale e il virtuale, il dominio incontrastato delle opinioni e delle credenze (culturali, politiche, religiose), che sono destinate a generare la morte.
Nella quarta scena (che apre la seconda trilogia), Alessandra assegna un carattere addirittura “diabolico” al pensare geometrico dei grandi architetti americani dell’Otto e del Novecento. Un viaggiatore in scena a questo punto rivela tutto il suo sgomento, di fronte alla maglia regolarissima delle avenue e delle street, nella metropoli americana, o all’elevazione sfacciata degli edifici che “grattano” il cielo, arditi e svettanti. In questa New York (curiosamente svuotata dalla sua vera essenza, cioè dall’incessante andare della gente) rivive il declino di Babele: di una “terra smarrita, piena di paradossi e contrasti […], labile come una chimera”.
Di contro, nella scena successiva, c’è una sorta di elogio del caos, presentato come qualcosa di ragionevole e di familiare; questo, per Alessandra, è ciò che emerge dal labirinto e dalla confusione incessante di una metropoli carica di storia e di confini, come Istanbul. I “paradossi strutturali” e “l’infallibile principio random” che governano quella città sono segni di vita, per Alessandra, e costituiscono un falsificatore evidente del secondo principio della termodinamica; della “morte termica” – più esattamente – che la fisica classica ha cercato di assegnare a tutti sistemi troppo complessi.
Il contrasto tra il peso della storia e l’aspirazione alla libertà (anzi, meglio: tra la tradizione e la creatività) prende invece le forme di un duetto tra Mosca e Leningrado (pardon: Pietroburgo), nella scena successiva. Non che l’autrice si lasci sedurre dalle lusinghe del “nuovo” e da quelle che hanno accompagnato la retorica storia del nostro Occidente: ma, di certo, non sembrano commuoverla affatto le occhiate nostalgiche, rivolte a un passato ormai smarrito (e tragico, pieno di lutti).
La terza trilogia inizia con una Lectio Magistralis grottesca, che è in definitiva una satira della filosofia “analitica” contemporanea, applicata a uno squallido dramma nostrano: il bunga bunga di Arcore. Anche in questo caso, l’esasperazione dell’analisi logica sembra del tutto incapace a cogliere i sensi più evidenti della realtà concreta.
Segue poi una “confutazione della gravitazione” (e delle leggi della genetica), che percorre l’ottava scena. Qui, c’è qualcosa che riguarda la circolarità attiva dell’autocoscienza, la retroazione della produzione mentale (dell’attività cognitiva) sulla mente stessa (sulla cognizione), esposta da Alessandra come una vera e propria rivolta dei suoi personaggi, alla loro stessa autrice.
Infine, nell’ultima scena (una “ballata pop”) c’è una denuncia della cultura corrente e dei nostri italici costumi, a proposito della crisi che morde ormai da molti anni l’Occidente.
Nell’Epilogo – dedicato al carattere “sublime” del proferimento scatologico – l’autrice (suo malgrado?) propone un tema veramente cruciale, che ogni epistemologo si trova ad affrontare, sempre: su quali dati inconfutabili si basano le nostre conoscenze?
Sul punto, che mi riguarda professionalmente, spendo qualche parola in più. Pierre Jacques Étienne, visconte di Cambronne (al quale viene attribuita l’espressione “merde!”, pronunciata come reazione a una richiesta di arrendersi) fu sconfitto con Napoleone a Waterloo. Nonostante la sconfitta, e il suo passato bonapartista, poco tempo dopo fu nominato visconte da Luigi XVIII e sposò Mary Osburn, una lady inglese molto famosa per la sua tempra morale. Dopo la morte di Pierre Jacques, lady Mary permise al Comune di Nantes di esporre un orologio del marito, che lei stessa dichiarò di avergli regalato il giorno in cui il visconte, sotto giuramento, aveva ammesso di non avere mai pronunciato quella parola, così cara ai teatranti. Dunque, il carattere “sublime” dell’espressione “merde!” potrebbe basarsi su una leggenda, su un fatto letterario, più che su un evento documentato e certo.
Però, come ho detto all’inizio, piuttosto che discutere di realtà e di finzione, di sensazioni e di calcolo, di verità e di leggenda, ragionando sul libro di Alessandra voglio dire qui altro.
Nella seconda di copertina, il libro rivendica la “declinazione dell’attualità” e la militanza, nella forma dell’“impegno civile”. Una lettura possibile potrebbe partire allora dalla seguente domanda: di quale contemporaneità ci parla questa raccolta di trilogie? E qual è mai il punto di vista, dal quale l’autrice racconta?
Se dovessi esprimere con una formula breve il carattere del libro, direi che si tratta di un’opera dialettica, il cui tema ricorrente è proprio la contraddizione. Una contraddizione, però, che non trova alcuna sintesi. Oppure, meglio: la sintesi (la pacificazione) è data soltanto dalla fuga. È una “sintesi” (se di sintesi si può mai parlare, quando si è di fronte a un esodo) che non si realizza mai nella fabula; ma – se mai c’è – avviene accanto e al di fuori di essa, in un dominio più rarefatto, di tipo estetico, edonistico, patico; e si tratta – in fin dei conti –di una fuga dagli umani, che ha un carattere (appunto) misantropico. Questa fuga ha anche un nome: un toponimo, che – nel caso in esame, per ragioni biografiche – è “isola d’Elba”.
Attenzione, però: questo locus amœnus non è affatto un tòpos, in senso proprio (cioè un luogo comune, o un tema ricorrente). È piuttosto un’Arcadia, una terra nella quale la natura naturale e quella specie-specifica dell’autrice (il suo essere un animale sociale, cognitivamente evoluta, figlia del proprio tempo) si compongono, fantasticamente.
Questa nostalgia dell’altrove appare, in modo esplicito, in diversi passaggi del libro: nella “ballata pop”, dopo l’evocazione di papa Francesco; nelle righe finali di “fuga dall’Ucraina” (dove la dialettica irrisolta tra Mosca e Pietroburgo, tra stabilità e radicalismo, tra tradizione e rivolta, si compone in una nostalgia dell’abbraccio, caloroso e catartico); nell’incontro degli sguardi (in un centro provvisorio di accoglienza) di due profughi bimbi: l’ipercinetica Maisa e l’autistico Uzochi, entrambi a-polidi, a-topici e a-tipici. E una nostalgia del genere appare perfino in quella soluzione scartata (a prezzo della morte) che sarebbe stata possibile, se i due protagonisti della prima scena fossero stati solidali tra loro, evitando la delazione e il tradimento.
Ma questa Arcadia-utopia cui l’opera rimanda è esattamente l’opposto dell’attualità che il libro esibisce, pagina dopo pagina, implacabilmente. Le dialettiche (o meglio le opposizioni) che Alessandra mette in mostra sono costituite in prevalenza da termini entrambi negativi. Allora, se dovessi qualificare questo punto di vista sotto il profilo filosofico, direi che l’approccio dell’autrice è dichiaratamente scettico. Uno scetticismo che non si compiace di se stesso (anzi, rimane critico, dando il segno della tenuta di presupposti etici), ma che non dà vie d’uscita terrene (a parte l’Arcadia, cioè l’empireo della natura de-storicizzata e delle anime pure): i credenti soccombono; e i non credenti rimangono sospesi o sopraffatti, nella loro fragilità e finitezza.
Un punto di vista radicalmente critico, dunque, che spazza via il post-moderno: tutta la paccottiglia di tesi e ideologie secondo le quali tutto è rivedibile, tutto dipende dai punti di vista, mentre il reale-reale e il reale-inventato si sovrappongono e si confondono. No: il bene e il male, il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, il bello e il brutto rimangono ben solidi, nella trama del libro. E che la prospettiva sia, per dirla in breve, post-post-modernista (o neo-modernista) traspare anche dai riferimenti testuali e dagli autori assunti in esergo: Mann, Conrad, Pirandello, Calvino, Pamuk, Bulgakov, Marquez, insieme a Turing e Einstein.
Ma qui si torna alla letteratura. E quindi, per scarsa competenza, ora mi taccio.

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