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LA SHOAH NELLO SGUARDO DELL’INFANZIA

 

Brecht sosteneva che discorrere d’alberi era quasi un delitto quando su troppe stragi regnava il silenzio, Adorno si chiedeva se per i superstiti dello sterminio fosse ancora possibile vivere tra gli incubi atroci di sentirsi da sempre già morti, Primo Levi in un certo senso ha risposto scrivendo tra le più intense pagine sull’Olocausto e poi gettandosi definitivamente nel vuoto. Altri hanno sostenuto che ne potrebbero parlare solo quelli che l’hanno vissuto perché nessun altro sarebbe capace di immaginare una tale barbarie, altri ancora hanno ritenuto che nemmeno i “salvati” potrebbero dire alcunché perché solo i “sommersi” hanno conosciuto fino in fondo l’orrore. Dunque, non solo dopo Auschwitz non si potrebbe più scrivere una sola poesia, ma nessuno potrebbe parlarne perché gli unici che ne sarebbero in grado non possono più farlo.

Invece se ne continua a parlare, anche nei modi più rischiosi e azzardati, non solo da parte di chi non c’è mai stato, ma anche attraverso modalità inconsuete, come quella sempre più sperimentata dello sguardo dell’infanzia. Come se mettere a confronto il massimo crimine contro l’umanità con la massima espressione dell’innocenza potesse creare un tale cortocircuito da rivelare verità altrimenti inaccessibili. Ora lo ha fatto Mark Hermann con il film Il bambino con il pigiama a righe (2008), tratto dall’omonimo libro di John Boyne, in cui si racconta la storia di un bambino di otto anni – figlio di un ufficiale nazista trasferito nei pressi del campo di Auschwitz per occuparsi del programma di sterminio – che esplorando la zona intorno alla villa raggiunge il recinto di filo spinato, oltre il quale trova un bambino ebreo della sua stessa età con cui stabilisce un rapporto.

Il confronto dunque si instaura tra due coetanei portatori di una “relativa” innocenza, in grado di determinare un’alleanza fondata sulla reciproca solidarietà e comprensione (Schmul, l’ebreo, perdona Bruno di non averlo “difeso” di fronte a un soldato nazista, mentre Bruno si impegna a cercare il padre di Schmul “disperso” nel campo), che li porta a violare quella separazione tra un “dentro” e un “fuori” della Storia a loro sconosciuti. Schmul non può evidentemente uscire perché non avrebbe un mondo cui appartenere, mentre Bruno può entrare, indossando “il pigiama a righe”, per esplorare l’ignota comunità. Ma un tale paradosso non può che portare alla nemesi, dove è il figlio innocente a pagare con la vita la colpa mostruosa del padre, finendo insieme al suo piccolo amico dentro la camera a gas.

Favola nera, tragedia ineluttabile, parabola anticonsolatoria. Forse uno dei pochi film, e dei pochi libri, che spinge verso il buco nero dell’orrore senza lasciare scampo, senza un barlume di speranza, senza alcuna forma di riscatto. In un certo senso lo si potrebbe considerare la perfetta antitesi de La vita è bella (1997) di Roberto Benigni. Anche lì c’era un bambino ebreo che finiva, insieme al padre, nel campo di sterminio. Ma grazie alla forza “immaginifica” del gioco che il padre metteva in atto per preservare il figlio dall’orrore, questi riusciva a uscire “incolume” dall’Olocausto. A dispetto dei molti detrattori che hanno voluto vedere in questa operazione un atto di profonda irriverenza nei confronti del genocidio degli ebrei, la satira di Benigni non offende la memoria della Shoah, ma rappresenta piuttosto la tutela dell’innocenza, la difesa estrema dell’infanzia, possibile persino in un contesto così inarrivabile come quello di Auschwitz. Che il bambino esca ignaro dalla tragedia è il risultato di un estremo atto d’amore, non di una volontà di deridere la Storia o di sollevare dalla consapevolezza un bambino che non potrebbe mai averla.

Viceversa nel film di Mark Hermann il bambino, per altro sul fronte opposto della Storia, non solo non è tutelato, ma è esposto. Vive in una villa-caserma senza amici né giochi da cui non può che cercare vie di fuga, subisce un clima di tensione, sospetto e violenza che mette in crisi i suoi già fragili valori, cerca conferme e scopre solo ambiguità. La sua innocenza è minata, ma mai del tutto violata, anche se alla fine si ritrova dall’altra parte, vittima di un destino non suo da cui nessuno lo può salvare. Il suo coetaneo ebreo, di contro, appare fin troppo saggio, sembra un piccolo Buddha, mestamente rassegnato alla sua sorte, rifugiato in un angolo del campo (dove per altro non potrebbe mai stare sia perché la sorveglianza era costante, sia perché i bambini venivano subito eliminati in quanto improduttivi), anche se pare ignorare quello che accade intorno a sé, non è allarmato né spaventato, si isola quasi a meditare come fosse protetto da un’aura che lo preserva dalla tragedia. Ma qui la parabola non porta né a una liberazione, né a una presa di coscienza. Al contrario diventa beffarda, assurda, grottesca. Non solo l’infanzia non è riscattata, ma è condannata a dispetto della propria appartenenza. L’incredulità del padre nazista e la disperazione della madre affranta non sono catartiche, il nubifragio che si scatena sul campo durante l’esecuzione non è purificatore.

Eppure il paradigma dell’infanzia è stato adottato anche in altri film, sempre tratti da libri autobiografici, non con l’intento di salvaguardare l’innocenza oppure di sacrificarla a un male ineluttabile, ma piuttosto con quello di evidenziare un “potenziale”, proprio dell’età della crescita, che permette di sopravvivere malgrado tutto, di essere se stessi anche di fronte all’annientamento, di recuperare un’esistenza anche dopo l’orrore.

Una parabola senz’altro esemplare è quella sviluppata nel film Jona che visse nella balena (1993) di Roberto Faenza, tratto dal romanzo autobiografico di Jona Oberski Anni di infanzia. Un bambino nei lager. Vi si racconta la storia di un bambino olandese di quattro anni che, dopo l’occupazione di Amsterdam da parte dei tedeschi, viene deportato nel campo di Bergen-Belsen insieme alla sua famiglia. In una squallida baracca Jona trascorre tutti gli anni della guerra separato dai genitori, subendo freddo, fame, paure, violenze, angherie, mentre il padre soccombe stremato durante la prigionia e la madre muore semidelirante in un ospedale sovietico. Il processo di presa di coscienza del bambino è graduale, c’è di fatto una sorta di “maturazione” da quando Jona viene deportato nel campo a quando viene affidato a una coppia olandese dopo la guerra, eppure il suo sguardo infantile riesce a cogliere solo alcuni aspetti delle atrocità del lager, senza mai raggiungere una consapevolezza che possa sottrargli la propria identità. Malgrado le durissime prove che è costretto ad affrontare la sua relativa innocenza lo aiuta a non perdere se stesso e a potersi costruire una vita dopo la liberazione.

Ancora più radicale e in un certo senso provocatorio sul piano dell’interpretazione dell’Olocausto da parte dell’infanzia è il film Senza destino (2005) di Làjos Koltai, tratto anch’esso dal romanzo autobiografico di Imre Kertész Essere senza destino. Qui il protagonista non è propriamente un bambino ma un adolescente ungherese di 14 anni che viene deportato prima ad Auschwitz e poi Buchenwald, dove subisce tutte le efferatezze possibili cui i nazisti sottoponevano i prigionieri. Di fronte allo spettacolo dell’abominio il ragazzo si rende conto che “non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza” e, per quanto riconosca che a un campo di concentramento non ci si possa mai abituare, mette in atto tutte le strategie di sopravvivenza per non lasciarsi andare. Arriva al punto di estraniarsi persino dal proprio corpo (unica fonte di preoccupazione da parte dei deportati ridotti a puri enti biologici e privati della propria anima), conservando tuttavia una forza vitale che non gli fa mai perdere il contatto con la realtà. Quando poi ritrova inaspettatamente la libertà si rende conto che la cosa più difficile sarà trasmettere agli altri la propria esperienza e soprattutto far capire loro che “persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti, c’era qualcosa che assomigliava alla felicità”. Insomma Gyuri non solo riesce a recuperare una propria esistenza, ma riconosce anche che nella “naturalezza” delle cose più atroci di un campo di sterminio potevano esserci momenti di felicità.

Ma lo sguardo di un bambino o di un adolescente non è l’unico che possa offrire una lettura “originale” dell’Olocausto, lo può fare anche il racconto di un folle (figura che forse si avvicina maggiormente al candore e all’innocenza dell’infanzia) in chiave addirittura satirica, capace tuttavia di offrire molti spunti di riflessione intorno al dramma della deportazione. È il caso di Train de vie (1998) di Radu Mihaileanu, in cui è Schlomo, il matto di un villaggio ebraico dell’Europa dell’Est, a narrare la storia di una “auto-deportazione”, su un finto treno nazista diretto in realtà in Palestina, da parte degli stessi abitanti del villaggio. Nel corso del viaggio gli ebrei in fuga dovranno affrontare una serie di grottesche avventure, non solo per ingannare i controlli dei militari nazisti e per evitare i sabotaggi dei partigiani comunisti, ma anche per sedare le questioni “ideologiche” insorte a bordo del treno tra gli ebrei che interpretano i deportati, quelli convertiti al credo comunista e quelli che si fingono soldati nazisti. Unendosi infine a una carovana di zingari, anch’essi travestiti da tedeschi, il treno riesce a raggiungere l’Unione Sovietica dove alcuni si fermano, mentre altri decidono di tornare in Palestina e altri ancora di dirigersi verso l’India. Ma negli ultimi fotogrammi Schlomo conclude: “questa storia è vera… o quasi”, e con un allargamento di inquadratura lo si vede dietro il filo spinato di un campo di concentramento, facendo intendere in maniera inaspettata che quella storia surreale fosse solo un modo diverso, satirico ma non meno impegnato, di raccontare l’atroce realtà dell’Olocausto.

Lo sterminio dunque come enigma fatale, come gioco protettivo, come processo di formazione, come dimensione esistenziale, come sogno di una fuga. Tutti paradigmi in chiave drammatica, ironica, tragica o satirica per raccontare quello che si è sempre creduto indicibile, inarrivabile, inconoscibile. Modalità diverse, spesso inconsuete ma pur sempre legittime, attraverso cui non ci si stanca mai di affrontare una realtà che forse non si è mai riusciti a comprendere fino in fondo e che continua a sollevare riflessioni, interrogazioni, rivisitazioni, sempre nell’intento irriducibile di non dimenticare.

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