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LETTERA APERTA A UMBERTO ECO

L’ISOLA DEL GIORNO PRIMA: LA RICERCA DELL’IMPOSSIBILE

  

 Caro Professore,

 se è vero che nel Seicento si scriveva in modo aggraziato ma senza rilevanti contenuti, poiché si trattava di gente senz’anima con tutto quello che si dava da fare per comprendere l’incognito significato dell’intero Universo è pur vero che in questo secolo si trova chi scrive con grande ingegno, giocando con tanti registri narrativi, per arrivare infine a decretare l’impossibilità stessa della fine” di un romanzo, o per essere più precisi di un metaromanzo.

È indubbio che ogni Suo romanzo si sviluppi essenzialmente seguendo un raffinato processo di interpretazione. Alla base di ogni testo, per quanto narrativo, esiste sempre un’attenta ricerca di decodificazione attraverso la quale prende forma la storia romanzata.

Ma se ne Il nome della rosa era Baskerville a interpretare i simboli dell’Apocalisse, se ne Il pendolo di Foucault era Casaubon a interpretare i messaggi di Abulafia, ne L’isola del giorno prima è l’Autore stesso che interpreta le lettere damore prima e i capitoli del romanzo poi, del suo protagonista.

LAutore dunque si fa artefice della storia che narra e allo stesso tempo diventa il Lettore di quelle stesse carte da cui attinge la materia del suo romanzo. É una sorta di Io epico che “intervienenella storia come autore, come spettatore e spesso anche come critico.

Ma ciò che risulta particolarmente ingegnoso e allo stesso tempo ingannevole in tale processo è il fatto che questo itinerario esegetico non porta mai, come ci si potrebbe aspettare, a una scoperta risolutiva – dellenigma, del sapere, della natura ma al contrario conduce sempre verso l’impossibilità di conoscere o più sottilmente verso quella di essere.

Per questo ritengo che il tratto più fascinoso e – mi permetta – anche il più perverso di ogni Suo romanzo è quello di condurre abilmente il lettore lungo le trame di una storia la cui fine riposa sempre su un Inganno.

Ne Il nome della rosa, seguendo gli ingegnosi ragionamenti di Baskerville, ci si attende di scoprire un movente concreto che dia senso alla sequenza degli omicidi perpetrati nell’abazia. E invece questo movente di fatto non esiste, esistono soltanto alcune pagine avvelenate di un libro che alla fine brucia insieme a tanti altri, non potendo lasciare nemmeno una testimonianza sul perché era stato così ostinatamente occultato all’attenzione dei sapienti.

Ne Il pendolo di Foucault, seguendo faticosamente i misteriosi passaggi che avrebbero potuto condurre verso una tanto sospirata rivelazione della conoscenza, ci si aspetta quanto meno di apprendere il contenuto del messaggio che per secoli interi popoli si sono passati l’un l’altro. E invece alla fine risulta impossibile appropriarsi di un sapere universale, semplicemente perché il messaggio non esiste e vana è stata la sua ricerca.

Infine ne L’isola del giorno prima l’inganno non è soltanto presente nella fabula, ma è addirittura interno alla struttura.

Il lettore osserva con gli stessi occhi dell’Autore i movimenti del giovane naufrago sulla nave deserta. Assiste ai suoi pensieri, apprende la sua storia, si immedesima in quel personaggio sospeso sulla soglia dell’essere e diviso tra la memoria di un passato inglorioso e la speranza di un futuro felice. E nell’attesa che Roberto decida cosa fare della sua vita, ci si immagina comunque una fine di quella lunga sosta ai margini del Meridiano Antipodo. Ma questa fine puntualmente non c’è. Il romanzo non finisce ma viene semplicemente sospeso, lasciando a Roberto la possibilità di “naufragare” all’infinito lungo quell’incognito solco che divide il giorno prima dal giorno dopo.

Questa volta, però, l’inganno contenuto nell’assenza di una fine del romanzo (o meglio del romanzo che narra di un uomo che scrive un romanzo) credo si spieghi nel fatto che si sia voluto infrangere una convenzione.

Come giustamente Lei osserva, nel romanzo “si fa finta di raccontar cose vere, ma non si deve dire sul serio che si fa finta”. Roberto (o Eco per lui?), decidendo di dare senso alla sua vita entrando nel suo romanzo, vìola la convenzione narrativa dell’affabulazione. Con l’innestare la realtà nella fantasia egli scardina il processo di finzione e appropriandosene l’annulla. Sfuma dunque ogni forma di metanarrazione – il protagonista del romanzo dell’Autore sparisce nelle pieghe del suo stesso romanzo – e, come è prevedibile, non resta alcuna traccia della sua fine.

Così il romanzo finisce col non dire, o meglio col dichiarare che non è possibile concludere laddove non c’è altro da commentare, e questo – mi perdoni ma ognuno ha i suoi pallini non è altro che lespressione estrema del Silenzio.

Dopo il silenzio di Jorge che tace per non tradire la Parola di Dio, dopo il silenzio di Casaubon che tace per non avvilire la Dignità dell’Uomo, dopo ancora il silenzio di Roberto che tace (suo malgrado) perché non riesce ad assegnare nomi appropriati alle cose che vede, ecco infine il silenzio dell’Autore che tace perché ha concluso la sua riflessione esegetica intorno alle carte del naufrago e, dal momento in cui Roberto svanisce inghiottito dalla sua stessa fantasia, ritiene che non ci sia più altro da aggiungere.

È mia convinzione che questo sia il Suo romanzo più “silenzioso”, nel senso che il silenzio anima la solitudine di Roberto, sostanzia il suo isolamento, nutre i suoi dubbi e fomenta le sue paure di uomo del Seicento. A parte le illuminate digressioni intorno ai massimi sistemi che Roberto-Salviati intrattiene con Caspar-Simplicio durante il suo breve soggiorno in compagnia dellIntruso, il nostro naufrago cerca di eludere il silenzio, cui è condannato, dialogando con il suo alter-ego: che sia Lilia, la donna amata cui confida la sua passione di uomo infelice, o Ferrante, il fratello malvagio su cui sfoga le sue ire di uomo tradito. Roberto fugge così dal proprio silenzio facendo parlare le sue lettere e il suo romanzo, e in questo modo consegna all’Autore la Parola per raccontare la sua storia, che per altro (ma è ricercato o involontario?) finisce comunque nel silenzio.

Il naufrago, per altri versi, parla comunque abbastanza, con se stesso, con il gesuita, con la natura, con la Signora, con il fratello. Ma soprattutto pensa, o meglio crede. Ma lo fa con la mentalità di un uomo del Seicento che è ancora lacerato dalle dispute dell’epoca intorno al tanto ricercato Punto Fisso. E ciò che più affascina della sua persona – e che dà corpo a tutto il romanzo – è, se si vuole, un’ulteriore violazione che egli inconsciamente applica ad un’altra convenzione.

Roberto prende alla lettera il significato (naturalmente convenzionale) del Meridiano Antipodo. Crede che ciò che si dispone sulla carta possa esistere veramente nella realtà. E allora tutto il suo confrontarsi con l’Oriente e l’Occidente, con il giorno prima e il giorno dopo, con quella fatidica linea immaginaria lungo la quale finisce un mondo e ne inizia un altro, diventa la lotta dell’uomo solo che aspira a liberarsi da ogni limite, tende a valicare ogni confine e cerca di entrare in una dimensione spazio-temporale immobile ed eterna. È l’uomo isolato su una nave dispersa che fa fronte agli elementi primigeni della natura, insieme ai quali, alla fine, diventa una cosa sola.

Sovrastato da un cielo (l’aria) troppo grande per indovinarne le costellazioni, circondato da un mare (l’acqua) troppo insidioso per poterlo conoscere, separato da un’isola (la terra) troppo distante e remota per poterla raggiungere, Roberto fugge da una realtà intollerabile per i suoi sensi al fine di cercare un rifugio nella beatitudine della sua fantasia. Ma ciò facendo annienta se stesso come personaggio reale per diventare personaggio fittizio della sua stessa immaginazione.

A questo punto, però, mi rimane solo una perplessità: dove è andato a finire l’Autore? In quale piega della storia si è nascosto? Come un folletto salta di qua e di là per tutto il romanzo. Lo si vede una volta far capolino dal castello di poppa, un’altra volta sorridere divertito in cima al bompresso, ancora lo si scorge tra le fila degli assediati a Casale, oppure come ospite privilegiato a bordo dell’Amarilli.

Ma alla fine eccolo che si congeda, quasi scusandosi della briga che ci ha fatto prendere nel seguirlo in questo intricatissimo bosco letterario, facendo sentire la propria presenza attraverso i suoi puntuali incisi, glosse e commenti alle vicende narrate, per poi lasciare ai lettori (una volta tanto) immaginare come la storia sarebbe andata a finire.

E così come lettrice mi compiaccio (paradossalmente!) proprio di questo finale. Anche a me, come all’Autore, piace salutare Roberto per l’ultima volta pensandolo affidato al destino delle acque, che nuota coraggioso contro un’infausta corrente – lui che non tollerava nemmeno di bagnarsi – che osserva la Colomba Color Arancio involarsi verso il Sole – lui che non sopportava le più pallide luci del giorno – conservando nel cuore la passione per la donna amata e nella mente il pensiero del Punto Fisso, con l’ostinato intento di conquistarli entrambi.

Anche se – ma questo lo sappiamo solo io e Lei che viviamo in questo secolo – egli non riuscirà mai a raggiungere, per quanto si inganni, né l’una, né l’altro.

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