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DA ZELIGHARRY:

I PROCESSI DI MOLTIPLICAZIONE E DI SDOPPIAMENTO DELL’IO NEI FILM DI WOODY ALLEN

  

Oserei dire che la filmografia di Woody Allen si possa dividere in tre grandi categorie: i film che tematizzano essenzialmente le dinamiche della coppia (come Io e Annie, Manhattan, Crimini e misfatti, Mariti e mogli), quelli per così dire “intimisti” imperniati sulla riflessione e l’introspezione (come Interiors, Hannah e le sue sorelle, Settembre, L’altra donna) e quelli centrati sul cinema o il teatro che scatenano situazioni paradossali ed esilaranti (come La rosa purpurea del Cairo e Pallottole su Broadway).

Al di fuori, comunque, di questa generica e opinabile ripartizione – che per altro non tiene conto di quei film “di genere” che Allen ha girato ispirandosi al giallo, al thriller o al musical – esistono, tuttavia, alcune pellicole che si distinguono dalle altre perché sono state realizzate sulla base di un soggetto geniale e sviluppate secondo una tecnica del tutto originale. I film che a mio avviso si possono a pieno titolo annoverare tra questi “fuori classe” sono Zelig e l’ultimo Harry a pezzi.

 L’idea di creare un individuo che pur essendo Nessuno è in grado di diventare Ognuno grazie a un meccanismo patologico di adattamento imitativo, offre ad Allen l’opportunità non solo di mettere in evidenza i limiti di un’autonomia soggettiva che non è più in grado di contrastare una società ormai diventata conformista e massificata, ma anche di criticare il protagonismo dei mass media che tende a manipolare le coscienze attraverso la trasmissione di messaggi acritici e appiattiti.

Zelig, dunque, imita gli altri per la necessità di sentirsi integrato e amato, mentre gli altri imitano Zelig perché condizionati dai media che lo hanno fatto diventare un modello. Ma nel cercare di essere chiunque il protagonista in realtà diventa unico, originale e inimitabile; alla stessa stregua del regista che, continuando a ispirarsi ad altri autori, finisce sempre con l’affermare se stesso.

Il “camaleontismo” di Zelig in fondo non è altro che una forma di personalità multipla che mostra le sue diverse sembianze a seconda degli stimoli offerti dall’ambiente circostante, tanto che l’unica terapia efficace si rivela quella di riprodurre specularmente lo stesso processo imitativo, diventando dei simulatori come Zelig e demolendo a poco a poco la sua costruzione esistenziale.

Il gioco dello scambio di personalità, d’altra parte, era già stato celebrato brillantemente in altre due grandi film di Woody Allen: Il dittatore dello stato libero di Bananas e Il dormiglione. Il povero tecnico collaudatore – ritrovatosi per amore di una donna tra le file dei ribelli che dopo la caduta del potere lo sostituiscono al nuovo capo dello Stato – finisce con l’immedesimarsi in un ruolo che è l’esatta antitesi della sua personalità, pur facendo di tutto per adempierlo al meglio. Allo stesso modo lo sfortunato dormiglione – destinato a diventare l’agente segreto di un commando di rivoltosi intenzionati a far crollare il regime di una federazione futuribile – si ritrova ad assumere diverse personalità (tra cui anche quelle dell’automa e del “replicante”) per poter assolvere alla propria missione.

Sulla stessa impronta di satira politica espressa dai suoi precedenti, Zelig, dopo la sua fatale ricaduta, viene scoperto in un’adunata nazista a seguire un comizio di Hitler. Ma pur rivestendo un ruolo che non gli è proprio, lui non ne è consapevole e questa volta si ritrova per giunta dalla parte del regime. L’assunzione di un’altra personalità (e in tal caso non di una sola ma di molteplici) assume in Zelig una diversa valenza: non è più un veicolo per rendere assurdi e paradossali gli assolutismi del potere, ma diviene un paradigma per ironizzare intorno alla totale mancanza di individualità.

Tuttavia ritengo che il vero ingegno di questo film non sia tanto contenuto nell’idea, quanto nel modo in cui è stata realizzata. L’abilità di Allen è infatti consistita nel costruire un racconto fondatamente veridico intorno a una storia completamente inverosimile. Alla stessa stregua della personalità di Zelig il regista ha reso “camaleontica” anche la pellicola: fotomontaggi, cinegiornali, ritagli di stampa, registrazioni sonore e animazioni al computer rappresentano i singoli tasselli di un turbinoso mosaico in cui la fiction si intreccia col documentario e il prodotto che ne scaturisce è la “cronaca” di un’invenzione.

Attraverso uno speciale trattamento della pellicola, resa più vecchia e rovinata come se si trattasse di materiale di repertorio, Allen riesce a ricostruire un mondo e un’epoca – l’America degli anni Trenta – giocando sull’antitesi tra il vero e il falso. La costruzione semantica che egli adotta in questo film mira a dare non tanto un’illusione di realtà (come accade in genere nel cinema), quanto piuttosto un’illusione di verità. Con il risultato che il personaggio estremo, assurdo e comico di Zelig diventa un caso clinico, una moda sociale, un modello di successo e allo stesso tempo un elemento di disturbo che provoca un’infinità di disastri.

 Dopo aver girato diversi film che affrontano altri temi e si ispirano spesso a generi specifici, Woody Allen torna di nuovo alla tematica della personalità. Questa volta però non la sviluppa in termini di moltiplicazione psicotica, ma al contrario la scompone in termini di disintegrazione nevrotica. Harry è un uomo ossessivo, sessuomane, impasticcato e alcolizzato che nella sua vita non ha fatto altro che collezionare una serie di fallimenti affettivi e familiari. Grazie tuttavia a queste esperienze disastrose – alle quali si è liberamente (e più spesso deliberatamente) ispirato – egli è diventato uno scrittore brillante, intelligente, amato da un grande pubblico e apprezzato dai suoi stessi “maestri” che gli vogliono persino conferire un’onorificenza.

La personalità di Harry, dunque, non si moltiplica all’infinito per potersi immedesimare in tanti ruoli, ma si sdoppia tra due opposti (l’uomo fallito e l’artista di successo) per entrare in crisi con entrambi. Il protagonista, infatti, come uomo non riesce a trovare pace nella propria vita e allo stesso tempo come scrittore subisce un blocco di creatività.

Tale dissociazione, per altro, finisce col riflettersi sia nella dimensione empirica (dei rapporti umani) sia in quella fittizia (delle storie narrate). Accade così che Harry da una parte si ritrova a fare i conti con i suoi affetti più cari che gli rovesciano addosso una sequela di risentimenti per essere stati sfruttati e travisati nei suoi romanzi autobiografici, e dall’altra si confronta con i suoi stessi personaggi che, riconoscenti per il successo che hanno avuto, gli fanno da saggi consiglieri e lo aiutano a capire la vera natura delle persone che lo circondano.

Il tema del rapporto tra arte e vita e tra realtà e finzione era già stato affrontato da Allen in Stardust Memories, laddove il regista Sandy Bates si ritrova a fare il punto sul suo modo di fare cinema. Nel tentativo di abbandonare il genere comico per dedicarsi a quello drammatico egli si scontra con il pubblico, con i critici e con i suoi stessi affetti, senza riuscire a prendere decisioni né per la sua vita artistica, né per quella privata. L’intrecciarsi dei ricordi remoti, dei brani di film e delle esperienze di vita provoca in Sandy una vera e propria frantumazione dell’io, che lo porta a vivere situazioni molto contrastate tra loro. La stessa storia viene sviluppata su più piani narrativi (di realtà, di finzione e di memoria), che rinviano a loro volta ad ambienti, motivi e personaggi profondamente diversi.

In Harry a pezzi Allen ha voluto riprendere il tema dell’artista in crisi che per giunta non riesce a stare al mondo; ma anziché farlo riflettere di fronte ai propri dubbi, lo smonta a poco a poco, costringendolo a dividersi tra una realtà che gli riserba soltanto acrimonia e diffidenza e una finzione che gli permette, in compenso, di pareggiare i conti con la vita.

Il viaggio che intraprende per ricevere gli onori presso l’università dove ha studiato, offre lo spunto per intrecciare le quattro dimensioni contenute nel film: la realtà, la finzione, la memoria e il sogno. Tutti i rapporti che il protagonista intrattiene con le mogli, le amanti, la sorella e il figlio vengono commentati attraverso un doppio contrappunto – quello dei romanzi e quello dei ricordi – per giungere a un finale (il riconoscimento accademico) che si rivela soltanto un sogno, nel quale lo scrittore si ritrova celebrato non dai professori ma dai suoi stessi personaggi.

Ciò che tuttavia rende originale questo film ritengo sia, ancora una volta, la sua articolazione semantica. Se in Zelig venivano alternati i reportage dell’evento pubblico e le riprese della storia privata, in Harry a pezzi non solo si intersecano le sequenze di vita vissuta con quelle di vita narrata, ma i due piani arrivano addirittura ad innestarsi nelle medesime inquadrature. Tutta la storia si sviluppa attraverso il continuo passaggio dal romanzo, al ricordo, all’esperienza, che a volte produce inaspettate intrusioni della realtà nella fantasia (come quando l’autore incontra le sue “creature” attraverso le quali osserva le scene della sua vita).

Ma il tratto più divertente che collega i diversi piani della narrazione è rappresentato dai monologhi sincopati che Harry pronuncia a qualche donna oppure al suo analista. Attraverso un montaggio di sequenze interrotte e di discorsi spezzati Allen riesce a tradurre “visivamente” il processo di demolizione in atto nel protagonista, che nel suo penoso affanno di raccontare se stesso (con una reiterazione esasperante del pronome personale) alla fine non riesce a esprimere assolutamente nulla. E forse per la prima volta in questo film il regista – che ha fondato molte sue opere sulla sola forza delle proprie battute – dichiara tutti i limiti contenuti nel linguaggio.

Tanto che – sempre attraverso espedienti tecnici – arriva a visualizzare sulla pellicola lo stato d’animo da attacco di panico, mettendo fuori fuoco il protagonista e facendogli percepire fisicamente la perdita dei confini del proprio io, con una traduzione immediata del disagio interiore in effetto visivo.

Un’ultima notazione interessante da fare è, infine, di natura contenutistica. Mai prima d’ora come in questo film Woody Allen ha ridicolizzato due dei valori più importanti della sua esistenza: il trattamento psicoanalitico e la religione ebraica.

Oltre ad essere l’asse portante di tutta la sua vita la psicanalisi ha rappresentato l’elemento centrale in molti suoi film (non ultimo lo stesso Zelig), offrendo acuti spunti di comprensione del sé e di riflessione sul mondo. In Harry a pezzi, invece, il setting analitico diventa un teatro di disastri familiari, nel quale si vede l’analista mettere in scena piazzate furibonde e il paziente di turno abbandonarsi allo sconforto più totale.

Per altro verso la cultura ebraica si ritrova alla base di gran parte dell’umorismo alleniano, ne alimenta lo spirito e lo arricchisce di senso, tanto da diventare una chiave di lettura per molte sue storie. In quest’ultima, al contrario, si rappresenta una concezione paradossalmente “fondamentalista” dell’ebraismo, portata agli estremi nell’osservanza dei suoi precetti e addirittura dissacrata attraverso situazioni grottesche.

In questo modo il regista sembra aver voluto demolire, oltre alla personalità del povero Harry, anche alcuni aspetti “solidi” della propria vita, pur lasciando sempre intravedere – persino nei suoi film più “tristi” – un filo di speranza e di riproposta.

Come nel caso del nostro scrittore che, dopo il sogno della sua premiazione, supera il blocco e, grazie a una nuova intuizione, torna a scrivere di se stesso: “un uomo che non riesce a funzionare nella vita ma si ritrova a funzionare benissimo nell’arte”.

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