> Saggi > La dimensione del corpo

image_pdfimage_print

LA DIMENSIONE DEL CORPO

NELLE SCENEGGIATURE POSTUME DI PIER PAOLO PASOLINI

  

1. L’ultimo inferno: Il Porno-Teo-Kolossal

 Poco dopo il montaggio di Salò e pochi mesi prima di morire Pasolini scrive insieme a Sergio Citti una sceneggiatura per «un film sull’ideologia» che doveva rappresentare tre diversi tipi di utopia, legati a un passato paleoindustriale, a un presente neocapitalistico e a un futuro tecnocratico, inesorabilmente destinati a fallire attraverso catastrofi apocalittiche che avrebbero condotto alla fine anche dell’ultima utopia: quella della Fede. Non meno metaforica e ideologica di Salò e non meno complessa e illimitata di Petrolio, la narrazione del Porno-Teo-Kolossal (1975)[1] si sviluppa attraverso un viaggio fantastico e allucinato (che richiama in parte quello “surreale” di Totò e Ninetto in Uccellacci e uccellini e in parte quello “evangelico” di San Paolo nel progetto omonimo non realizzato), compiuto dalla coppia di Nunzio ed Epifanio (Ninetto Davoli ed Eduardo De Filippo) intenta a seguire una Cometa (l’Ideologia) che si dirige verso il luogo dove è nato il Messia. La ragione del pellegrinaggio della coppia servo-padrone (anziché di quella padre-figlio) riposa dunque su una speranza di carattere religioso (l’avvento del Salvatore) e non più su una delusione di natura politica (la fine del marxismo), tanto che il “viaggio” attraverso tre città-metafora con una destinazione finale in Oriente si trasforma nella presa di coscienza di una “realtà” che coincide con la fine di ogni utopia.

Ciò che risulta più significativo, comunque, è il fatto che per raccontare una storia di forte impianto ideologico-simbolico, in cui vengono contaminati generi diversi (la fiaba magica, il racconto picaresco, il racconto erotico, l’apologo biblico), Pasolini adotta quasi esclusivamente il linguaggio del corpo, sviluppandone tutti gli aspetti relativi alla sessualità: dal ciclo divieto-trasgressione-punizione al rapporto tra permessività e comprensione o tra intolleranza e repressione, dalla scoperta dell’erotismo omofilo o eterofilo alla correzione esemplare oppure all’esecuzione capitale, dallo scandalo per la violazione del divieto alla più efferata violenza fallocratica.

Il viaggio di Nunzio ed Epifanio verso la terra del Messia si sviluppa secondo una struttura perfettamente simmetrica e speculare, attraverso cui il regista costruisce tre realtà ispirate, ognuna, a un diverso tipo di utopia a seconda dell’ambientazione immaginaria che le caratterizza. L’antagonismo tra Sodoma/Roma e Gomorra/Milano si misura innanzi tutto su un asse storico-politico, che contrappone una Roma degli anni ’50, ancora incontaminata dagli scempi del patto industriale e basata sui principi di tolleranza e di democrazia “reali”, a una Milano della metà degli anni ’70, totalmente invasa dai “disvalori” del neocapitalismo e governata dalle più aspre forme di violenza e di terrore. L’esercizio del potere in entrambe le città si manifesta attraverso due forme contrapposte di coercizione sessuale che presuppongono, ognuna, una corrispettiva esaltazione erotica di segno opposto, da cui scaturisce una visione del sesso come elemento discriminatore tra la libertà concessa, il costume imposto e il regime punitivo. Se, infatti, a Sodoma la norma è rappresentata dalle coppie omosessuali rigorosamente divise tra uomini e donne, mentre quelle eterosessuali sono segregate nel Quartiere Borghese, dove sono tuttavia tollerate da una polizia assai cordiale e benevola (che tutt’al più consiglia ma non proibisce), a Gomorra impera un regime fallocratico che non solo permette ma addirittura impone rapporti sessuali violenti tra uomini e donne, nonché ogni genere di aggressione e vandalismo, punendo al contrario, con inaudita ferocia, qualsiasi forma di omofilia clandestina. In quest’assetto antitetico tra le due città anche le feste nazionali (impostate sempre sull’abuso del sesso) rispecchiano la natura dei loro governi: a Sodoma si celebra la Festa della Fecondazione che consiste in un grande coito annuale in cui, nell’euforia collettiva, uomini e donne si accoppiano per garantire la continuità della specie, in un clima di tolleranza “reale” nei confronti delle minoranze razziali ed eterosessuali; a Gomorra viene invece celebrata la Festa dell’Iniziazione in cui orde di giovani nudi, dopo una lunga “cattività”, vengono liberate e incitate a impossessarsi della città attraverso ogni genere di violenza (stupri, rapine, saccheggi), in un’atmosfera di odio bestiale e di cieca malvagità.

Create queste due grandi utopie – quella della mitezza e della tolleranza rappresentata da Sodoma e quella della violenza e della crudeltà incarnata da Gomorra – Pasolini inserisce in entrambe un’«anomalia del destino» che si manifesta attraverso la trasgressione della norma provocata dalla scoperta della vera passione, ovvero dall’esperienza del sesso “uguale” o “diverso” a seconda della coercizione subìta. Entrambe queste “anomalie” avvengono quando Epifanio dorme in una locanda e dunque non vede quello che accade, trasformando così l’angolazione soggettiva (attraverso la quale vengono rappresentate le feste nazionali e le punizioni esemplari) in una visione oggettiva che svela, al contrario, i momenti più intensi e significativi.[2]

A Sodoma, durante una festa da ballo in cui uomini e donne danzano rigorosamente divisi, un ragazzo e una ragazza si accorgono di essere «misteriosamente» attratti tra loro, al punto di abbandonarsi ai piaceri del «sesso diverso»: «… la cosa è molto poetica perché si tratta della scoperta dell’amore e quindi del sesso nella sua originaria purezza. Ma è anche, s’intende, molto erotica, trattandosi appunto della scoperta della carne e della sua profonda emozione».[3] Date le regole di bontà e di mitezza che governano la città, una volta scoperti i due vengono sottoposti a «un linciaggio molto bonario» e condannati a una pena «solenne ed esemplare». All’interno dello Stadio Torino, gremito da una folla in delirio, la ragazza è costretta a farsi possedere con falli di legno da «tre bellissime donne, fiorenti, felici, giunoniche», mentre il ragazzo viene sottoposto alla violenza di tre superdotati «tra i più prestanti della città, forniti del membro più grosso». A Gomorra la trasgressione si verifica in termini e con esiti molto diversi: è nel corso della proiezione di un film pornografico in una grande arena all’aperto che un operaio di mezza età e un giovane studente scoprono di provare «un sentimento di amore l’uno per l’altro», che li porta ad avvicinarsi e a toccarsi. «L’uomo lo tocca – dopo mille, atterrite incertezze sulla coscia, poi piano, piano, ormai deciso a perdersi, comincia a toccargli il membro; poi prende la mano del ragazzo e la porta sul proprio… Insomma i due scoprono a vicenda, i loro sessi “uguali”».[4] Coerentemente ai principi ispirati alla violenza e alla brutalità più inaudite, i due trasgressori, colti in flagrante, vengono insultati e linciati da una folla furibonda e poi condannati al massimo della pena: «l’esecuzione capitale». Questa viene attuata in Piazza del Duomo e differenziata per i due “colpevoli”: dopo essere stati entrambi spogliati e torturati, lo studente viene sepolto vivo davanti al Duomo, spinto a forza dentro una buca e ricoperto di blocchi di marmo; l’operaio, invece, viene legato al carrello di un elicottero e ucciso in volo, in modo che il suo sangue possa colare sulla folla sottostante che «(…) urlando e insultando, (lo) accoglie nei palmi delle mani, lo lecca, se ne sporca gli abiti, se ne lorda il viso, in una sorta di atroce scena di cannibalismo rituale».[5]

Se, dunque, a Sodoma l’infrazione del divieto viene punita secondo un sistema piuttosto blando che mette in atto uno spettacolo goliardico basato sulla legge del contrappasso, a Gomorra si scatena un macabro rito orgiastico all’insegna della violenza più barbarica che non può che rinviare alle atroci esecuzioni di Salò. Ma il vero orrore di questo inferno, che Epifanio e Nunzio vanno scoprendo nel corso del loro viaggio, appare soltanto quando la vendetta divina si scaglia contro gli eccessi perpetrati dai due regimi, distruggendo entrambe le città e, insieme a queste, le relative utopie. A dispetto dell’atmosfera di mitezza che avvolge Sodoma, dopo l’esemplare punizione dei due ragazzi eterosessuali, un gruppo di giovani teppisti tenta di violentare alcuni bellissimi ufficiali alloggiati nella casa di Lot (il quale preferisce offrire la moglie e le tre figlie alle lesbiche della città piuttosto che lasciare i suoi ospiti nelle grinfie dei pericolosi sodomiti), scatenando definitivamente la collera di Dio che scaglia i suoi fulmini punitivi addosso alla città, facendola bruciare «come in un quadro surrealista», attraverso uno spaventoso incendio che si trasforma subito in uno «spettacolo biblico e apocalittico». In proporzione alla carica di violenza e di terrore che si diffonde a Gomorra, la distruzione di questa città avviene in un modo ancora più orrendo e raccapricciante. La vendetta divina si esprime attraverso una terribile peste che contagia subito tutti, provocando «sofferenze indescrivibili» seguite da una morte atroce:

 Tutti i cittadini sono colti da sintomi spaventosi: chi vomita; chi, preso da una diarrea interminabile, defeca nelle strade, morendo sulla propria merda; chi muore sul proprio vomito, pustole orrende invadono i corpi – cadono gli occhi marci dalle occhiaie – cadono i capelli irti – tutti gli abitanti di Gomorra diventano spettri purulenti, che piano piano si decompongono e muoiono uno sull’altro, ammucchiandosi in cataste immense.[6]

 La terza città che i due pellegrini incontrano lungo il loro cammino incarna un’altra utopia, quella del socialismo, minacciata da uno stato d’assedio ad opera dell’esercito fascista. Numanzia è in realtà una Parigi “futuribile” (per quanto l’atmosfera di occupazione nazista riecheggia quella dell’ultima guerra), assediata da una polizia tecnocratica che contabilizza, smista e incolonna i passeggeri che arrivano, per destinarli ai campi di concentramento. Diversamente da Sodoma e da Gomorra caratterizzate da regimi imperniati su una specifica condotta sessuale (morbida e omofila, oppure violenta ed eterofila), Numanzia conserva ancora una libertà di espressione, che, tuttavia, sotto la pressione dell’assedio porta all’estrema risoluzione del suicidio collettivo. La proposta compiuta dal poeta, il relativo lancio sulla stampa, il dibattito in Parlamento con conseguente referendum e la decisione collettiva di darsi tutti la morte per sottrarsi alla schiavitù fascista avvengono durante un altro lungo sonno di Epifanio, che anche qui non vede e dunque rimane estraneo al momento cruciale in cui si decide il destino di un’intera città.[7] La fine del popolo di Numanzia (in cui ognuno si uccide immortalandosi nell’azione che più desidera) non è, dunque, stabilita da una vendetta divina che si sfoga attraverso un cataclisma apocalittico (l’incendio, la peste), ma è altresì decisa da una volontà umana che pianifica una sorta di suicidio “ideologico” per prevenire un ben più atroce genocidio tecnocratico messo in atto dall’avvento del regime neo-nazista.

L’arrivo dei due viaggiatori in Oriente avviene in un’atmosfera di totale desolazione, in cui a poco a poco essi perdono i bagagli, vengono derubati dei vestiti, finché, dopo aver attraversato paesaggi sempre più inquietanti e desertici, da «fine del mondo», al Re Magio, durante il suo ultimo sonno, viene sottratto il prezioso pacco che egli aveva sempre portato stretto al petto, contenente il dono per il Messia: uno splendido presepe vivente interamente d’oro. Il furto del presepe non è che il preludio al fallimento dell’ultima utopia rappresentata dalla Cometa: quella della fede. Giunti, ormai in mutande, nell’immaginaria località di Ur, i due scoprono che il Messia non c’é più, o meglio è nato ma è anche già morto, in quanto il loro viaggio è durato troppo a lungo, tanto da essere arrivati «irrimediabilmente tardi».[8]

Malgrado il senso di sconforto e di abbandono che informa l’ultima parte della sceneggiatura, il finale rimane misteriosamente sospeso e non finito, tanto che anziché chiudere il testo all’insegna di un’ipotizzabile «ideologia della morte», lascia cadere l’accento non più sull’illusione di un’altra impossibile utopia, bensì sulla presa di coscienza della realtà appena conosciuta, che, se non offre alcuna speranza, dispone quanto meno a una nuova attesa. Difatti, dalla sommità del cielo – verso cui sono ascesi Nunzio (trasformato in Angelo) e lo spirito di Epifanio (morto dallo sconforto), senza riuscire altresì a trovare alcun Paradiso – i due osservano in lontananza la terra piccola come un mappamondo, dalla quale provengono voci e rumori della vita quotidiana, seguiti da canti rivoluzionari. Nel «silenzio» e nel «vuoto» del cielo Epifanio commenta con filosofico distacco:

 (…) è stata un’illusione quella che (mi) ha guidato attraverso il mondo – ma è stata quell’illusione che, del mondo, (mi) ha fatto conoscere la realtà. (…) Eppure… come tutte le Comete, anche la Cometa che ho seguito io è stata una stronzata. Ma senza quella stronzata, Terra, non ti avrei conosciuto…[9]

 La disillusione, dunque, produce conoscenza e la perdita della speranza provoca la scoperta della “realtà”. Se è vero che finisce l’utopia, inizia però l’attesa che qualcosa possa accadere, come sentenzia Nunzio nelle ultime parole che concludono la sceneggiatura: «Nun esiste la fine. Aspettamo. Qualcosa succederà». Un nuovo corso? Una nuova “realtà”? La possibilità di un nuovo impegno? Nella sua dimensione surreale e metafisica il finale sfuma nell’ambiguità, lasciando semmai la possibilità di immaginare (anche grazie all’eco di quei «canti rivoluzionari») un futuro oltre la catastrofe.

  

2. Fallocrazia, visionarietà, sarcasmo

 Malgrado sia rimasto in forma di sceneggiatura, il testo del Porno-Teo-Kolossal risulta assai ricco di elementi riguardanti non solo la riflessione ideologica (con le relative allegorie politiche e culturali), ma soprattutto la concezione fallocratica della sessualità e il gioco della “doppia visuale” (oggettiva e soggettiva) che si collega direttamente all’ultimo film Salò o le centoventi giornate di Sodoma. Nella perfetta complementarità delle due città-utopia basate sui contrapposti regimi sessuali persiste, di fatto, un tipo di visione che evidenzia la virilità maschile a fronte della passività femminile e privilegia il rapporto gay rispetto a quello lesbico, in base a un immaginario (sia in senso omofilo che in senso eterofilo) fortemente fallocratico. La punizione “esemplare” che subiscono il ragazzo e la ragazza di Sodoma è basata, in entrambi i casi, sulla penetrazione forzata: con «falli di legno» da parte delle «lesbiche giunoniche» e con i «grossi membri» da parte dei «giovanotti superdotati». La stessa improvvisa violenza che conduce alla distruzione della città è esercitata da un gruppo di «sodomiti teppisti» ai danni di alcuni giovani ufficiali, inutilmente contrastata da Lot nell’offrire in cambio le sue figlie alle lesbiche di Sodoma. Non di meno, la violenza sessuale legalizzata a Gomorra è esclusivo appannaggio degli uomini (soprattutto dei giovani iniziati) ai danni delle donne che finiscono con l’essere vittime o, tutt’al più, complici dell’intero sistema. Allo stesso modo, la passione omosessuale che scatena lo scandalo in tutta la città nasce tra un operaio di mezza età e un giovane studente: coppia curiosamente speculare rispetto alle esperienze vissute dallo stesso Pasolini, in cui l’adulto intellettuale si rapportava ai ragazzi di borgata.

In questo dominio della virilità esercitata sia in termini di violenza (contro le donne), sia in termini di passione (solo tra uomini), vi è un unico momento in cui viene messo in risalto – in senso letterale – il sesso femminile, sebbene in un contesto estremamente osceno e violento: ovvero durante la proiezione del film pornografico nell’arena di Gomorra. Nella sceneggiatura viene specificato, infatti, che nel corso di questa «produzione volgarissima», in cui si rappresenta un coito «in ogni suo dettaglio», «c’è un’inquadratura consistente in uno zoom che pare entrare, lentamente – attraverso cosce schifosamente allargate – dentro il sesso della donna, in dettaglio: il sesso reso enorme dallo schermo-gigante.»[10] Un’immagine del sesso femminile quasi mostruosa e ripugnante, finalizzata ad eccitare il pubblico maschile della città e a spingerlo ad usare la violenza come possesso.

Anche la storia delle figlie di Lot, ispirata alla leggenda biblica, si conclude in maniera grottesca all’insegna di un tentativo di sodomia. Dopo aver fatto a turno l’amore con il padre sul treno che le sta portando via da Sodoma (stando attente a non voltarsi mai indietro), le ragazze vengono assalite, appena giunte a Gomorra, da un gruppo di giovinastri che le obbliga a voltarsi «verso Sud» per possederle da tergo, con il risultato di trasformarle subito in statue di sale, impietrite per sempre in una «positura ridicola e indecente». É chiara qui l’ironia applicata alla storia biblica: le figlie di fatto «ubriacano il padre e compiono atti lussuriosi con lui», ma nello scompartimento di un treno che rende la scena quanto mai comica; allo stesso modo, la maledizione di essere trasformate in statue di sale si avvera, ma nel momento in cui queste sono costrette a voltarsi per essere beffardamente possedute «”alla pecorina”».

Un’altra caratteristica estremamente significativa della sceneggiatura è l’impianto a “doppia visuale” attraverso cui si intrecciano le diverse azioni del racconto. Gli arrivi nelle città e le scoperte dei relativi regimi, le feste nazionali e le punizioni dei trasgressori, gli scenari apocalittici e le fughe dai flagelli sono tutte “soggettive” di Epifanio, il quale assiste (insieme a Nunzio) da testimone inerme, incredulo e spaventato a ciò che gli accade intorno, senza mai prenderne parte. Le uniche visioni “oggettive” della realtà, come è stato notato, sono quelle in cui Epifanio sprofonda in un «sonno cieco» che non gli permette di “vedere” sia gli atti clandestini con cui si trasgrediscono i divieti, sia le reazioni di scandalo e di linciaggio che si diffondono nelle città. Tuttavia c’è un momento in cui la visione soggettiva di Epifanio si sdoppia e diventa «divisa e totale» insieme, in quanto la scena – nella fattispecie la Festa dell’Iniziazione di Gomorra – viene mostrata prima attraverso le «sequenze “in diretta”» trasmesse dalla televisione e poi attraverso lo sguardo del Re Magio affacciato alla finestra, in modo da offrire una doppia soggettiva (quella della Tv e quella di Epifanio) che ricorda, come nota Roberto Chiesi, le torture e le esecuzioni di Salò mostrate attraverso le lenti del binocolo:

 La visione degli orrori finali di Salò diventava, così, indiretta e furtiva, e Pasolini, obbligando lo spettatore a spiare un voyeur mentre guarda immagini oscene e insopportabili, faceva coincidere il suo sguardo con quello del carnefice. (…) Lo stesso dispositivo visivo sarebbe presumibilmente posto in opera per Porno-Teo-Kolossal: la visione dell’orrore, dell’atroce, mutuata dallo schermo della Tv, resa talvolta precaria da ostacoli che impediscono una visione chiara e definita, diventava ancora più credibile, quindi ancora più atroce.[11]

 La televisione, quindi, assolve lo stesso ruolo di “filtro” del binocolo, selezionando le scene ed evidenziando gli orrori, con il risultato, però, di offrire sensazioni più realistiche che stranianti, grazie soprattutto alla specificità del mezzo audiovisivo che offre una prospettiva diversa (più “totale” che “personale”) rispetto al singolo sguardo umano.

Per quanto il testo del Porno-Teo-Kolossal sia estremamente ricco di scene iperrealistiche, se non addirittura visionarie (come le atroci punizioni sessuali e sanguinarie o come le spaventose distruzioni apocalittiche), l’andamento fortemente drammatico della storia è stemperato da alcuni “intermezzi” comici messi in atto dalla coppia Eduardo-Ninetto e dalla figura ricorrente del «napoletano» che “soccorre” i pellegrini in ogni città. Come accadeva per i personaggi-maschera di Totò e Ninetto, che con i loro corpi e le loro facce creavano una comicità dai risvolti spesso amari e tormentati (in particolare in Uccellacci e uccellini e nelle due ideo-fiabe), anche i personaggi complementari di Epifanio e Nunzio (l’uno mite e trasognato, l’altro brusco e scortese) danno vita a una serie di situazioni esilaranti, provocate dalle canzoni napoletane cantate da Ninetto e dalle “controscene” comiche mimate da Eduardo, nel corso dei loro spostamenti in treno da una città all’altra. A queste si aggiungono i divertenti incontri basati su intese, agnizioni, confidenze ed effusioni con il misterioso napoletano che, nelle sue molteplici vesti di suonatore ambulante a Sodoma, di venditore di armi a Gomorra, di cuoco dell’esercito fascista a Numanzia e di autista dell’Hotel Continental a Ur, offre ogni volta la sua protezione ai due viaggiatori, fuorché alla fine in cui si rivela, al contrario, il ladro del prezioso presepe destinato al Messia.

Oltre alla mimica e alla gestualità napoletane, che creano in diverse circostanze un’atmosfera di grande ilarità, esistono altri momenti tragicomici in cui si verificano scene grottesche dai risvolti macabri, come accade nel corso del festeggiamento per l’occupazione di Numanzia. Il bizzarro alterco (intorno alla marca del vino utilizzato per il brindisi) che si genera tra il Capo dell’esercito fascista e il poeta promotore del suicidio collettivo (unico a non essersi ucciso), degenera nella fucilazione immediata di quest’ultimo, il quale, dopo aver tradito i suoi concittadini, muore da eroe alzando il pugno chiuso e gridando «Viva la Rivoluzione!», per una bizzarra questione di puntiglio. D’altra parte, lo stesso andamento della sceneggiatura evidenzia non solo «una contaminazione di generi», come rileva lo stesso Chiesi, ma anche «una contaminazione stilistica totale», evolvendosi in questo modo dallo «Stile Elevato o Drammatico» della realtà di Sodoma, allo «Stile Sublime o Tragico» delle atrocità di Gomorra, allo «Stile Medio o Comico» della desolazione di Numanzia e di Ur, per dissolversi, infine, in una conclusione metafisica che lascia aperta ogni interpretazione.[12]

Non a caso, secondo una perfetta struttura circolare, il Porno-Teo-Kolossal si conclude con la stessa immagine iniziale della Terra vista «dal buio e dal silenzio delle altezze cosmiche». Se, però, in apertura, «il globo terrestre» veniva a poco a poco messo a fuoco, finché non si individuava l’Italia e poi Napoli «con i suoi vicoli, le sue piazzette, i suoi bassi» (da dove prendeva forma tutta la storia), in chiusura il «mappamondo» diventa sempre più lontano e indistinto, finché non si ode soltanto «un confuso brusio di voci», che suscita nel disincantato Epifanio sentimenti di «gratitudine» e di «commozione». Vale a dire che l’unico modo per “comprendere” (nel doppio senso di capire e di contenere) il dramma dell’uomo – ovvero il fallimento dell’utopia – è quello di osservarlo a una certa distanza, da un’ottica soggettiva ma allo stesso tempo universale, che possa abbracciare l’umano dibattersi («le voci e i rumori della vita quotidiana») attraverso un malinconico e disilluso sguardo cosmico.

  

3. La TV come rifiuto: L’histoire du soldat

 Tra i diversi progetti che Pasolini ha lasciato irrealizzati si annovera una sceneggiatura che egli scrisse insieme a Sergio Citti e a Giulio Paradisi poco tempo prima di morire, ispirata al racconto di Charles-Ferdinand Ramuz L’histoire du soldat scritto nel 1918.[13] Probabilmente affascinato dal populismo favolistico della vicenda – che narra la storia di un soldato disertore e del suo incontro con il diavolo – Pasolini vi inserisce tutti i temi appartenenti a quella «mutazione antropologica» che aveva subìto l’Italia alla fine degli anni sessanta: l’omologazione di massa, il consumismo su larga scala, la perdita dell’innocenza, la fine delle culture popolari, l’egemonia del patto industriale. In particolare, però, imposta la sceneggiatura sullo scontro frontale con la «televisione» (letteralmente demonizzata) e la sua «ideologia», fondata sulla manipolazione e il livellamento delle coscienze.

Attraverso un viaggio compiuto in senso contrario rispetto a quello di Nunzio ed Epifanio (ossia da Nord verso Sud, partendo dal Friuli per fermarsi a Roma e poi giungere a Napoli), il soldato Nino Diotallevi (la cui parte era stata pensata per Ninetto Davoli) ha la ventura di incontrare il Diavolo in persona – mefistofelica incarnazione del potere massmediologico – che lo fa diventare in breve tempo un teledivo, nuovo apostolo della fede mediatica, adorato dalle folle, coperto di ricchezze, moltiplicato in infinite immagini e privo di qualsiasi identità. L’idea di creare un dibattito televisivo intorno all’identità del diavolo, inteso come «il Male in astratto» che rappresenta «il Potere e la sua ideologia», permette a Pasolini di fare un parallelo tra il passato, in cui il diavolo era simboleggiato dall’«organizzazione ecclesiastica» che prospettava «la felicità nell’altro mondo» attraverso una consolazione di tipo «criminale», e il presente, in cui il diavolo è simboleggiato dalla «comunicazione di massa» che promette, invece, «la felicità in questo mondo» attraverso una consolazione altrettanto «criminale». In definitiva, se prima il diavolo incarnato nella Chiesa si esprimeva attraverso «un’ideologia conservatrice» di stampo feudale che produceva nel popolo miseria, fame ed ignoranza, adesso il diavolo incarnato nella televisione si manifesta attraverso «un’ideologia edonistica» basata sul capitale che provoca nelle masse benessere, consumo e ricchezza.

Aldilà di tale impostazione fortemente ideologica, in cui il Potere in quanto tale è identificato con il diavolo, ciò che colpisce in questo testo è, per un verso, la riproposizione, in termini di differenze di classe, del rapporto cibo-sesso – binomio che si è visto attraversare sia il realismo della borgata, sia la sacralità dei miti, sia l’immaginario delle favole – e, per altro verso, la connessione (questa volta inedita) tra i rifiuti del corpo e il successo di massa: ovvero l’approccio scatologico come valutazione dell’audience televisivo. In merito al primo aspetto è interessante notare il bizzarro contrasto che si viene a creare tra la famiglia “popolare” della campagna bergamasca, presso la quale Ninetto si ferma durante il viaggio, e quella, invece, “carnevalesca” del protagonista stesso, che lo accoglie fragorosamente quando giunge a Roma. Nella prima tappa, malgrado la presenza ipnotica della televisione, i contadini rimangono affascinati dalla musica suonata dal violino di Ninetto e dalla favolosa panzanella che egli prepara «con abilità borgatara». Dopo aver consumato un pasto così semplice e povero, Ninetto passa una notte d’amore con la sordomuta che aveva incontrato sul treno e dalla quale era stato condotto presso i suoi tre simpatici «fratelloni». Quando invece giunge a Roma – dopo aver incontrato il diavolo che lo introduce subito nell’arte massmediatica – egli si trova a che fare con la sua sgangherata famiglia dalle parentele quanto mai perverse e bizzarre, la quale lo festeggia con un banchetto imbandito di ogni genere di prelibatezze (pasta, polli, pesce, dolci), che si conclude con l’arrivo di «una burinella, la mignotta di Ninetto», con cui egli si apparta per fare l’amore. In questa contrapposizione elementare (tra una famiglia contadina formata da semplici vincoli parentali e una famiglia imborghesita composta da elementi quanto mai eterogenei) saltano subito all’occhio le differenze basate sul consumo sia del cibo che del sesso. Al rito culinario della panzanella assistito dagli stupefatti contadini si contrappone la pantagruelica mangiata della grottesca famiglia di Ninetto, così come all’innocente rapporto con la sordomuta consumato in una notte d’amore fa da contraltare il lubrico approccio con la «burinella», brutalmente interrotto dall’arresto del protagonista.

In un passaggio successivo della sceneggiatura viene messo addirittura in luce il grottesco rapporto tra sensualità e scurrilità, quando – durante un ricevimento in onore di Ninetto, ormai diventato un teledivo che può beneficiare dei lussi e dei vizi tipici dell’edonismo borghese (vestiti eleganti, cibi prelibati, ragazze disponibili) – l’atmosfera della festa viene turbata dal rumore e dall’olezzo di un gran peto. Ninetto ha la prontezza di spirito di improvvisare un poema sulla scoreggia, mimando il dialetto napoletano antico, con il risultato di guadagnarsi il bacio di una ragazza come premio. É chiaro che qui il sarcasmo non investe soltanto la sfera erotica (il bacio che premia il poema sul peto), ma si estende anche al clima grottesco della festa, basato sugli eccessi, sullo sfarzo e sugli sprechi del benessere borghese.

Il fulcro della storia, tuttavia, ruota intorno a un altro elemento della corporalità: non si tratta né del sesso, né del cibo, che comunque rappresentano gli aspetti più vitali della carne (l’eccitazione e il nutrimento), ma riguarda piuttosto i rifiuti organici (la «merda» e il «piscio») immediatamente provocati dalla visione di alcuni spot pubblicitari basati, guarda caso, sul tema della morte e dell’Aldilà. La sceneggiatura racconta di due spot girati da Ninetto, per i quali la gente abbandona qualsiasi attività per precipitarsi davanti al video in uno stato di ipnosi collettiva. La prima réclame è ambientata in un cimitero che, tuttavia, è pieno di vitalità: i morti sembrano vivi in quanto giocano, parlano, si baciano a seconda se sono bambini, anziani o giovani innamorati. Ninetto saltella in mezzo a loro pubblicizzando una società di assicurazioni sulla vita. Nel secondo sketch egli interpreta Sant’Analfabeta che va in giro tra la gente a fare miracoli, i quali però vengono proibiti dal priore in quanto ormai troppo superati. L’unico miracolo concesso e sempre valido è quello rappresentato dalla polizza sulla vita, chiamata Fede. Seguendo un elementare meccanismo di stimolo-risposta, appena finito ogni short pubblicitario la folla si precipita ai gabinetti pubblici per evacuare i propri escrementi, elevando considerevolmente il livello «di merda e di piscio» nelle fogne. Una squadra di delegati venuti da diversi paesi per discutere dell’immenso successo di Ninetto (diventato ormai un vero fenomeno massmediatico), si calano dai tombini per misurare il livello raggiunto dagli escrementi: «un metro, un palmo e quattro dita, 67 centimetri superiore a Canzonissima», vero record di un Auditel escrementizio che misura l’intensità del gradimento con la quantità dei rifiuti corporei.[14]

La proporzione diretta tra rifiuto organico e successo mediatico viene di nuovo messa in risalto in una situazione ancora più grottesca: nel corso di una celebrazione in cui Ninetto – diventato apostolo della verità attraverso la propria immagine moltiplicata centinaia di volte – viene insignito del titolo di cavaliere del lavoro (agghiacciante la profetica affinità con Berlusconi), egli riesce a sottrarsi alla cerimonia, rifugiandosi in un «cesso». Felice di aver ritrovato una propria intimità, preferisce liberarsi dei propri bisogni, piuttosto che farsi schiacciare ancor più dai meccanismi massificanti del successo televisivo. In questo caso, allora, l'”andare di corpo” non rappresenta più un indice di consumo che misura l’entità di ascolto di una trasmissione, bensì diventa una protesta individuale contro il processo manipolatorio e terribilmente omologante della comunicazione di massa.

Il sogno che Ninetto fa sul treno che lo porta a Napoli, in fuga dall’incubo in cui è piombato da quando ha incontrato il diavolo, è di fatto un ritorno alle origini e un recupero della propria identità. Mentre fugge dai suoi aguzzini («professori, burocrati, tecnici, fotografi») Ninetto viene fatto prigioniero del Sacro Teatro di Sua Maestà e di Dio, dove incontra la figlia del re, gravemente malata di colera. Affascinato dalla sua bellezza egli riesce a guarirla massaggiandole il corpo nudo con gli ingredienti della panzanella, che si rivela addirittura un unguento magico dalle doti miracolose. Nel tripudio generale il re concede in sposa la figlia al suo salvatore, premiando così la combinazione della passione amorosa con le virtù di un cibo prodigioso che ha permesso la guarigione della fanciulla. Nel sogno, allora, Ninetto torna a suonare il violino, cucina di nuovo la panzanella, si abbandona a un affetto sincero, recuperando così le “doti” naturali che aveva prima di essere trasformato in uno spersonalizzato teledivo. Ma la “realtà” mediatica riesce ad avere la meglio anche su quella fiabesca e il sogno finisce con alcune ruspe mandate dal diavolo che distruggono il Sacro Teatro, al posto del quale vengono costruiti pezzi di «strada sopraelevata su enormi pilastri».

La sceneggiatura de L’histoire du soldat, alla quale Paradisi e Citti non si sentirono più di lavorare dopo la morte di Pasolini, fu tradotta in testo teatrale e portata in scena da tre registi (Gigi Dall’Aglio, Giorgio Barberio Corsetti e Mario Martone) nel luglio del 1995 ad Avignone, per poi essere replicata con successo in altre città italiane ed europee. L’idea di realizzare la regia dello spettacolo a sei mani (aldilà di rispettare l’autorialità triadica che aveva la sceneggiatura) nacque dal proposito di affidare a ognuno dei tre registi una parte del testo, a seconda delle loro stesse provenienze geografiche. Gigi Dall’Aglio curò il viaggio nel Nord, ricostruendo quel Friuli delle origini pasoliniane, in cui la purezza, la vitalità e l’innocenza cominciavano ad essere soggiogate dal potere ipnotico dei mass media; Barberio Corsetti si occupò di mostrare come la Roma delle borgate si era trasformata nel regno diabolico della televisione, in cui gli spot pubblicitari richiamavano le visioni infernali di Petrolio e della Divina Mimesis; Mario Martone ricostruì una Napoli onirica e teatrale, che conservava ancora quell’autenticità incontaminata dalla cultura di massa, così come era stata concepita e rappresentata nella Trilogia della vita. In questo modo i tre registi hanno ripercorso lo stesso itinerario pasoliniano, evidenziando come il mondo biografico e artistico dell’autore si sia andato trasformando (dalle campagne alle borgate) attraverso il contagioso potere dei media, dal quale sembrava possibile salvarsi soltanto rifugiandosi nella fiaba onirica o nella finzione teatrale. Il ruolo del soldato fu naturalmente interpretato da Ninetto Davoli, per il quale era stata adattata la parte, mentre la figura del diavolo, inizialmente concepita per Vittorio Gassman, fu interpretata da un «ambiguo e forbito» Renato Carpentieri.

All’insegna della complementarità tra le arti, dunque, una sceneggiatura scritta per il cinema in merito alle trasformazioni culturali e sociali provocate dalla televisione, fu realizzata per il teatro con l’uso non solo dei mezzi della realtà “virtuale” (gli stessi televisori), ma anche con la presenza fisica dei corpi sulla scena, che tanta importanza avevano acquisito nel testo sia in termini di ideologia, che di linguaggio.

 

 


[1] La sceneggiatura del film non realizzato è stata pubblicata integralmente in «Cinecritica», n. 13, aprile-giugno 1989, pp. 35-53. Per lo sviluppo della storia si rinvia al testo, di cui qui si approfondiscono gli aspetti critici.

[2] Qui si ripropone la stessa dialettica tra vedere e non vedere che si può riscontrare nei diversi episodi dei film della Trilogia della vita. In questo caso, però, il vedere implica un’osservazione non partecipante (Epifanio rimane sempre estraneo ai fatti che accadono e, all’ultimo, vi si sottrae), mentre il non-vedere provoca una sorta di incoscienza nei confronti degli eventi più tragici e fatali.

[3] P. P. P. Pasolini e Sergio Citti, Porno-Teo-Kolossal, op. cit., p. 39.

[4] Ivi, p. 45.

[5] Ivi, p. 46.

[6] Ivi, p. 47. Aldilà dell’aspetto “morale” di queste punizioni “divine” che distruggono un’impossibile utopia della bontà (anch’essa contaminata dalla violenza) e una funesta utopia del terrore (presto degenerata in barbarie), la peste di Gomorra si rivela una delle descrizioni più orripilanti ed espressioniste composte da Pasolini, in cui i rifiuti del corpo (il vomito, la diarrea) si traducono in cause di morte, mentre altre parti del corpo (la pelle, gli occhi, i capelli) marciscono e cadono, riducendo i corpi in mostruosi «spettri». Cosicché la carne, fonte di piacere morboso e sfrenato, non viene soltanto uccisa, ma addirittura annientata.

[7] Roberto Chiesi in L’altro inferno. Annotazioni sull’ultimo film «immaginato» da Pasolini, «Carte di Cinema», n. 5, estate 2000, p. 55, ha ragione di osservare che: «La dialettica del «vedere» e «non vedere» è legata alla passiva marginalità dei due pellegrini rispetto ai quadri visionari, al grande polittico con le tre varianti dell’Apocalisse che hanno la ventura di attraversare. Il vecchio e il giovane non partecipano fisicamente ed emotivamente a nulla, né all’erotismo omosessuale di Sodoma, né a quello eterosessuale di Gomorra e arrivano troppo tardi per schierarsi ideologicamente a Numanzia e perfino per sacrificarsi, suicidandosi anch’essi, come il resto della popolazione “socialista”».

[8] La morte del Messia, oltre a un esplicito richiamo alla fine del sacro che contrassegna tutto l’ultimo Pasolini, determina anche la fine dell’illusione e della speranza (entrambe già uccise in Salò), come emblematico corollario ai fallimenti delle utopie precedenti. Come fa ancora notare Roberto Chiesi: «Le due città delle utopie antinomiche (…) poggiavano i propri capisaldi etici e legali sul sesso, la sessualità, rispettivamente omosessuale ed eterosessuale, le avrebbe informate nelle leggi, nei costumi e nei rituali. Così la catastrofe sarebbe stata, appunto la catastrofe della sessualità, la distruzione e la fine dell’eros. La catastrofe della terza città, invece, avrebbe simboleggiato la definitiva disfatta dell’ideologia socialista.» (Ivi, p. 54.)

[9] P. P. P. Pasolini e Sergio Citti, Porno-Teo-Kolossal, op. cit., p. 53.

[10] Ivi, p. 45.

[11] Roberto Chiesi, Visioni di Misteri, massacri ed ultimi rituali, in Neil Novello (a cura di), Al trionfo dell’esserci, Firenze, Manent, 1999, p. 212. Non a caso lo schermo della Tv viene inserito proprio per riprodurre quelle immagini di efferata violenza (stupri, rapine, saccheggi) che più assomigliano alle cruente scene delle torture di Salò, “viste” attraverso le lenti del binocolo.

[12] Cfr. Ivi, p. 212. Chiesi puntualizza, inoltre, che il finale della storia è composto da un «’adagio’» che si articola in tre fasi «sempre più leggere, sempre più fantomatiche, sempre più deliranti».

[13] La sceneggiatura de L’histoire du soldat di P. P. Pasolini, S. Citti e G. Paradisi è stata di recente pubblicata in Walter Siti (a cura di), Romanzi e Racconti, Milano, Mondadori, 2001, vol. 2. Enzo Golino, in Tra lucciole e Palazzo. Il mito di Pasolini dentro la realtà, Palermo, Sellerio, 1995, pp. 151-157, evidenzia gli aspetti più paradossali e onirici del testo, che ne fanno una «parabola incisiva in parte datata ma fertile di intuizioni, (un) apologo di una condizione umana minacciata da alienanti disvalori.»

[14] É alquanto significativo che Pasolini, per sferzare la sua critica caustica contro questa grottesca videocrazia, dissacri, innanzi tutto, alcuni aspetti religiosi – come la quiete cimiteriale trasformata in un’allegra fanfara, oppure i miracoli del Santo impediti perché ormai fuori moda – per poi associare i rifiuti del corpo (ovvero gli aspetti più immondi di quello che per lui ha sempre rappresentato la sua cifra più espressiva) con i consumi indotti dal potere pubblicitario. L’equazione tra consumo della merce e rifiuto organico, allora, se prima veniva espressa a livello metaforico (si veda anche Salò nei suoi significati coprofagici), ora viene addirittura dichiarata in maniera letterale.

Share This