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UTOPIA O DISTOPIA?
2222. Il mondo è frammentato in migliaia di piccole enclavi, tutte autonome e autosufficienti. Non esistono più governi nazionali, né liberi scambi tra comunità. Il coronavirus si è differenziato per gruppi tribali che a forza di isolarsi tollerano benissimo il proprio ma decedono immediatamente al primo contatto con quello altrui. L’innovazione tecnologica è scomparsa e si è regrediti a un’economia agricola basilare. È decaduta ogni forma d’inquinamento, l’ambiente è tornato perfettamente sano, non ci sono più incendi né alluvioni, ma soprattutto guerre dato che tutti morirebbero all’istante travalicando i confini. Un equilibrio perfetto, governato magistralmente dal virus, in cui i discendenti di Trump non romperebbero più perché l’America deve tornare grande di nuovo e quelli di Salvini perché in Italia deve cadere il governo.

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Comunque due cose:
1. Siamo davvero un popolo di cialtroni. Atterriti dalla paura facciamo incetta di casse d’acqua come se il virus infettasse pure gli acquedotti e poi da scellerati continuiamo a infilarci in feste affollate oppure eludiamo i blocchi per andare a sciare in montagna.
2. Alla faccia della globalizzazione ogni Paese si tiene strette le proprie risorse, non collabora con gli altri né tanto meno aiuta chi ha più bisogno. Ognuno per sé e Dio per nessuno. Così il virus ci ha reso tutti codardi e tutti egoisti alla stessa misura.

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La cosa che più ricorderò di questo periodo è il silenzio. Assoluto, totale, definitivo. Soprattutto di notte. All’alba non si sentono cantare nemmeno gli uccelli sugli alberi. Non scorderò neanche le immagini, dal vivo non viste in tv, di una città non vuota ma evacuata, non con la gente portata fuori ma chiusa dentro le mura di casa. Una città, come tutte le altre, incredula, atterrita, mortificata. Naturalmente non dimenticherò mai le immagini, quelle per forza viste in tv, della micidiale trincea vissuta negli ospedali, senza precedenti nella Storia repubblicana. E soprattutto mi rimarrà dentro il conflitto di sentimenti tra lo strazio e la speranza, tra l’angoscia e la resistenza, tra l’isolamento e la coralità. Inutile ingannarsi, è durissima. Ma è anche tra le esperienze più profonde che si possano fare nella vita.

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Porta Portese,
domenica mattina
Non le tempeste di neve, né le scosse sismiche, né la crisi economica hanno mai impedito di montare le bancarelle del più grande mercato di Roma.

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Siparietto comico serale per alleggerire tutte le considerazioni apocalittiche di questi tempi
Da quando sto tombata in casa (si fa per dire perché l’oretta di passeggio in incognito intorno all’isolato con la simil-sporta della spesa non me la toglie nessuno), io non ho più pace. Il tempo mi vola via alla velocità della luce, riesco a fare a mala pena un terzo delle cose che mi propongo di fare, mi ammattisco con tutte queste piattaforme digitali per la didattica a distanza che ti fanno perdere un sacco di tempo, due chiamate al giorno sui balconi perché sennò i vicini minacciano di contagiarmi l’appartamento con subdole infiltrazioni virali, un fuoco di fila di notifiche dai social scatenati come belve selvagge che non mi lascia un attimo di respiro, chiamate improbabili di amici su Skype che non ricordavo nemmeno più che esistessero, uno stress continuo da non vedere l’ora di uscire per isolarmi in qualche posto deserto incontaminato! E poi ti suggeriscono di leggere un libro, di vedere un film, di restare in contatto con gli amici per non annoiarti? Ma è un lusso! Infine basta con questo “andrà tutto bene”, porta sfiga!

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Certo che dalla vita mi sarei aspettata di tutto. Ma ritrovarmi collegata alla piattaforma MEET per illustrare agli studenti come Bowman sia riuscito a disinnescare le unità di memoria di HAL per compiere la sua missione su Giove in Odissea 2001 di Kubrick, stando chiusa dentro una stanza nel 2020 a causa di una pandemia, la trovo davvero una cosa surreale.

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Una beffarda circostanza della sorte mi ha portato a finire di leggere La montagna incantata di Thomas Mann in concomitanza dell’espandersi dell’epidemia. Un sanatorio svizzero per infezioni polmonari in cui confluiscono memorabili personaggi che rappresentano le maggiori correnti filosofiche del Novecento. Un’opera somma sulle grandi contraddizioni del secolo incarnate da tubercolotici che soccombono o si uccidono. Profetica, emblematica, necessaria.

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Un capolavoro assoluto di quel genio di George Perec, un romanzo di romanzi che racconta le storie degli inquilini presenti e passati in uno stabile parigino di un centinaio di stanze, in un arco temporale di più di cent’anni, mescolando indagini poliziesche, avventure paradossali, delitti esilaranti con strepitosi elenchi di cose. L’avevo finito di leggere appena prima che scoppiasse l’epidemia, ora ripenso a quel geniale labirinto di storie generate da asfittiche stanze di un condominio che si trasformano in incredibili universi di fantasia. Un’ottima guida per levare l’immaginazione oltre le mura delle nostre costrizioni domestiche.

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Che il Covid-19 sia stato sintetizzato in laboratorio a scopo di rappresaglia internazionale o di egemonia di potere è una boiata pazzesca, ma non è che se il virus è “naturale” non ci sia stata responsabilità da parte dell’uomo. Deforestazione massiva, predazione di animali selvatici, loro commercio illegale nei mercati umidi, conseguente salto di specie del virus e sua diffusione nel mondo è solo opera dell’uomo, e non come si vede in una favola per spiegare il contagio ai bambini in cui il virus salta sulla testa dell’uomo che per caso passa sotto il pipistrello! È sempre una questione di narrazione: delirante quella del complotto, semplificata quella per l’infanzia, atrocemente vera quella della realtà di fatto.

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Ritorna a più riprese, in questi giorni, la celebre frase di Blaise Pascal: “Tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa, dal non sapere starsene da soli, in una camera”, che in tempi non sospetti avevo scelto tra le citazioni in calce a “Scacco all’isola”, il mio thriller in uscita a giugno, sempre con l’indulgente concessione del Covid-19. Tema, quello del riuscire a stare soli senza soccombere alla necessità di dipendere da legami, che disegna l’orbita di tutto il romanzo. Con l’intuizione di aver immaginato un luogo di “isolamento” prima di ritrovarmi a viverlo e la beffa di attendere che diventi pubblico solo dopo che quello reale sia finito.

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Ormai non sembra più di stare in città. I gatti si fanno la toletta spaparanzati in mezzo alla strada e se ti avvicini troppo ti soffiano ferini come tigrotti viziati. I gabbiani banchettano indisturbati sui cassonetti e se ci passi davanti ti guardano con occhi assassini come in Birds. I piccioni svolazzano indolenti qua e là e poi ti vengono sotto a saltelli incattiviti come faine a caccia di insetti. Le cornacchie gracidano stridule sugli alberi lanciandosi richiami funesti che nel silenzio irreale incombono come malaguri. Abbiamo tolto i pipistrelli dalle foreste e nella foresta ci siamo finiti noi.

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STATO DELL’ARTE
C’ho quattro indirizzi di posta elettronica, due piattaforme interattive con tre classi di esami e tre classi di corsi, vari canali pubblici, privati e misti, chiavi segrete di accesso, documenti secretati in remoto, materiali visibili ma non modificabili, altri condivisi ma alterabili, altri nascosti ma rivedibili, altri ancora che non so più dove stanno e soprattutto a cosa servono, manco fossi in un gabinetto della Nasa, al massimo sono nel mio che non devo nemmeno condividere con nessuno perché è dall’8 marzo che non vedo uno straccio di cristiano! E non solo, ci metto pure atei, eretici, agnostici e gente di altre fedi. Poi non ne posso più di sentire parlare solo di coronavirus, la vera dittatura sui nostri cervelli anestetizzati da overdose e fake news! Così invece di annegare tra articoli variamente pandemici di evadere in streaming a caccia di serie tv mi difendo leggendo Céline, naufragando nel suo linguaggio, perdendomi nella sua causticità, sottraendomi alla tempesta tecnologica aggrappata allo scoglio di una narrazione viscerale e rapace.

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#echecazzo!

 

#quandotuttoquestosaràfinito
#persuadereicinesichelequagliesonopiùbuonedeipipistrelli
#convincereitedeschicheilterzoreichormaièacquapassata
#direagliitalianichenemmenostavoltasonostatioccupati
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#smetterediscriverecazzateconhashtaglunghissimi

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Lo so, sarò politicamente scorretta ma c’è qualcosa di questa quarantena che mi seduce, mi affascina, mi rivela dimensioni insospettate, mi stimola orizzonti immaginari. E già con largo anticipo avverto l’ineluttabile amarezza di quando pure questa finirà.

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Più del Mes o dei Coronabond, più di Conte o dei sovranisti, più della fase 1 o della fase 2, più dei rancori o delle polemiche possono soltanto i libri. Intanto i loro templi riaprono, primi avamposti di una rinascita della cultura che possa almeno far sollevare i nostri sguardi offuscati verso altri orizzonti possibili.

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Per chi non ce la fa più, le prime dieci ragioni perché questa quarantena è stupenda:
1. Essere in una botte di ferro. Quando circoleremo di nuovo saremo molto più a rischio
2. Per i cittadini essersi sottratti alla dannazione infernale del traffico metropolitano
3. Per gli indiani vedere l’Himalaya, per tutti gli altri vedere ogni cosa con più nitore
4. Avere molte più libertà agli arresti domiciliari di quante ne avevamo a piede libero
5. Non avere mai l’ansia di arrivare in ritardo da qualche parte
6. Per i romani non avere più l’ansia che da qualche parte ci si possa arrivare!
7. Con buona pace di Cacciari scoprire che la casa non è un inferno ma un’immensa risorsa
8. Dare la propria cadenza al tempo, proprietà esclusiva delle divinità dell’Olimpo
9. Lavorare da casa, al netto di spostamenti, stress, imprevisti, scioperi, rovesci, incidenti
10. L’ebbrezza di dividersi tra tecnologia avveniristica e vita medievale prima dei motori a scoppio

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Le cose più difficili con cui convivere in questa quarantena sono la virulenza delle teorie del complotto, la visionarietà delle proiezioni catastrofiste, l’allarmismo degli scenari dittatoriali, l’intolleranza tetragona alla contingenza emergenziale, il monopolio assoluto dell’informazione monotematica, l’ottundimento delle coscienze intorno a un unico orizzonte, l’arrogante certezza delle verità rivelate, l’insopportabile ribellione di alcuni che pensano che tutti gli altri siano degli imbecilli. Se non fosse per tutto questo ogni cosa sarebbe più praticabile.

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Quello che mi manca tanto oggi è un Giorgio Gaber che ironizzi un po’ su quello che è di destra o di sinistra, la sgangheratezza italiana delle regioni ribelli o l’efficentismo teutonico da Potenza dell’Asse, il terrore di commettere altri errori dei tanti già fatti o la smania di battere tutti di una spanna sulla ripresa. Ma forse non basterebbero nemmeno quelle categorie e ciò che è peggio non c’è nessuno che ce le canti.

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La Germania è come quel compagno di banco che ha sempre la risposta pronta, non ne sbaglia mai una, si compiace di tutto quello che sa e gli riesce al meglio ogni cosa che fa, non ha mai marinato la scuola, né ancor meno si è fatto una canna, evita di far copiare qualcuno per non prendersi la nota dall’insegnante, protesta con chi rimane indietro perché rallenta il corso delle lezioni. È puntiglioso e pierinesco, rimane sempre in disparte quando si tratta di fare troppo casino, non si rotola mai sui prati per non sporcarsi i vestiti e subire il rimprovero della madre. È quel compagno che non sai se odiare o compatire finché ti rimane vicino di banco. Quando poi te lo ritrovi come capo sul posto di lavoro o come partner intorno a un tavolo di trattative capisci che è tardi per aver mancato l’occasione di fracassargli la testa da piccolo.

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WRITERS’ EMERGENCY!

L’iracondo tycoon minaccia di far pagare alla Cina il fio per essersi fatta scappare il Covid dalla provetta, il venerabile Premio Nobel denuncia l’innesto del virus dell’Aids nel virus Corona come origine di tutto il disastro, il Bel Paese urla alla condanna a vita di un lockdown sempiterno a fronte del resto del mondo che già decolla verso un futuro radioso… come autrice protesto contro l’invasione di campo, il furto del mestiere, l’abuso di creatività che condannano l’intera categoria di scrittori a un oblio immeritato, al rischio di estinzione, all’incapacità permanente di inventare storie migliori!

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L’unica cosa certa è che agli italiani piace tanto la drammatizzazione: e le restrizioni emergenziali che compromettono irreversibilmente la democrazia, e i virus sfuggiti dal laboratorio che non vengono nemmeno denunciati, e le applicazioni anticontagio che controllano i nostri segreti più inconfessabili, e i vaccini imposti dall’alto dei cieli che annientano le nostre difese immunitarie… una sola preghiera: prendiamo appunti di queste grandi scene madri e almeno per non annoiarci cambiamo canovaccio alla prossima pandemia. ?

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Fuor d’ironia, una cosa seria la vorrei dire pure io. La quarantena non è una tragedia. Vi assicuro c’è di peggio. È problematica per chi ha un figlio autistico, un partner violento, un anziano malato, un lavoro compromesso. È senz’altro tragica per chi ha perso e continua a perdere i propri affetti nel modo più atroce e straziante. Ma per chi non ha grandi problemi familiari, lavorativi o sanitari le strategie per “sopravvivere” sono infinite.
Per questo il peso più grande di questa costrizione per me è stato quello di sopportare non tanto le varie forme di complottismo che ormai sono diventate folclore, anzi sono state una colonna sonora di maggior intrattenimento che non i canti dai balconi, ma tutte le riflessioni paranoidi che sono state sviluppate intorno ai temi della libertà, del lavoro, della famiglia.
Perché il podista che corre lungo la battigia e lo si ferma per multarlo è un membro della comunità e come tale si deve attenere alle disposizioni emergenziali del momento, anche se è solo, anche se è l’unico, proprio perché non può fare eccezione rispetto a tutti gli altri che sarebbero legittimati ad imitarlo.
Perché l’operaio che torna per primo al lavoro rispetto al ristoratore non è per sfruttamento capitalistico, ma per una ratio di contagio, che non ha nulla a che vedere con i diritti umani o le relazioni sociali, ma attiene a una gradualità di reinserimento che obbedisce alla performance di una pandemia.
Perché la nonna che si può andare a trovare, anziché l’amante o l’amico, è in virtù del fatto che in una situazione d’emergenza un anziano può avere più necessità di essere assistito, mentre l’amante può essere lasciato un attimo in sospeso (vi giuro si può fare) e l’amico può essere incontrato sotto un bel sole anziché per un tè in salotto.
Infine nell’affermazione: “quando vengono limitati gli spostamenti delle persone malate è quarantena e quando vengono limitati gli spostamenti delle persone sane è dittatura” c’è la sintesi di tutto questo delirio collettivo a cui sfugge persino il fatto elementare che nella fattispecie non si poteva fare alcuna distinzione tra “sani” e “malati”, dato che i primi (positivi, asintomatici) potevano essere tanto contagiosi quanto i secondi.
Meno male che in tutto ciò ho potuto trovare conforto nella satira arguta, nella sintesi fulminante, nell’accostamento geniale, nella risoluzione felice dei fumetti animati di Zerocalcare.

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